L’arte è indefinibile. La teoria del filosofo Weitz

Il dibattito sulla definizione di arte in ambito analitico nasce negli anni Cinquanta con alcuni autori (Ziff, 1953; Gallie, 1956; Weitz, 1956; Kennick, 1958), tutti in qualche modo influenzati da Wittgenstein, convinti che non si possa dare una definizione reale dell’arte. Per definizione reale si intende la definizione della cosa (res), ossia l’esplicitazione «dell’essenza di qualcosa», in opposizione alla definizione nominale, che consiste nell’esplicitazione del significato di una parola. [Cfr. ad es. http://www.treccani.it/enciclopedia/definizione_(Dizionario-di-filosofia)/].

Il saggio che viene spesse volte indicato come punto di partenza di questo dibattito è The Role of Theory in Aesthetics [nella traduzione italiana: M. Weitz, Il ruolo della teoria in estetica, in Estetica analitica, a cura di Pietro Kobau, Giovanni Matteucci, Stefano Velotti, il Mulino, 2007, Bologna] scritto da Morris Weitz nel 1956, sia per la fortuna che ha avuto (è uno dei saggi più citati, spesso polemicamente, dagli autori successivi), che per la chiarezza delle tesi esposte.

Les-Demoiselles-Avignon-picasso
Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon, 1907, MoMA, New York.

L’idea di Weitz è che le teorie del passato falliscano nel definire il concetto di arte non per particolari demeriti dei loro autori ma per la natura stessa del concetto. Tra le teorie che considera non soddisfacenti Weitz cita esplicitamente la teoria della Forma Significante di Bell e Fry, la posizione di Tolstoj e Ducasse che egli raggruppa sotto l’etichetta di emotivisti, la teoria di Croce, la posizione degli organicisti (con riferimento a Bradley) ed il volontarismo di Parker che egli considera comunque «il più interessante di tutti», [cfr. M. Weitz, Il ruolo della teoria in estetica, cit. in particolare p. 16].

Il concetto di arte, a dire di Weitz, è un “concetto aperto”, ossia un concetto le cui «condizioni di applicazione sono emendabili e correggibili» (p. 21) e perciò non definibile in linea di principio. Tale idea è applicabile a ogni forma d’arte, anche all’arte digitale contemporanea. Ecco come Weitz presenta questo concetto:

Un concetto è aperto se le sue condizioni di applicazione sono emendabili e correggibili; ad esempio, se può essere immaginata o prevista una situazione o un caso che richieda un qualche tipo di decisione da parte nostra, se estendere l’uso del concetto per comprenderlo, o chiudere il concetto e inventarne uno nuovo per trattare il nuovo caso e la sua nuova proprietà. Se possono essere stabilite delle condizioni di applicazione necessarie e sufficienti, allora il concetto è di tipo chiuso. Ma ciò può accadere soltanto in logica o in matematica, dove i concetti sono costruiti e completamente definiti. Con i concetti normativi e con quelli empiricamente descrittivi ciò non può accadere, a meno che non si proceda a una loro chiusura arbitraria, stipulando i limiti del loro uso.
[Ibidem]

Gli esempi successivi seguono l’idea proposta nel passo qui citato; concetti aperti sono ad esempio “romanzo”, infatti si può decidere di estendere il concetto di romanzo per fare in modo che esso sia applicabile ad un nuovo “scritto” simile per molti versi ai romanzi precedenti, e per lo stesso motivo “tragedia”, “commedia”, “pittura” ed “opera”. Lo stesso vale per “arte”.

E’ stato fatto notare come nel saggio di Weitz ci sia un certo slittamento inconsapevole dal piano delle opere d’arte a quello dell’arte in generale [su questo cfr. ad esempio, P. D’Angelo, (a cura di), Introduzione all’estetica analitica, Editori Laterza, Roma-Bari 2008; S. Velotti, Presentazione a M. Weitz, Il ruolo della teoria in estetica, cit.].

L’impossibilità della definizione dipende quindi dalla stessa creatività dell’arte che tende a trasgredire ed espandere i confini definitori in cui si pretende di “chiuderla”. Quanto ai concetti chiusi, quelli sì, possono essere definiti. L’esempio che fa Weitz in questo saggio è quello del concetto di “tragedia greca”, esso infatti, a differenza del concetto tragedia, può esser definito.

Questo esempio è in parte sorprendente visto che poco prima, proprio nel passo citato, il filosofo aveva sostenuto che gli unici concetti chiusi fossero quelli della logica e della matematica, eccezion fatta per le “chiusure” che stipulano i limiti dell’uso di un concetto in modo arbitrario. E’ tuttavia difficile pensare che il concetto di “tragedia greca” sia stato chiuso “arbitrariamente”. Al di là di questo, l’opposizione tra arte e tragedia greca, come esempi di concetti aperti e chiusi, è chiara.

Da una parte l’arte continua ad avere una sua vitalità e a produrre creazioni inedite che ne impediscono una definizione, dall’altra la tragedia greca è ormai un concetto limitato così come le condizioni del suo uso.

In un articolo del 1977 Weitz considererà un “brutto errore” quello di aver considerato “tragedia greca” un concetto chiuso, vedremo in un articolo successivo per quale motivo.

Il problema teorico della definizione di opera d’arte si sposta dunque su quello della decisione di se una nuova opera è arte (o romanzo, o pittura ecc.), oppure non lo è.

Sul come venga presa questa decisione, una questione a questo punto fondamentale, Weitz si richiama alle cosiddette «somiglianze di famiglia», riprendendo un’idea introdotta da Wittgenstein, citato esplicitamente, parlando del concetto di “gioco” (Così come delineato nelle Ricerche filosofiche, in particolare nei paragrafi 65-76).

A proposito delle “somiglianze di famiglia” Danto scriverà:

la scelta del concetto di famiglia per designare questo intrecciarsi di qualità fenotipiche è quasi incredibilmente infelice, dato che i membri di una famiglia, che si somiglino tanto o poco devono avere affiliazioni genetiche comuni che spiegano le loro « somiglianze di famiglia», e non si è membri di una certa famiglia se non a questa condizione, anche se magari si somiglia a un suo membro.
(A. C. Danto, La trasfigurazione del banale, Editori Laterza, Roma-Bari 2008., p. 73).

L’applicazione del concetto di gioco, così come quello di arte, sostiene Weitz, non è guidata da condizioni necessarie e sufficienti ma da una rete di somiglianze che si sovrappongono e si intrecciano senza tuttavia essere comuni a tutte le opere d’arte; in questo senso i giochi, e le opere d’arte, compongono una “famiglia” dalla struttura aperta.

Di fronte ad una nuova opera ed al dubbio su se considerarla un opera d’arte oppure no non si tenta mai, sostiene Weitz, di vedere se essa possiede le proprietà che la farebbero entrare nel concetto di arte, bisogna invece decidere se essa è simile, sotto «certi aspetti», alle opere d’arte precedentemente accettate come tali:

Siccome l’opera N+1 (la nuova opera) è simile ad A, B, C…, N sotto certi aspetti – ha intrecci di somiglianza con essi – il concetto viene esteso e si genera una nuova fase del romanzo. «N+1 è un romanzo?» dunque non è un problema fattuale ma decisionale.
[M. Weitz, Il ruolo della teoria in estetica, cit., p. 22]

Si tratta di una decisione che non è completamente arbitraria perché si basa sul riconoscimento di alcune somiglianze, ma che comunque può essere sempre messa in discussione, revocata o cambiata, appunto perché, come si ricordava all’inizio, è una decisione che riguarda un concetto aperto, le cui «condizioni di applicazione sono emendabili e correggibili».

L’estetica ha quindi il compito di chiarire il concetto di arte, non di trovare una teoria e una definizione.

Inoltre, continua Weitz, l’uso del concetto di arte è duplice. Da un lato esso è usato come un concetto descrittivo, dall’altro come un concetto valutativo. Nel caso in cui esso è descrittivo bisogna andare in cerca di condizioni che rendono l’affermazione «x è un opera d’arte» una affermazione corretta, ma esse non possono essere delle condizioni necessarie e sufficienti ma soltanto «delle condizioni di similitudine, ad esempio, fasci di proprietà, nessuna delle quali deve esserci necessariamente ma che nella maggior parte dei casi sono presenti, quando descriviamo cose come delle opere d’arte» (Ivi, p. 24).

Nel caso in cui “arte” venga inteso in senso valutativo dire che «x è un’opera d’arte» significa semplicemente elogiarla, dargli una definizione onorifica (Ivi, p. 26). Anche questo tipo di definizioni possono avere un ruolo positivo all’interno di una teoria estetica in quanto mettono comunque in luce alcuni aspetti dell’opera, favorendo ed arricchendo i dibattiti attorno ad essa. L’importante però, secondo Weitz, è non scambiare una definizione onorifica per una definizione reale. Una definizione onorifica, infatti, comporta lo scegliere uno o più criteri «preferiti di eccellenza o valutazione» (Ibidem) che però, anche in questo caso, non sono mai dei criteri necessari e sufficienti.

La chiusa del saggio di Weitz mira a sottolineare l’importanza del dibattito sulle definizioni di arte una volta reinterpretato il loro ruolo all’interno dell’estetica. Una teoria non può produrre una vera definizione ma può essere un’importante «ricapitolazione di raccomandazioni fatte seriamente riguardo il modo di prestare attenzione a certe caratteristiche dell’arte» (Ivi, p. 27).

Il saggio avrà molta fortuna e per l’estetica analitica sarà un punto di riferimento, anche polemico, costante. Le tesi esposte da Weitz, per come presentate in questo saggio, non sono esenti da ambiguità che, come vedremo, lo porteranno ad alcune significative autocritiche.

In particolare le somiglianze di famiglia, per il modo in cui vengono presentate in questo saggio, sembrano diventare lo strumento attraverso il quale si prende la decisione di considerare una nuova opera, un’opera d’arte. Sembrerebbe quindi che la somiglianza vada sempre cercata nel confronto tra una nuova opera e le opere d’arte del passato.

In questo modo si ha un regresso indefinito fino ad una prima ipotetica opera d’arte, che non può essere considerata tale in virtù della somiglianza con le opere precedenti. Questa prima opera, ipotetica, aprirebbe quindi nuovamente la questione dell’identificazione dell’artisticità dell’opera.

Mi conforta il fatto che questa problematica, questa ambiguità, venne rilevata con argomenti praticamente identici da Dickie [in particolare G. Dickie, The New Institutional Theory of Art, «Proceedings of the 8ᵀʰ Wittgenstein simposyum», n. 10, 1983, pp. 57-64, Trad. it, La nuova teoria istituzionale dell’arte, in Chiodo, Simona, a cura di, Che cosa è arte, UTET, Torino 2007, pp. 86-88].

In realtà però, l’argomento di Weitz è diverso da quello che potrebbe sembrare da queste obiezioni sul criterio delle somiglianze di famiglia. In un articolo che prenderò in considerazione in un successivo post sulla polemica con Mandelbaum, egli chiarirà meglio il ruolo delle “somiglianze di famiglia” nella sua proposta. Le somiglianze di famiglia servono solo a spiegare come si possa continuare a parlare d’arte nonostante non si disponga di una definizione nei termini di condizioni necessarie e sufficienti.

Il nostro uso del concetto di opera d’arte non dipende dall’applicazione di criteri necessari e sufficienti ma dal riconoscimento di alcune somiglianze di famiglia tra le opere d’arte. La questione riguarda quindi esclusivamente l’uso abituale di un concetto, non il modo di identificare un’opera d’arte. Weitz sottolinea in più passaggi che la sua proposta sulle somiglianze di famiglia non ha quindi a che fare con l’ontologia, ma esclusivamente con l’utilizzo del concetto di arte.

Quello che in questa ricognizione più interessa, è sottolineare come sia proprio questo saggio ad infuocare il dibattito analitico sulla definizione di arte.

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