Palazzeschi – Il controdolore

Il controdolore di Palazzeschi è considerato uno dei manifesti del futurismo. Il testo è del 1913.

“Dio non à né corpo, né mani, né piedi, è un puro e semplicissimo spirito”.
Ma chi volle dare un’immagine agli uomini di questo fattore dell’universo, dovette servirsi di una immagine umana e ce lo fece vedere uomo. Fu un omone grande grande, o nudo, dalle membra e dai muscoli ciclopici, o con un magnifico peplo e con sandali, con capelli e barba meravigliosi, con l’indice titanico della mano levata in aria terribile di comando: luce o tenebre, vita o morte.
Se uomo volete raffigurarvelo, per comodità del vostro cervello, questo spirito supremo ed infinito, perché grande, quando voi dovete forzatamente fissare dei limiti a questa grandezza? La vostra non potrà mai arrivare alla sua, dunque pensate addirittura ad un uomo come voi e sarete al vostro posto.

Perché in peplo e non in tait? Perché in coturno e non con un comune paio di scarpe walk-over? Perché un’immagine seria e relativamente grande è più facile di una relativamente piccola e allegra. E’ il suo spirito che voi dovete riuscire a scoprire; il suo corpo, che non esiste, potete raffigurarvelo come vi pare e piace.
Se io me lo figuro uomo, non lo vedo né più grande né più piccino di me. Un omettino di sempre media statura, di sempre media età, di sempre medie proporzioni, che mi stupisce per una cosa soltanto: che mentre io lo considero titubante e spaventato, egli mi guarda ridendo a crepapelle. La sua faccettina rotonda divinamente ride come incendiata da una risata infinita ed eterna, e la sua pancina tremola, tremola in quella gioia. Perché dovrebbe questo spirito essere la perfezione della serietà e non quella dell’allegria? Secondo me, nella sua bocca divina si accentra l’universo in una eterna motrice risata. Egli non à creato no,rassicuratevi, per un tragico, o malinconico, o nostalgico fine; à creato perché ciò lo divertiva. Voi lavorate per alimentare bene voi e i vostri figli, non per fare con essi lunghi sbadigli di fame. Egli lavorò per tenere alimentata la gioia sua ed offrirne alle sue degne creature. E comprenderete bene che per divertirsi tutti in eterno, ce ne vogliono dei curiosi ed eterni spettacoli!
Come avevate potuto pensare che egli avesse creato se ciò fosse stata cosa tediosa? Come poteva venirci da questa forza smisurata, opera da perditempo senza spirito? Bando dunque a tutta la vostra serietà, se volete comprendere qualche cosa di lui e della sua creazione, e specialmente di questa piccolissima parte che ci riguarda: la nostra terra. Il sole sarà, per esempio, il suo giuoco preferito per lunghe interminabili partite di pallone; la luna il suo specchio comico dalla luce tutta bitorzoluta, cosicché egli potrà vedervisi nelle più ridicole maniere, La nostra terra non è dunque che uno di questi suoi tanti giocattoli fatto precisamente così: un campo diviso da una fittissima macchia di marruche, spini, pruni, pungiglioni. A’ posto l’uomo da un lato dicendo ad esso: attraversala, là è la gioia, è il largo, la vita degli eletti, vivrai coi pochi coraggiosi che come te l’attraverseranno. Riderai del dolore dei poltroni, dei paurosi, dei caduti, dei vili, dei vinti,
Fino dal primo momento l’uomo è in massima parte rimasto fuori a lamentarsi, a considerare lo spessore dell’oscuro ammasso del prunaio, a misurare la proporzione, la lunghezza, la quantità, la posizione degli spunzoni, a tentare di contarne il numero, a cercarvi un introvabile pertugio, a far paragoni fra questo e quello, invece di buttarvisi dentro risoluto. Alcuni vi sono in mezzo, incapaci di andare avanti o indietro, preferendo vivere con un pruno in un occhio, piuttosto che affrontarne uno non si sa dove. Questi gridano disperatamente, e i loro lagni scoraggiano sempre più quelli che sono ancora fuori, mentre fanno sempre più sganasciare dalle risa e tenersi la pancia per non liquefarsi dalla gioia, quei pochissimi che vivono ridendo, protetti dal loro signore, che al centro di tutte le cose ride più di loro.
Il piagnucolamento delle moltitudini esterne, solletica perennemente il bollore della loro allegrezza; le grida disperate di quelli che stanno dentro la siepe gli fanno dare lanci di giubilo. Ecco press’a poco il giuoco.
L’uomo che attraverserà coraggiosamente il dolore umano godrà dello spettacolo divino del suo Dio. Egli si farà simile a lui, attraversando questo purgatorio di spine ch’egli gli à imposto per godere primo lui e comunicare la stessa gioia ai suoi diletti, egli, corpo umano, ma perfettissimo, che non à sulle sue membra di gioia una sola cicatrice di dolore.
Uomini, non siete creati, no, per soffrire; nulla fu fatto nell’ora di tristezza e per la tristezza; tutto fu fatto per il gaudio eterno. Il dolore è transitorio (voi soli ne eternate l’esistenza con la vostra paura); la gioia è eterna. Ecco il vero peccato originale, ecco il solo fonte battesimale. Vili! Paurosi! Poltroni! Incerti! Ritardatari! Passate la macchia! Se credete che sia profondo ciò che comunemente s’intende per serio siete dei superficiali. La superiorità dell’uomo su tutti gli animali è che ad esso solo fu dato il privilegio divino del riso, Essi non potranno mai comunicare con Dio. Un piccolo e misero topo, può farci udire il suo pianto, i suoi lamenti; nessun animale ci à fatto ancora udire una calda sonora risata.
Che il riso (gioia) è più profondo del pianto (dolore), ce lo dimostra il fatto che l’uomo, appena nato, quando è ancora incapace di tutto, è però abilissimo di lunghi interminabili piagnistei. Prima che possa pagarsi il lusso di una bella risata avrà dovuto seguire una buona maturazione.
Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride. La serietà in tal caso ci viene dalla ammirazione, dall’invidia, dalla vanità. Quello che si dice il dolore umano non è che il corpo caldo ed intenso della gioia ricoperto di una gelatina di fredde lagrime grigiastre. Scortecciate e troverete la felicità.
Si è fino alla nausea fatto del vieto romanticismo sopra le sventure umane; le deformità del corpo, le malattie, le passioni, la miseria, la vecchiaia, i cataclismi, le carestie, furono ritenute sciagure tutte da bagnare di pianto. Se esse fossero state un tantino approfondite, noi le avremmo già come le fonti più vive della nostra allegrezza. Nulla fu creato con malinconia, ricordatelo bene; nulla è triste profondamente, tutto è gioioso.
Un giorno natura, questa vecchia pittrice da accademia,dopo avere impartite al suo quadro mille spasmodiche sfumature di luci e di colori, coi suoi tramonti e colle sue aurore, mille toni di verde e di azzurro, “Ecco! – ella avrebbe detto alla fine aprendo la porta del suo studio a un uomo senz’occhi: – venite, guardate!” E credete proprio che essa fosse così sciocchina da farlo, se ciò non era spiritoso?
Il cieco ci rappresenta la profondità, il privilegio di tutte le viste. Egli à chiusa in sé la gioia di tutte le luci e di tutti i colori. Se voi lo guardate con aria lagrimosa siete dei poveri cervellini da tre centesimi. E ridetegli pure in faccia, a questo beniamino! Natura ve lo indica per questo. Siete ancora degli esseri compassionevoli? Egli non vi vedrà. Siete ancora dei vili paurosi? Ma egli è il solo che non potrà battersi con voi.
Un gobbo, natura ve lo indica perché gli ridiate dietro, e proprio dietro nella schiena essa gli pose il tesoro della sua giocondità. Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita a cantare dolorosamente non potrebbe essere mai e poi mai un uomo profondo, ma il più superficiale di questa terra. Egli si sarebbe fermato a piagnucolare alla superficie della sua gobba come un fanciullo alla parola “bao” dopo averci rubato lo scrigno del suo tesoro dorsale per non essere stato capace di penetrarlo.
Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo.
Non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano. L’uomo che ride del riso stesso, o servendosi della gioia già scavata da altri, o è un poltrone, o un impotente, e ride, come se uno gli facesse il solletico sotto la gola, un riso meccanico. E’ come se uno credesse di sfamarsi guardando mangiare. Così furono fino ad ora le arti, il teatro, la letteratura: galleggiare sul dolore umano, servirsi della gioia già scavata da un altro, facendocela vedere già fuori senza insegnarci il modo di scuoprirla. Il soliloquio di Amleto, la gelosia di Otello, la pazzia di Lear, le furie di Oreste, la fine di Margherita Gautier, i gemiti di Osvaldo, veduti ed ascoltati da un pubblico intelligente devono suscitare le più clamorose risate.
Fissate bene in viso la morte, ed essa vi fornirà tanto da ridere per tutta la vita. Io affermo essere nell’uomo che piange, nell’uomo che muore, le massime sorgenti della gioia umana.
Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità, all’abitudine di approfondire tutti i fantasmi, tutte le apparenze funebri e dolorose della loro infanzia, alla capacità di servirsene per la loro gioia.
Per esercitare questo spirito di esplorazione nel dolore umano, fino dai primi anni li sottoporremo a prove facili. Gli forniremo giocattoli educativi, fantocci gobbi, ciechi, cancrenosi, sciancati, etici, sifilitici, che meccanicamente piangano, gridino, si lamentino, vengano assaliti da epilessia, peste, colera, emorragie, emorroidi, scoli, follia, svengano, rantolino, muoiano. Poi la loro maestra sarà idropica, ammalata di elefantiasi, oppure secca secca, lunga, con collo di giraffa. Le due saranno alternate ad insaputa della scolaresca, messe vicino, fatte piangere, fatte tirarsi i capelli, i pizzicotti, dire ahi! ohi! in tutti i toni possibili e immaginabili, nelle maniere più desolanti.
Un maestro piccolino piccolino, gobbo rachitico, ed uno gigantesco dalla faccia impubere, dalla voce esilissima, e dal pianto come un filo di vetro. Un altro lo bastonerà, o lo rimprovererà con voce cavernosa, mentre il gobbettino gli farà il pizzicorino dietro i ginocchi. I varii tipi messi insieme, alternati, fatti piangere, rincorrere, dire ahi! ohi! in tutti i toni, fatti morire.
Gl’insegnanti entreranno nelle classi sempre con svariata sapientissima maniera. Una mattina il maestro sarà fasciato per male di denti; una mattina avrà gonfia una guancia come per una patata ricevuta o levandosi il cappello avrà sopra il cranio lucido un enorme bitorzolo in mezzo, roseo lucente grosso come una mela, bubboni e foruncoli geniali, bendaggi, e fisserà gli alunni, e girerà per la classe serio, irato o malinconico, nostalgico, romantico, stupidamente innamorato della maestra idropica, o non corrisposto dalla giraffa. Sarà zoppo, guercio, marcio, sciancato. A seconda delle loro più o meno intense qualità naturali saranno questi insegnanti retribuiti.
Per abituare i loro alunni a ridere sinceramente di tutte le cose dette serie dovranno certo possedere specialissime attitudini, intelligenza pratica delle giovani coscienze, dei teneri cervelli.
La signora idropica darà tre enormi soffi e cadrà morta sulla sua poltrona, Quella lunga lunga secca, col collo di giraffa, morirà con lanci da cavalletta e cadrà contro il muro colle gambe all’insù, dopo aver percorso in tutti i sensi la sua classe. Lunghe sapienti lezioni di boccacce, di pianti i più svariati, di tutti i possibili lamenti. Si faranno nel cortile della scuola falsi funerali: le bare verranno, dopo l’estrema benedizione del cadavere, scoperte e trovate piene di dolciumi o di figurine per i più piccoli, o partiranno da esse centinaia di topolini, prima bianchi, poi grigi, poi neri, o il cadavere sarà di pasta frolla per i più grandi, di cioccolata per i più piccoli, ed essi se ne contenderanno allegramente le membra. O si alzerà in aria terribile, o all’alzarsi del coperchio il suo naso si eleverà oltre due metri sulla sua faccia, per i più grandi ancora.
I tardivi, quelli predisposti irrimediabilmente alla malinconia, incapaci di addentrarsi un solo millimetro nell’interno delle cose, quelli che ridono poco e male, gl’imbecilli insomma delle nuove generazioni verranno prima curati con amore, con lezioni private, con ogni possibile mezzo, per sviluppare ogni loro possibilità, verranno poi espulsi, messi in appositi ricoveri, dove cresceranno e vivranno i poveri infelici serii.
Le morti delle persone più care, tutte le loro sciagure, vi forniranno i momenti della vostra gioia più intensa. Pensate: essi ne toccano in quegli istanti il fondo e ve ne comunicano la profondità, che voi rispecchiandoli sottrarrete dal dolore, Io credo che anche un povero idiota che sia stato per tutta la vita incapace di vedere da sé, dovrà almeno ricordarsi in quell’ora i soffi della maestra idropica, gli stiracchiamenti di quella lunga e secca, i gemiti, i gridi, le boccacce degli insegnanti ecc.; il funerale dal quale saltarono fuori tanti topolini, quello nel quale il cadavere gonfiò gonfiò e salì per l’azzurro, o quello nel quale gustò un delizioso dito di pasta dolce, o un occhio caramellato. Oh! i baccanali dei nuovi funerali! I ritorni dai cimiteri, nuovi carnevali! Gli spettacoli negli ospedali, teatri delle nuove generazioni! Pensate alla nostra felicità e a quella dei nostri malati abituati a vedersi intorno facce tetre che rispecchiano la morte, quando si vedranno intorno negli appositi palchetti di osservazione, dame gobbe torte guercie, piene di bubboni, in décolleté, sbirciarli coi loro occhialini; elegantissimi giovani intignati, senza naso, gobbi, guerci, guardarli ridendo a crepapelle, come non si sentiranno essi padroni della gioia che è in fondo alla loro stessa carne? Tutto è da sperare dalla buona educazione dei giovani. Combattiamo dunque una educazione falsa e sbagliata, il rispetto umano, la compostezza, la linea, la bellezza, la giovinezza, la ricchezza, la pulizia, la libertà! Cioè, approfondiamo queste cose e troveremo in esse la loro ultima sostanza, il vero.
Ridere quando se ne à voglia, quando cioè il nostro ingegno, il nostro istinto più profondo ce ne suggeriscono il diritto, sviluppare questa che è la sola facoltà divina dell’essere umano. O’ veduto persone giovani, in special modo fanciulli, scappare a ridere istintivamente alla notizia di una sciagura che colpiva la loro famiglia o taluno dei loro amici. Se vi fosse stato taluno che avesse rimproverato quella creatura precocemente geniale, sviandola dal giusto cammino sul quale istintivamente muoveva i primi suoi passi, per colui s’innalzi pure la ghigliottina, che il giocondo spettacolo dell’universo non è per i suoi occhi.
Io affermo che anche nelle attuali circostanze della nostra coscienza umana rovesciata, sviata da una falsa educazione, l’uomo il più grave, il più maturo, che dopo aver superata una delle più gravi difficoltà della sua vita non si è sentito la voglia di fare uno sgambetto e non l’abbia addirittura fatto, era indegno di vincere quella battaglia. D’ora in poi, pensate, tutta la nostra vita sarà una serie interminabile di sgambetti.
Giovani, la vostra compagna sara gobba, orba, sciancata, calva, sorda, sganasciata, sdentata, puzzolente, avrà gesti da scimmia, voce da pappagallo, ecc. Sono queste le sole creature che hanno in loro realizzato già il patrimonio della felicità. Non vi attardate sulla sua bellezza, se disgraziatamente per voi ella vi sembra bella, approfonditela, e ne avrete la deformità. Non vi adagiate mollemente sull’onda del suo profumo; una spira acuta di quel puzzo ch’è la verità profonda della sua carne che adorate, potrebbe un giorno sorprendervi, sfasciare d’un tratto il vostro fragile sogno, farvi prigionieri del dolore. Non vi attardate sull’ora breve della vostra e della sua giovinezza, rimarrete per forza a galla sul dolore umano. Approfonditela e ne avrete la vecchiaia, verità che altrimenti vi rimarrà sconosciuta quando la possederete e sarete preda della nostalgia. Non vi fermate a nessun grado del deforme, del vecchio, essi non hanno come il bello e il giovane un limite; essi sono infiniti.
Voi godrete di più a veder correre tre carogne, rassicuratevi, che tre puro-sangue, Il puro sangue à in sé la carogna che sarà; cercatela, scuopritela, non attardatevi sulle sue linee di fugace splendore, Pensate con gioia alla sua ed alla vostra vecchiaia. In fondo ad essa è la profondità della vostra vita. Avrete la gioia di creare un nuovo essere. Pensate alla felicità di vedervi crescere attorno tanti piccoli gobbettini, orbiciattoli, nanerelli, zoppuncoli, esploratori divini di gioia. Invece di far mettere la parrucca alla vostra compagna, se non è calva del tutto voi la farete radere fino alla lucidità, e fatele imbottire la schiena, se non è proprio gobba.
Sganasciata sia la mobilia della vostra casa; sedie, letti, tavolini che cadono, che si rovesciano, che s’infrangono. Quando le vostre scarpe sono nuove pensatele e vedetele vecchie e rotte, per carità non cercate di vederle in buono stato quando saranno sfasciate: voi sarete perduti. Sganasciate, sdrucite mentalmente il mobilio della vostra casa, rompete mentalmente le vostre scarpe, i vostri abiti. Prevedete fra i vostri figli un gobbo, o sappiate vedere uno storpio nel vostro figlio più sano, una vecchia bagascia rauca in una giovinetta dalla voce d’usignolo. Approfondite, approfondite sempre; fissate la vecchiaia.
Venite! Venite! Nuovi eroi, nuovi genii della risata, sbucate nelle nostre braccia che vi attendono, fra le nostre bocche che ridono ridono ridono, fuori dalla macchia pungente del dolore umano.

CONCLUSIONI
Noi futuristi vogliamo guarire le razze latine, e specialmente la nostra, dal dolore cosciente, lue passatista aggravata dal romanticismo cronico, dall’affettività mostruosa e dal sentimentalismo pietoso che deprimono ogni italiano. Vogliamo perciò sistematicamente:
1. Distruggere il fantasma romantico ossessionante e doloroso delle cose dette gravi, estraendone e sviluppandone il ridicolo, col sussidio delle scienze, delle arti, della scuola.
2. Combattere il dolore fisico e morale con la loro stessa parodia. Insegnare ai bambini la massima varietà di sberleffi, di boccacce, di gemiti, lagni, strilli, per preservarli dagli abituali pianti.
3. Svalutare tutti i dolori possibili, penetrandoli, guardandoli da ogni lato, anatomizzandoli freddamente.
4. Invece di fermarsi nel buio del dolore, attraversarlo con slancio, per entrare nella luce della risata.
5. Crearsi fino da giovani il desiderio della vecchiaia, per non essere prima turbati dal fantasma di essa, poi da quello di una giovinezza che non potemmo godere. Sapersi creare la sensazione di tutti i possibili mali fisici e morali nell’ora di maggior salute e di serenità della nostra vita.
6. Sostituire l’uso dei profumi con quello dei puzzi. Fate invadere un salone da ballo da un odore fresco di rose e voi lo cullerete in un vano passeggero sorriso, fatelo invadere da quello più profondo della merda (profondità umana stupidamente misconosciuta) e voi lo farete agitare nell’ilarità, nella gioia. Voi prendete ai fiori le loro cime, i loro petali: siete dei superficiali; essi vi domandano quello che ci avete in fondo al vostro corpo di più intimo, di più maturo per la loro felicità: sono più profondi di voi.
7. Trarre dai contorcimenti e dai contrasti del dolore gli elementi della nuova risata.
8. Trasformare gli ospedali in ritrovi divertenti, mediante five o’ clock thea esilarantissimi, café-chantants, clowns Imporre agli ammalati delle fogge comiche, truccarli come attori, per suscitare fra loro una continua gaiezza. I visitatori non potranno entrare nei palchetti delle corsie se non dopo esser passati per un apposito istituto di laidezza e di schifo, nel quale si orneranno di enormi nasi foruncolosi, di finte bende, ecc. ecc.
9. Trasformare i funerali in cortei mascherati, predisposti e guidati da un umorista che sappia sfruttare tutto il grottesco del dolore. Modernizzare e rendere comfortables i cimiteri mediante buvettes, bars, skating, montagne russe, bagni turchi, palestre. Organizzare scampagnate diurne e bals masqués notturni nei cimiteri.
10. Non ridere nel vedere uno che ride (plagio inutile), ma saper ridere nel veder uno che piange. Istituire società ricreative nelle stanze mortuarie, dettare epitaffi a base di bisticci, calembours e doppi sensi. Sviluppare perciò quell’istinto utile e sano che ci fa ridere di un uomo che cade per terra e lasciarlo rialzare da sé comunicandogli la nostra allegria.
11. Trarre tutto un nuovo comico fecondo da una mescolanza di terremoti, naufragi, incendi, ecc.
12. Trasformare i manicomi in scuole di perfezionamento per le nuove generazioni.

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