Come scrivevo nell’articolo dedicato alla risposta data da Weitz alla critica di Mandelbaum, il dibattito analitico a proposito della definizione arte proseguirà, dopo il saggio di Mandelbaum del 1965 (Family Resemblances and Generalization Concerning the Arts), concentrandosi sulla ricerca di proprietà invisibili possedute dalle opere d’arte (le proprietà relazionali).
La ricerca di proprietà relazionali che possano definire il concetto di arte: è proprio questa la strada che prende Arthur Danto nel saggio The Artworld [Danto, A. C., The Artworld, in Jph, 61, 19 pp. 571-84; trad. it., Il mondo dell’arte, in Bollino, a cura di, 2003-2004, vol. I, pp. 65-86] e che articolerà ulteriormente negli anni successivi, in particolare in quella che verrà considerata la sua opera fondamentale, La trasfigurazione del banale.
Avremo modo di tornare su quest’opera di Danto, probabilmente il libro più noto tra quelli prodotti dai filosofi analitici in estetica. Danto, tra l’altro, è una figura particolare che non può probabilmente essere confinata nella sola tradizione analitica. Anche in virtù della sua biografia egli è uno di quei filosofi che “fanno da ponte” tra la tradizione analitica e quella continentale.
In questo articolo mi limito a sottolineare il contributo di Danto al dibattito analitico sulla definizione di arte.
La riflessione di Danto nasce dalla forte impressione che il filosofo provò nel vedere nel 1964, l’opera Brillo Box di Andy Warhol alla Stable Gallery di New York. Com’è noto l’opera consiste in una riproduzione in legno delle scatole di Brillo, una marca di pagliette saponate disponibile comunemente nei supermercati.
Cosa rende Brillo Box di Warhol un opera d’arte? Essendo l’opera esteriormente identica ad oggetti che opere d’arte non sono, sostiene Danto, bisognerà andare in cerca di qualche proprietà non percepibile, delle proprietà relazionali, non intrinseche all’opera.
Pur non dando una definizione in maniera “compatta”, Danto in La trasfigurazione del banale enumererà alcune caratteristiche che possono di fatto essere considerate una definizione essenzialista dell’arte, ossia una definizione che mira ad evidenziare proprietà necessarie e sufficienti.
Le opere d’arte hanno, secondo Danto, una aboutness, ossia hanno la proprietà di essere a-proposito-di qualcosa, per questo possono avere un titolo che ne orienta l’interpretazione. Le opere d’arte, inoltre, sono rappresentazioni causate intenzionalmente da un essere umano e proprio per questo richiedono una interpretazione che in un certo senso, come vedremo in un altro post, è necessaria a costruirne l’identità. Per di più questa interpretazione è fortemente legata alla struttura ellittica dell’opera, che va completata dal fruitore, Danto in questo senso parla di metaforicità delle opere d’arte. In un certo tempo poi un’opera può essere a-proposito-di qualcosa, ma in un altro contesto no. Esse hanno quindi a che fare con la storia, e con la storia dell’arte in particolar modo. Infine nell’ultimo capitolo de La trasfigurazione del banale Danto introduce il concetto di stile, che separa da quello di maniera, per marcare una distinzione tra un’opera d’arte e altre rappresentazioni comuni che possono ovviamente possedere una aboutness (le lastre, ad esempio). Questo porta a considerare anche il modo in cui una rappresentazione viene realizzata, e non solamente ciò a proposito di cui è.
L’intera riflessione di Danto ha generato molti dibattiti, sia in ambiente analitico che fuori, ma una nozione in particolar modo ha segnato la ricerca analitica sulla definizione di arte.
Vedere qualcosa come arte richiede qualcosa che l’occhio non può cogliere – un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo dell’arte
[A. Danto, Il mondo dell’arte, cit.]
La nozione di mondo dell’arte avrà grande fortuna in ambiente analitico grazie soprattutto a George Dickie il quale attorno ad essa costruirà una teoria nota come “teoria istituzionale dell’arte“.
Danto tuttavia prende esplicitamente le distanze da questa teoria:
Ho esposto per la prima volta le mie reazioni filosofiche alle scatole di Brillo nel 1965, su invito dell’American Philosophical Association. Il saggio che lessi in quell’occasione si intitolava Il mondo dell’arte, e allora ne ricavai la soddisfazione perversa di vederlo del tutto incompreso. L’articolo sarebbe rimasto a sonnecchiare in qualche vecchio numero del sepolcrale «Journal of Philosophy» se non fosse stato per due filosofi intraprendenti, Richard Sclafani e George Dickie, che gli hanno conferito una modesta fama. Gliene sono molto grato, e sono ancor più grato a coloro che hanno eretto quella cosa che porta il nome di «teoria istituzionale dell’arte» sulla base di un’analisi del Mondo dell’arte, benché quella teoria sia lontanissima da qualsiasi cosa io sostenga: non sempre i nostri figli vengono fuori come avremmo voluto. Ciononostante, in un classico conflitto edipico, devo dare battaglia alla mia progenie, perché non credo che la filosofia dell’arte debba cedere a quel che si dice io abbia generato.»
[A. C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. XIII]