Recensione del “Favoloso mondo di Amelie” di Jean-Pierre Jeunet

Ne è passato di tempo da quando, nell’aprile del 2001, uscì in Francia “Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain”, portato nelle sale italiane nel dicembre dello stesso anno con il titolo “Il favoloso mondo di Amélie”. Eppure, ecco un film che si fa ancora guardare. Per capire che cosa ha reso così iconica questa pellicola e perché ha ottenuto un così grande successo (molti i premi e le nomination, nonché incassi strepitosi in tutto il mondo) bisogna considerare un insieme di cose.

“Il favoloso mondo di Amélie” rappresenta infatti un mix vincente di elementi che ne hanno decretato il successo.
Innanzitutto la sua ambientazione, in una Parigi “favoleggiante” con sfumature bobo in cui pare di muoversi in una sorta di dimensione parallela, in un tempo che sì, come ci dice la voce fuoricampo che ci accompagna (di chi? dello stesso regista forse?), ci riporta, alla fine del film, al 28 settembre 1997, ma che nel corso della visione fa perdere un po’ l’orientamento. Una prova davvero notevole per Jean-Pierre Jeunet, suo regista e sceneggiatore, che aveva già dato modo di farsi apprezzare per film visionari diventati veri e propri cult come “Delicatessen”, del 1991, e (anche se in misura minore) “La città perduta”, del 1995.

Amelie film

Con “Il favoloso mondo di Amélie” Jeunet è infatti riuscito a rendere tutto accattivante, tutto… colorato, fantastico, grottesco ed esagerato ma tenero allo stesso tempo. In una parola, appunto: un mondo favoloso. Un mondo favoloso che è quello visto attraverso gli occhi della protagonista (o del narratore/regista? Forse un po’ come la visione della bambina in “Zazie dans le métro”, del 1960, di Luis Malle), Amélie Poulain, interpretata da una giovane Audrey Tautou, resa celebre proprio da questo film, che sembra entrare nella parte come se ci “scivolasse” dentro senza alcuna difficoltà, come se il look vintage del personaggio fosse esattamente quello che avrebbe scelto lei. In effetti c’è da chiedersi quale sarebbe stato il risultato se al suo posto ci fosse stata Emily Watson, scelta inizialmente per il ruolo di protagonista, visto che originariamente Amélie era stata pensata come una ragazza inglese.

Un’eroina davvero particolare, per la quale le piccole cose di tutti i giorni assumono un significato estremo, apparentemente fragile, nostalgica, curiosa, che invece di cercare di risolvere i suoi problemi si dedica agli altri cercando di utilizzare le sue “magie”, forse non per altruismo, ma per dare un senso alla sua vita, fino a quando – e qui scatta l’inevitabile identificazione con il personaggio – anche per lei arriva l’amore. Non meno azzeccato tutto il resto del cast, come l’attore Mathieu Kassovitz, che interpreta il personaggio di Nino Quincampoix, stravagante collezionista di fototessere che Amélie vuole conoscere ma senza incontrare, mettendo in piedi una serie di bizzarri stratagemmi.

Cosa dire poi della colonna sonora del compositore e polistrumentista minimalista francese Yann Tiersen, autore poi anche di quella, altrettanto splendida, di “Good Bye, Lenin!”, del regista tedesco Wolfgang Becker? La musica diventa importante quasi come uno dei personaggi, un filo conduttore che contribuisce a creare l’atmosfera sognante di tutto il film. Un film che ha avuto un successo straordinario, in cui, come si diceva, il regista è riuscito a dosare sapientemente elementi palesemente esagerati per non rendere l’insieme grottesco ed eccessivo, bensì armonioso, emozionante e divertente anche se improbabile.
Come ci si trovasse immersi in un mondo a parte, un fumetto o un cartone animato, dove tutto, appunto, può essere favoloso.

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