Il convivio di Dante – Primo capitolo del primo trattato

  1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.
  2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza.
  3. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile.
  4. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sè tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.
  5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione.
  6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati.
  7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo!
  8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando.
  9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.
  10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.
  11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata.
  12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che nè denti nè lingua ha nè palato; nè alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.
  13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire.
  14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado.
  15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.
  16. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene.

  17. Chè altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perchè certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata.
  18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati.
  19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.
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