Chi sono gli hipster

Il termine “hipster” appare come una di quelle nuove definizioni che si danno a certi gruppi dei nostri giorni accomunati da certi aspetti, e, di primo acchito, a giovani che vestono in stile vintage e, per quanto riguarda gli uomini, con baffi e una lunga e folta barba, anch’essi in stile rétro, curati ma dall’aspetto incolto.

In realtà il termine non è affatto nuovo e quello che oggi sentiamo è semplicemente un “rilancio” di una parola che ha origini ben più attempate. Così come riporta l’Accademia della Crusca, si tratta di un termine già inserito tra i neologismi italiani fin dagli ultimi anni Ottanta del secolo scorso, a cui successivamente è stato dato addirittura il significato di “parente degenerato dell’hippy”. Se andiamo indietro nel tempo, arriviamo all’America degli anni Quaranta e Cinquanta, dove l’hipster era un appassionato di jazz (in particolare di bebop, che si distingueva dal più comune swing), disinteressato alla politica e attratto dalla moda informale, da cui deriverà poi la definizione successiva di “hippy”.

Di hipster possiamo leggere in “Sulla strada” del 1957 di Jack Kerouac, esponente della beat generation, come giovani anticonformisti e ribelli che rifiutano l’integrazione nella società in cui vivono, e ne possiamo sapere qualcosa anche da Italo Calvino che, nel 1962, indicò l’hipster durante la conferenza “I Beatniks e il «sistema»” come l’esistenzialista americano, colui che, bianco, ama il jazz e si identifica con la condizione degli afroamericani. In pratica, il “white negro” di cui aveva parlato Norman Mailer nel suo saggio del 1957. Dopo un lungo periodo in cui la definizione di “hipster” è caduta nel dimenticatoio, eccola tornare in voga a partire dagli anni Novanta, per poi rientrare nell’uso comune nel primo decennio del Duemila, quando si è iniziato a parlare proprio di “generazione hipster”.

ragazzo hipster in posa

Oggi la connotazione con cui vengono identificati gli hipster (a cui spesso ci si riferisce come a degli snob e dei quali Bologna è stata identificata dal “Sunday Times” come città simbolo italiana) è quello di giovani bohémien appartenenti alla borghesia che abitano in quartieri emergenti (nelle grandi città ci sono zone proprio legate agli hipster); non frequentano discoteche o i luoghi della movida, sono interessati alla cultura alternativa (arte, musica, cinema ma solo se di nicchia, cibo ma solo se biologico e a chilometro zero), amano la filosofia e gli stili di vita ecosostenibili, sono in grado di utilizzare la tecnologia ma sono attratti da tutto ciò che è analogico, si disinteressano della politica, amano i tatuaggi ma soprattutto i capi di abbigliamento in voga nella seconda metà del Novecento (“hip” del resto significa proprio aggiornato, all’ultima moda) con l’aggiunta di qualche elemento più eccentrico (per esempio grandi occhiali dalla montatura spessa o gadget démodé), per creare look originali e ironici.

Gli hipster sono in genere laureati, hanno tendenzialmente lavori precari nel settore informatico, nei media, nella moda, nel design, nella musica. Potenzialmente dei creativi quindi, ma che vengono considerati poco impegnati perché troppo attratti dal passato per inventare davvero qualcosa di nuovo o, forse, semplicemente figli del nostro tempo, precario di per sé e che stimola il bisogno di cercare qualcosa di autentico appartenuto al passato e di vivere comunque fuori dalle tendenze comuni.

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