Haiku: l’essenza del Giappone e della cultura giapponese (ma anche uno scorcio dell’entroterra marchigiano)

Leggendo un haiku sembra di entrare con leggerezza, in punta di piedi in un giardino.
Giapponese, ovviamente.

Di quei giardini perfetti in equilibri estetici e sonori in cui, chi come me in Giappone non è stato mai, può soltanto entrare con la fantasia, attingendo al vago e immaginifico sapere geografico comune fatto di scorci meravigliosi in cui aleggia la netta percezione dell’estrema ricerca di ogni armonia tra colori e forme, spazi e materiali, elementi e livelli.

Una semplicità disarmante, eppure creata dall’uomo, che sembra voler concentrare in un unico spazio tutto un mondo, addomesticando ma anche onorando ciò che solo la natura può realizzare.

Un’istantanea. Un qui e ora su cui la natura basa le sue leggi, con mutamenti inevitabili, lenti, impercettibili, stagione dopo stagione, ma che se presi in ogni istante rappresentano un quadro a sé, un insieme conchiuso.

haiku - Giappone

Questa la mia sensazione quando leggo un haiku, uno di quei componimenti nati in Giappone nel diciassettesimo secolo, a cui molti poeti occidentali (e non a caso anche i nostri Ungaretti e Quasimodo) si sono successivamente avvicinati in struttura e contenuto.

Una forma di poesia dove avverto, come nell’immagine che ho dei tipici giardini giapponesi, la ricerca dell’essenzialità, dell’istantaneità, del compimento, ma nello stesso tempo anche la mano e la sensibilità di colui che ha fatto in modo che quel componimento (o quel giardino) si realizzasse.

Mi domando – e con molta probabilità ciò che sto pensando è già stato indagato da chissà quanti studiosi e letterati e quindi si potrebbe dimostrare una banalissima ovvietà, quando per me si tratta di una constatazione “a pelle”, che sinceramente per il momento mi farebbe piacere rimanesse tale, senza andare a cercare su Google se quel che penso sia già stato pensato da altri – mi domando, dunque, se il motivo per cui gli haiku, rigorosamente formati da diciassette more (ovvero durate di sillabe, non sillabe) distribuite su tre versi secondo lo schema 5-7-5, siano basati su suggestioni della natura ed anzi contengano tradizionalmente un accenno ad una specifica stagione dell’anno, proprio perché “costruiti” per rispecchiare la stessa sensazione di perfetto equilibrio estetico, sonoro e di contenuto che si prova nel passeggiare in un giardino giapponese.

Niente, mi domando questo. Perché la mia sensazione quando immagino un giardino giapponese e quando leggo gli haiku (di Matsuo Basho ad esempio, il poeta del Seicento che ne è considerato il massimo esponente, oppure di Kobayashi Issa, poeta e pittore vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento) è esattamente la stessa.
Voglio raccontare una cosa, senza riportare qui componimenti di cui è piena la rete e che sono facilmente rintracciabili inserendo semplicemente la parola “haiku” nei motori di ricerca.

Anni fa, sono stata chiamata a trascorrere un paio d’ore con un gruppo di bambini che partecipavano ad un centro estivo che si svolgeva in un parco urbano per parlar loro di poesia.

Trovando gli haiku particolarmente diretti e immediati come sono di natura i bambini, la prima idea che mi era venuta in mente era farglieli conoscere, spiegandone la struttura e leggendone alcuni. Avevo quindi preparato degli appunti e mi ero portata dietro dei testi da leggere ad alta voce.

L’ambientazione era questa: io, una dozzina di bambini tra i sei e i dieci anni e un paio di educatori seduti in cerchio all’ombra degli alberi del parco comunale di Serra de’ Conti, la cittadina marchigiana collocata sulle colline nell’entroterra senigalliese in cui abito da dodici anni, in una mattinata assolata di luglio.
I bambini erano stati ad ascoltare molto attentamente le mie spiegazioni sui contenuti e la storia degli haiku, avevano seguito in assoluto silenzio le letture che avevo scelto per loro, così come anche i miei tentativi di spiegare, contando sulle dita, la struttura delle diciassette more.

Quindi silenzio. Quindi, in risposta al loro silenzio, la mia domanda se questi haiku sembrassero loro interessanti. Quindi la loro domanda in risposta alla mia domanda di crearne uno insieme.
La mia risposta fu che mi pareva un’ottima idea, e che forse il modo migliore sarebbe stato partire dall’osservazione di quello che avevamo intorno e di provare a “guardare” con gli occhi di un poeta. Giapponese, per la precisione.

Ricordo come, seduti in cerchio, i bambini avessero fatto girare lo sguardo attorno a loro, in un sorprendente silenzio e con estrema concentrazione.
In pochi attimi – davvero pochissimi – mentre io, penna alla mano, riportavo via via sulla carta le parole che emergevano ora dall’uno ora dall’altro, in una successione incredibilmente sincrona, il loro haiku era nato:

Scale nascoste
radici come scale
alberi al sole.

Non so se quei bambini, che oggi hanno più o meno la maggiore età e che ho ormai praticamente perso di vista, se ne ricordino. Io, sinceramente, spero di sì, ma sicuramente non possono sapere quanto io abbia trovato magico quel momento, come mi sia stupita nel sentirli creare in un tempo brevissimo un componimento che alla base aveva essenzialmente tutto ciò che avevo cercato di trasmetter loro.

Certo, non un capolavoro, non come quegli haiku che sicuramente ora andrete a cercare su internet e che vi lasceranno (non tutti, ma sicuramente molti sì) stupefatti per la loro estrema e semplice bellezza, ma un’immagine perfetta di quel momento ricco di interesse, attenzione, osservazione e comprensione che si era creato lì tra gli alberi, nel silenzio rotto soltanto dalle cicale e dalle loro voci che facevano emergere parole precise, una dopo l’altra, ritmicamente, come perle che s’infilano per formare una collana.

Ora, quando mi capita di tenere dei corsi sulla poesia, quando parlo degli haiku, leggo sempre questo componimento in chiusura della lezione, spiegando che è stato scritto da dei bambini.

Un dono così, improvviso, che mi è stato fatto anni fa da piccoli poeti che, senza saperlo, restano nei miei ricordi e le cui parole ogni tanto possono ancora essere ascoltate, partite dalla semplicità e dall’attenta osservazione all’ombra degli alberi.

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