Recensione di 13 reasons why, la serie Netflix che sta appassionando anche l’Italia

Tredici ragioni per le quali una ragazza adolescente si suicida. Sono quelle che Hannah Baker (interpretata da Katherine Langford) racconta nella serie in onda su Netflix, una mini serie che ha fatto molto discutere in America ed anche in Italia.

La giovane ragazza decide, prima di suicidarsi, di registrare tredici cassette nelle quali racconta i motivi di tale gesto. La serie ricostruisce tutta la storia della ragazza e il suo rapporto con i suoi coetanei all’interno di un liceo americano. Al di là di alcuni stereotipi, la serie ha suscitato sicuramente una gran discussione ed è stata molto seguita. Molti i commenti e le recensioni.

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Per alcuni è risultata banale e non credibile, per altri invece ha colto nel segno perché è riuscita a rappresentare i sentimenti e i vissuti di chi soffre, durante l’adolescenza, a causa di una serie di dinamiche affettive e sociali che in quell’età sono importanti e certamente complesse.

Ma forse è proprio la complessità che manca in questa storia. Ovviamente trattare un tema delicato come il suicidio, in età così giovanile, è già di per sé una ‘materia complessa’.

Al di là dei singoli fatti che hanno scatenato in modo silente la decisione della protagonista di farla finita, che certamente non sono sufficienti a spiegare un tale gesto nei riguardi di se stessa e degli altri, quello che è importante della serie è un approccio non organicistico alla malattia mentale.
Ovvero, l’idea di voler trattare la depressione della ragazza analizzando, anche se non in modo sempre corretto, una serie di dinamiche nei rapporti che possono essere causa di malattia.

La superficialità della serie sta nel modo in cui affronta le dinamiche psichiche, ad esempio non si indaga affatto sull’infanzia della protagonista e in particolare il rapporto con i genitori che in questa storia sembrano essere solo vittime di un sistema che da una parte li fa essere assenti nei riguardi della figlia e dell’altra vittime di una realtà sociale spesso violenta e superficiale nei confronti dei propri simili.

Nella realtà purtroppo le cose sono più complesse ed anche un tantino più profonde. Andando al di là di questo però è possibile intravedere in questa serie un modo diverso di approcciare alla malattia mentale che si esplica in diverse forme; infatti, oltre ad Hannah Baker anche altri personaggi mostrano una serie di problematiche gravi sul piano affettivo e relazionale.

Una figura interessante che emerge nel tessuto sociale della scuola e della comunità è quella dello psicologo che dovrebbe, nella realtà e non solo nella serie, essere una figura importante che coglie le problematiche psicologiche ed aiuta i ragazzi ad affrontare la vita, mentre emerge la sua totalità incapacità di rendersi conto della grave situazione che attanaglia le vicende della scuola in cui lavora.

Prima della fine della serie un colloquio con Hannah mostra come lo psicologo affronti il disagio della protagonista in modo distorto, sottovalutando il dolore della ragazza e proponendole di fare finta di niente a seguito di una violenza subita da un suo compagno di scuola. Lo psicologo si rivela complice di un sistema di pensiero che, pur vedendo una serie di cose che non funzionano, invece di cercare di affrontarle e migliorarle fa finta di nulla nascondendole con il velo dell’indifferenza.

Questa ulteriore delusione sommata alle precedenti porta alla tragica fine della storia. Andando oltre la ricerca della vittima e dei carnefici, il merito della serie è quella di mostrare un aspetto della realtà da non sottovalutare ovvero come perfino gli addetti ai lavori e gli adulti di riferimento non siano in grado di rispondere adeguatamente ad importanti richieste d’aiuto.
Una serie commerciale che arriva ad un grande pubblico ed affronta queste tematiche potrebbe quindi aprire un dibattito importante su questi temi.

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