Un museo cinematografico: interpretazione di “Ruben Brandt, Collector” di Milorad Krstic

[Pubblichiamo un’interpretazione di Cecilia Bassi del thriller animato ungherese “Ruben Brandt, Collector” di Milorad Krstic, uscito nel 2018.]

“A detta dei testimoni, una donna vestita di nero ha rotto la teca di vetro contenente il ventaglio ed è fuggita dalla finestra con un balzo all’indietro e si è allontanata con una Mercedes rossa in direzione di Place de la Concorde.” Mentre la voce esterna, probabilmente una radiocronaca, ci aggiorna sugli ultimi avvenimenti, un delicato movimento di cinepresa verso l’alto ci porta a spostare la nostra attenzione dai Gargoil sulla sinistra, alla vista della città. La ripresa panoramica mette in luce l’unico elemento luminoso che ci permette di riconoscere il luogo in cui ci troviamo: la Tour Effeil, cuore e simbolo dell’incantevole Parigi dagli ultimi decenni dell’Ottocento.

Questo “guardarsi intorno” continua fino ad evidenziare i ponti delle strade notturne che attraversano la Senna. Il nostro movimento di macchina si ferma nel momento in cui entrano in scena, da sinistra, due veicoli che sfrecciano sulle calme e solitarie strade della “Ville Lumière”. L’analisi della scena cinematografica che segue si basa sul confronto tra le inquadrature usate dal regista e i riferimenti e i richiami di carattere artistico e culturale che le stesse inquadrature istituiscono con le opere e la poetica di Pablo Picasso. Dopo un’avvincente montaggio di riprese in cui si rappresenta l’inseguimento delle due vetture per le strade di Parigi, due cineprese si alternano registrando un dialogo, con un campo-controcampo, tra i due conducenti, uno a fianco dell’altro. La prima cinepresa effettua un’inquadratura singola sul nostro inseguitore che gira la testa verso di essa, rivolgendo la parola all’altro personaggio: “Buongiorno Madame”.

L’altra cinepresa ci rivela un cambio d’inquadratura; ora il nostro dialogo si concentra sulla battuta della fuggitiva: “Mademoiselle!”. Quest’unica parola che pronuncia, insieme alla location in cui ci troviamo, indicano due indizi sui quali basare la nostra analisi delle prossime scene. Questi indizi ci conducono alle opere di Pablo Picasso, pittore e scultore spagnolo di fama mondiale che passò quasi tutta la sua vita in Francia. Viene ricordato principalmente per aver dato vita al movimento artistico del Cubismo. Tra le tante opere di capitale importanza che creò ne ricordiamo due in particolare: Les demoiselles d’Avignon del 1907 e Guernica del 1937, ma nel corso della sua vita produsse un’infinità di opere pittoriche, sculture e scenografie teatrali, alcune di queste le ritroveremo man mano analizzando le scene dell’inseguimento tra i due personaggi.

Tornando al dialogo, un altro fattore che salta all’occhio è la differente struttura delle due scene: la prima mette al centro del campo il viso del personaggio della vettura verde, mentre, nella seconda, il viso della donna, nonostante sia in primo piano, è spostato verso destra e nel centro, sullo sfondo, possiamo leggere una frase scritta sul muro: “Il n’est rien de réel que le rêve et l’amour”, che tradotto significa “non c’è niente di reale che il sogno e l’amore”; questa frase fu detta dalla poetessa e romanziera francese Anna de Noailles che pubblicò diversi scritti dopo il trasferimento di Picasso a Parigi ai primi del Novecento. La nostra attenzione, più che sulla frase stessa, cade sui due nomi scritti sotto: “Mathien + Anna”; due nomi che, per Picasso, non sono di insignificante importanza. Il nome Anna lo possiamo collegare alla direttrice della Galleria Borghese di Roma, Anna Coliva, che curò la mostra in onore di Picasso dal 24 ottobre 2018 al 3 febbraio 2019. Questa non fu una esposizione qualsiasi delle sue opere, ma mise in evidenza il suo genio nell’ambito della scultura, attraverso il suo lavoro Testa Femminile [FIG.1] (1) [Pablo Picasso, Testa di donna, 1909, bronzo, 56×70 cm, Musée National Picasso, Parigi, Francia] che Anna, in un’intervista, dichiara essere la sua “bomba”, opera riconosciuta come la prima scultura cubista che si allontanò dai canoni figurativi accademici; elementi che fino a quel momento non erano mai stati abbandonati dagli altri artisti precedenti e contemporanei a lui.

L’altro nome, invece, lo ritroviamo associato al fotografo Mathien Rabeau, che si occupò di effettuare diversi scatti alle opere di Picasso all’interno di questa mostra, usate poi per illustrare l’articolo pubblicato su internet insieme alle interviste della direttrice (2) [Fonte: presa dal sito web “ArtsLife the cultural revolution online” a cura di Vera Monti]. Questo fotografo, inoltre, non ebbe a che fare con Picasso solo in questo singolo evento, ma si occupò di fotografarne le opere anche in altri contesti; a esempio, sempre a Roma, nel 2016, alla mostra nel Museo dell’Ara Pacis in cui veniva raccontato il rapporto che Picasso aveva con la fotografia (3) [Fonte: presa dal sito web “Turismo.it – la mostra del giorno” de La Stampa il secolo XIX a cura di Maurizio Amore], o ancora, nel 2018, al Palazzo Reale di Milano, per la mostra intitolata Picasso-Méditerraanée che raccontava il rapporto del pittore con l’antichità (4) [Fonte: presa dal sito web “Inexhibit – TheMarker – Art”].

Ancora un breve scambio di parole tra i due personaggi, sempre in ripresa di dialogo, ci rivela, con la battuta della nostra ladra, il nome del conducente dell’auto verde, il detective Kolowalski. Neanche il tempo di far terminare le ultime parole della donna che sentiamo già il rombo del motore della macchina rossa, e, appena finita la battuta, la nostra cinepresa cambia di angolazione, mostrandoci in piano ravvicinato il cambio della sua macchina, che un gesto rapito e deciso ingrana la prima e fa ricominciare l’inseguimento.

Questa costruzione di piano filmico ci presenta di profilo la mezza figura della donna, dalla vita in su, che con insistenza cerca da dare una sardina al gatto sdraiato sul bidone di fronte a lei. Non casuale la scelta di dedicare uno spazio all’interno delle riprese a questo animale; forse non tutti sanno che Picasso, come altri artisti, era un grande amante dei gatti, soprattutto per la sua Minou. La trovò tra i marciapiedi di Parigi e decise di adottarla portandosela a casa, ma dopo poco le sue condizioni economiche lo costrinsero ad abbandonarla, non potendole comprare da mangiare. Si racconta che, lo stesso giorno in cui Minou venne lasciata da Picasso, la gatta andò a caccia per le strade parigine e tornò dal suo padrone con una salsiccia da condividere (5) [Fonte: dal sito web “Lifestyle” articolo sulla mostra di Sol Felpeto a cura di Cristina d’Antonio]. Una storia esemplare, dopo la quale i due diventarono inseparabili. Il gatto inquadrato presenta aspetti rinvenibili in un’opera di Picasso: gli occhi e le orecchie a punta sono visivamente simili a quelli del dipinto Gatto che divora un uccello [FIG.2] (6) [Pablo Picasso, Gatto che divora un uccello, 1939, olio su tela, 42×34 cm, Musée Picasso, Parigi, Francia].

Dopo la creazione di questa opera cambiò il modo in cui venne rappresentato questo felino, non più come un docile animale domestico, ma come un predatore forte e indipendente. Inoltre, la natura del gatto, può essere collegata alla natura della fuggitiva: il gatto è un cacciatore che conquista le sue prede, come la donna è una ladra che s’impossessa delle opere d’arte. L’inseguimento prosegue. Un montaggio continuativo inquadra le facce spaventate dei passanti, mentre le due macchine si fanno strada tra le vie parigine. I diversi posizionamenti delle cineprese ci fanno vivere l’azione da punti di vista diversi: attraverso gli occhi dei guidatori, dai lati della strada come se fossimo dei passanti che rivolgono l’attenzione a questa corsa, dalle vetture stesse che ci fanno vedere la velocità con cui si lasciano alle spalle gli edifici o l’arroganza con cui si mangiano la strada davanti a sé. Distogliamo per un secondo il nostro pensiero dalle due vetture incontrollate e osserviamo questa inquadratura angolare a lungo campo.

Alla destra del campo vediamo un poster appeso al muro che mostra una donna sdraiata sul letto priva dei suoi abiti con un gatto nero ai suoi piedi, impossibile non poter riconoscere l’opera Olympia di Édouard Manet; l’identificazione dell’opera diventa propedeutica per individuare “l’elemento intruso” all’interno dell’immagine filmica. Se spostiamo ancora di poco il nostro sguardo verso destra, quasi alla fine del campo ripreso, troveremo un personaggio appartenente a un’altra opera di Manet: Eugène Manet, protagonista del dipinto Le dejèuner sur l’herbe. «Alla vista della Colazione sull’erba di Manet intravedo dolori futuri» (7), frase detta da Pablo Picasso in persona. Egli era così ossessionato da quest’opera moderna e sovversiva che dal 1954 inizia un nuovo progetto artistico con lo scopo di riproporla nel suo stile [FIG.3] (8) [Pablo Picasso, La colazione sull’erba, 1960, olio su tela, 40×32 cm, Musée Picasso, Parigi, Francia]. Concluderà ufficialmente il suo lavoro ispirato a Manet nel 1970, dopo la realizzazione di 27 versioni diverse e 150 disegni preparatori (9) [Fonte: dal sito web “Famelici culture”, articolo “La colazione di Manet e Picasso: due quadri, lo stesso soggetto” a cura di Monica Viani].

La corsa tra le macchine si ferma proprio su questa scena; i due conducenti abbandonano i loro veicoli per proseguire l’inseguimento a piedi, addentrandosi nel famoso night bar e discoteca Pigalle accompagnati in sottofondo dal brano musicale dei Brian Poole e i The Tremeloes Do You Love Me?. Questa frenetica corsa ci riporta per un attimo sulle strade di Parigi, mostrandoci il retro della discoteca da cui i due personaggi sono appena usciti. In questa specifica inquadratura si vede solo il detective Kolowalski mentre si gira, dando le spalle alla cinepresa, verso la profondità del campo ripreso, attirato dal suono del clacson e dalle luci abbaglianti di un autobus. Seguendo i movimenti del personaggio, anche la nostra attenzione si sposta sul veicolo che avanza verso di noi e, man mano che si avvicina al centro dell’inquadratura, viene messa sempre più a fuoco la scritta riportata sul monitor dell’autobus, indicandone la direzione: N° 24 Châtelet.

La corsa del mezzo di trasporto che ci viene presentata, ovviamente, non è casuale: forse per chi non conosce Parigi il nome che si vede scritto è uno come un altro, ma sta ad indicare un edificio in particolare, il Théâtre du Châtelet; un teatro che, per Picasso, ebbe una certa importanza nella sua carriera. Il 18 maggio del 1917 fu presentato per la prima volta il balletto Parade in questo teatro e, all’apertura del sipario, invece di mostrare la prima scena dell’atto, fu mostrato un secondo sipario, dipinto da Picasso in onore di quello spettacolo; un’opera non cubista (come di solito si pensa quando si parla dei suoi lavori), ma più realistica in cui l’ambiente e i soggetti rappresentati sono facilmente riconoscibili: davanti a noi vediamo chiaramente un tendone da circo, con pagliacci e ballerini sul palco e un’incantevole cavalla bianca che accudisce il suo puledro[FIG.4] (10) [Pablo Picasso, Rideau pour le ballet Prade, 1917, pittura alla colla, 11×16 m (circa), Musée National d’Art Modern, Parigi, Francia].

Quest’opera di ampie dimensioni, viene considerata la sua più grande opera (11) [Fonte: dal sito web “Doppiozero”, articolo “Picasso-Parade: il sipario a Palazzo Barberini” a cura di Carlotta Sylos Calò]. Nonostante il balletto russo di Sergej Djagilev non ebbe per niente successo, non si può dire la stessa cosa per il sipario: da quella serata, dopo aver fatto la sua prima apparizione a Parigi, fu mostrata in parecchi musei; recentemente, solo qui in Italia, le due più grandi esposizioni furono a Roma, a Palazzo Barberini nel 2017, e a Napoli, nello stesso anno, nelle sale dell’Appartamento Reale. L’inseguimento non si ferma, l’uomo e la donna continuano la loro corsa per le strade, con posizionamenti delle riprese diversi tra loro; una carrellata segue i movimenti della nostra ladra mettendo a fuoco solo lei, lasciando il resto degli elementi nel campo non in risalto, e alcune cineprese, messe di fronte al detective, ci evidenziano la sua temerarietà, vedendolo avanzare verso di noi, come se fossimo il suo obiettivo. Nemmeno le altezze spaventano i nostri due personaggi, che si fanno strada tra un tetto a l’altro con abili acrobazie come se fossero dei trapezisti; fino ad arrivare alla fine dell’inseguimento, quando, dopo aver affrontato strade e palazzi, si lanciano da un ponte sul battello Gémeaux Paris, dove il nostro detective riesce a fermare la nostra ladra appendendola con una corda a testa in giù.

Appena prima che la nostra ladra riesca a scappare, ci mostra il ventaglio della regina egiziana Cleopatra che ha rubato dalla teca di vetro dentro il museo del Louvre. Un oggetto che rappresenta un’intera civiltà antica che per Picasso fu di grande riferimento per le sue opere d’arte. «Oggi è più viva che mai» (12) [Picasso]; con questa affermazione l’artista spagnolo elogia questa civiltà e la sua arte, considerandola fonte d’ispirazione per il movimento cubista: si pensi al modo di rappresentare le figure umane frontalmente o lateralmente, tipiche della poetica cubista, che derivano dalle pitture egizie. Non c’è da sorprendersi nello scoprire che Picasso aveva la sua collezione privata di oggetti africani, in particolare delle maschere; che contribuirono alla realizzazione di uno dei suoi dipinti più conosciuti al mondo: Les Demoiselles d’Avignon. Due chiari esempi di questa influenza li possiamo vedere prendendo in esame i due volti delle donne posti a destra dell’opera: quella in alto è ispirata alla figura del reliquiario di Kota proveniente dalla Repubblica popolare del Congo, mentre quella in basso dalla Maschera Mbuya proveniente dallo Zaire [FIG.5] (13) [Fonte: sezione dal 1900 al 1909 del libro “Arte dal 1900”, Zanichelli ed. 2017] (14) [Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela, 243 x 233 cm, MoMA, New York].

Cecilia Bassi

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