Il mal che n’addolora e il tedio che n’affoga. La quinta strofa della canzone Ad Angelo Mai di Leopardi

Angelo Mai, gesuita erudito del bergamasco e, dal 1838, cardinale, suscitò il più ardente entusiasmo nell’animo di Leopardi. Egli, infatti, mise a segno una lunga serie di brillanti ritrovamenti di testi classici che Leopardi studiò e su cui scrisse lungamente. Si può anzi dire che l’opera filologica del poeta di Recanati, dal 1816 ai primi Anni Venti, sia, sostanzialmente, un commento alle scoperte del Mai.

La canzone Ad Angelo Mai, composta nel gennaio del 1820, vede la luce dopo la scoperta del De Repubblica di Cicerone, testo che Mai regalò a Leopardi qualche anno dopo. I due, infatti, si conoscevano e intrattenevano uno scambio epistolare sin dal 1816.

Pubblicata prima singolarmente a spese dello stesso Leopardi, la canzone viene poi inserita nella raccolta Canzoni nel 1824 e poi, definitivamente, nelle tante edizioni dei Canti.

L’elogio Ad Angelo mai viene esplicitato nella prima e nell’ultima strofa mentre le dieci strofe centrali sono dedicate alla rievocazione dei grandi italiani del passato: Dante, Petrarca, Colombo, Ariosto, Tasso e Alfieri. Angelo Mai appartiene alla schiera di questi grandi personaggi proprio perché con le sue scoperte prova a risvegliare il nobile animo italiano, trascinato nel fango (“questo secol di fango”) dall’ “immonda plebe” dei tempi di Leopardi.

Da due versi della quinta strofa di questa canzone ho rubato il titolo di questo articolo.

La strofa in questione inizia con un elogio di Dante, “non domito nemico della fortuna”, che ebbe migliore sorte nell’inferno – il riferimento è naturalmente al viaggio di Dante nella Divina Commedia – che sulla terra, la biografia terrena di Dante è, in effetti, alquanto travagliata.
Il travaglio del padre della lingua italiana spinge Leopardi ad una domanda di carattere generale: quale luogo è peggiore del nostro?

Eran calde le tue ceneri sante,
non domito nemico
della fortuna, al cui sdegno e dolore
fu piú l’averno che la terra amico.
L’averno: e qual non è parte migliore
di questa nostra?

Leopardi prosegue confrontandosi con Petrarca, “sfortunato amante”, considerato colui che, nel dolore, inaugura l’ “italo canto”, ossia la poesia italiana. L’immagine di Petrarca è quella tradizionale, iniziatore della poesia e quindi “lirico” per antonomasia (il verso “le tue dolci corde” richiama la lira greca).

E le tue dolci corde
susurravano ancora
dal tocco di tua destra, o sfortunato
amante. Ahi! dal dolor comincia e nasce
l’italo canto.

Anche dal confronto con Petrarca nasce una considerazione di carattere generale, fulminea e sorprendente. Leopardi nello spazio di tre versi riesce a racchiudere un pensiero di rara profondità e intuito.

E pur men grava e morde
il mal che n’addolora
del tedio che n’affoga.

Vale a dire: più lieve è comunque il mal che n’addolora, ossia il dolore di Petrarca, che il tedio che n’affoga.
Leopardi fa quindi una distinzione ben netta tra due sentimenti che afferiscono alla stessa sfera, quella del dolore. E chiama “male”, il primo, e “tedio”, il secondo. Se il male addolora, il tedio fa affogare.

“Tedio” appare anche nel quinto verso della canzone, nelle prime domande che Leopardi rivolge all’ “italo ardito”, Angelo Mai, che senza posa risveglia con le sue scoperte i padri d’Italia per farli parlare al presente, il “secol morto”:

Italo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe
I nostri padri? ed a parlar gli meni
A questo secol morto, al quale incombe
Tanta nebbia di tedio?

Appare chiaro, già solo da queste due ricorrenze, che il tedio, per Leopardi, ha un significato ben più grave e profondo di quanto ne abbia per noi lettori contemporanei.

Per comprendere il riferimento, che nella rapidità poetica dei due versi rischia di rimanere oscuro, bisogna leggere un’estesa riflessione contenuta nello Zibaldone, meritoriamente riportata in nota nell’edizione Einaudi dei Canti, scritta nel giugno del 1820, ossia qualche mese dopo la canzone Ad Angelo Mai. E’ nello Zibaldone che sembra emergere tutto lo spessore filosofico del male e del tedio della canzone.

L’inizio della pagina dello Zibaldone sembra proprio una parafrasi delle due espressioni.

Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell’anima.

Da una parte, dunque, il dolore provato nelle grandi passioni e illusioni della vita, dall’altra l’affogamento causato dal vuoto dell’anima e dal sentimento della nullità di tutte le cose. Il mal che n’addolora è quindi dolore della vita, mentre il tedio è affogamento, un dolore di tutt’altra specie.
Leopardi prosegue continuando a leggere in opposizione questi due stati dell’animo. La differenza non sta tanto nel “desiderio della morte” che anche il dolore vivo può causare – il riferimento anche qui sembra essere proprio Petrarca – ma è nella diversa sostanza dei due dolori, il primo ha comunque sempre a che fare con la vita, il secondo è “tutto morte”.

Le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte;

Nel proseguo del brano Leopardi insiste nella contrapposizione, arrivando ad una descrizione del “tedio che n’affoga”, questo tipo di dolore che “è tutto morte” e che fa il “vuoto che si sente nell’anima”, francamente geniale:

e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è più sepolcrale, senz’azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza o dal pensiero dell’inferno.

Senza azione, senza movimento, senza calore. Quasi senza dolore. Difficile dire di più della morte causata da questo tedio, da questo dolore che, in fondo, non è neanche dolore. E’ qualcosa che le parole faticano a descrivere.

La prosecuzione del passo dello Zibaldone, scritta nello stesso giorno, e che a prima vista appare completamente scollegata dai pensieri precedenti, è proprio una riflessione sull’impossibilità di descrivere a parole alcuni tratti della passione. Alcune passioni possono solo essere espresse da gesti, da fremiti e da grida inarticolate, non da parole. Ma esiste una passione che nemmeno i gesti riescono a descrivere, è quella passione che crea immobilità. Nelle parole di Leopardi, riferite alle passioni, sembra ancora muoversi il pensiero del “tedio che n’affoga”, il “dolore che è tutto morte” di cui ha scritto poco prima:

La parola è un’arte imparata dagli uomini. Lo prova la varietà delle lingue. Il gesto è cosa naturale e insegnata dalla natura. Un’arte non può mai uguagliar la natura, per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. Perciò negli accessi delle grandi passioni, come la forza della natura è straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla, l’uomo è così occupato, che l’uso di un’arte per quanto familiarissima, gli è impossibile. Ma il gesto essendo naturale, lo vedrete facilmente dar segno di quello che prova con gesti e moti spesso vivissimi, o con grida inarticolate, fremiti, muggiti ec. che non hanno che fare colla parola, e si possono considerare come gesti. Eccetto se quella passione non produrrà in lui l’immobilità che suol essere effetto delle grandi passioni ne’ primi momenti in cui egli non è buono a nessun’azione. Nei momenti successivi non essendo buono all’uso della parola cioè dell’arte, pur è capace degli atti e del movimento. Del resto lo vedrete sempre in silenzio. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci) dell’ira, della maraviglia, del timore ec.

Tornando alla fine della quinta strofa della canzone Ad Angelo Mai, si capisce quanto “il tedio che n’affoga” – ora chiamato “fastidio” – sia in realtà proprio l’effetto dell’apparire del nulla nell’uomo.

Quel nulla che Petrarca, “a cui fu vita il pianto”, non ha mai provato e che invece Leopardi vede seduto accanto a noi:

Oh te beato,
a cui fu vita il pianto! A noi le fasce
cinse il fastidio; a noi presso la culla
immoto siede, e su la tomba, il nulla

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