In un articolo precedente avevo descritto la posizione di Weitz sulla questione della definizione di arte per come era contenuta in un articolo del 1961, The Role of Theory in Aesthetics, un testo molto importante per l’estetica analitica in quanto è proprio con esso che nasce il dibattito sulla definizione di arte che impegnerà per lunghi anni i principali filosofi di estetica in ambito analitico.
In quell’articolo Weitz sosteneva l’impossibilità in linea di principio della definizione del concetto di arte che egli considerava (e continuerà a considerare anche negli anni successivi) un concetto aperto.
Tra le obiezioni fatte a Weitz, quella che risulterà decisiva nello sviluppo del dibattito analitico successivo viene mossa nel 1965 da Mandelbaum nell’articolo, Family Resemblances and Generalization Concerning the Arts.
In questo articolo egli fa notare che le somiglianze a cui fa riferimento Weitz sono tutte somiglianze esteriori, visibili. Anche a proposito della definizione di arte, Weitz sembra ritenere che si debba andare in cerca di un qualche aspetto, o di una qualche proprietà manifesta. Tuttavia ci sono delle caratteristiche che non possono essere colte semplicemente guardando un oggetto, come ad esempio, le proprietà relazionali.
In un saggio del 1977, Art as an Open Concept [M. Weitz, Art as an Open Concept: From The Opening Mind, University of Chicago Press, Chicago, 1977 trad. it. Arte come concetto aperto, in Chiodo, Simona, a cura di, Che cosa è arte, UTET, Torino 2007], Weitz chiarisce la sua posizione, anche attraverso alcune autocritiche, e conferma la sua idea centrale di indefinibilità del concetto di arte nei termini di condizioni necessarie e sufficienti.
Il saggio si basa sulla risposta a tre domande, considerate da Weitz fondamentali. Tre domande a cui Weitz risponde negativamente:
Esiste una teoria dell’arte che sia vera? Può esistere una teoria del genere? E’ necessario che esista una teoria del genere per rendere comprensibili il parlare e il riflettere sulle arti? La storia dell’estetica o, dato che questa storia è recente, la storia della filosofia dell’arte è in larga parte una storia di risposte affermative a queste tre domande, l’una in competizione con l’altra e l’una successiva all’altra.
[Ivi, p. 45]
Nell’argomentare la sua risposta alle prime due domande Weitz sottolinea con forza un punto già espresso in The role of Theory in esthetics. Il fatto che non esista una teoria dell’arte che sia vera non dipende dal fatto che le teorie dell’arte sono state mal formulate, ma dal fatto che tale pretesa è logicamente impossibile in virtù delle caratteristiche del concetto di arte, Weitz sottolinea più volte che il problema non è fattuale, ma concettuale. E’ dunque impossibile che esista una vera teoria dell’arte, nel senso che il concetto di arte non può essere definito nei termini di condizioni necessarie e sufficienti.
Weitz chiarisce a questo punto la sua proposta che non mira ad uno scetticismo assoluto ma alla ridefinizione del ruolo teorico dell’estetica:
Che cosa propongo, allora, come risposta corretta? Che «arte» e concetti derivati, come «romanzo», «dramma», «musica», «tragedia», «pittura» e così via, siano impegnati o per descrivere o per valutare certi oggetti e che, anche se questa descrizione o valutazione dipende da certi criteri, questi criteri non siano nè necessari nè sufficienti. Tutti, quindi, sono aperti, nel senso che svolgono i propri compiti descrittivi e valutativi alla condizione essenziale che i nuovi casi, con nuove proprietà, possano essere accolti grazie all’aggiunta di nuovi criteri ad hoc.
[Ivi, p. 47]
La posizione viene quindi chiarita in modo ulteriore. Le descrizioni e le valutazioni in cui si fa uso del concetto di arte e di quelli da esso derivati, possono dipendere da alcuni criteri; il punto è però che questi criteri non possono essere necessari e sufficienti in virtù della grammatica del concetto di arte.
A tale proposito Weitz introduce una significativa autocritica rispetto al saggio in cui presentava questa idea di “concetto aperto”. Egli infatti confondeva i concetti con una struttura aperta con i concetti aperti in generale, sempre per restare al lessico di Weitz.
Un concetto dalla struttura aperta è un concetto «eternamente variabile» in quanto nuovi casi (nel senso di nuove opere) possono indurre ad aggiungere nuovi criteri all’interno della logica di applicazione del concetto.
Un concetto è tuttavia aperto anche se è «eternamente discutibile», nel senso che i criteri introdotti possono essere revocati o modificati, pur senza aggiungerne di nuovi.
Da questa prospettiva la chiusura del concetto di “tragedia greca” era errata, in quanto esso pur non essendo un concetto eternamente variabile, poiché è praticamente impossibile che vengano aggiunti nuovi criteri essendo la produzione di tragedie greche conclusa, esso è comunque un concetto eternamente discutibile. I criteri che lo caratterizzano sono eternamente in discussione, possono essere modificati. La “tragedia greca” è quindi un concetto aperto, pur non avendo una struttura aperta.
La domanda «perchè l’Edipo re è tragica?» è ancora oggi pienamente comprensibile, non vi sono infatti dei criteri indiscutibili su cui si basa l’utilizzo del concetto di “tragedia greca”. Le risposte a questa domanda sono infatti in frequente disaccordo.
Anche i chiarimenti alla risposta negativa data da Weitz alla terza domanda, ossia «è necessario che esista una teoria del genere per rendere comprensibili il parlare e il riflettere sulle arti?», sono importanti. Rispondendo a questa domanda terrà conto delle critiche rivoltegli da Mandelbaum.
Weitz sottolinea come, nel rispondere negativamente a questo quesito, non voglia negare in assoluto che l’arte abbia un essenza, ma semplicemente che è possibile parlarne, senza poggiare su delle condizioni necessarie e sufficienti essenziali.
Le somiglianze di famiglia regolano quindi l’uso logico del concetto di arte, non hanno a che fare con una posizione preventivamente anti-ontologica.
Che cosa è la dottrina di Wittgenstein delle somiglianze di famiglia? E’ una dottrina sui criteri di certi termini, nomi o concetti. Wittgenstein crede che questi criteri abbiano a che fare con una famiglia, non con un’essenza. O, con un’espressione non metaforica, che molti termini, parole o concetti siano usati correttamente per nominare certi membri di certe classi sotto insiemi disgiuntivi di condizioni non necessarie e non sufficienti piuttosto che sotto insiemi di condizioni necessarie e sufficienti. La dottrina, allora, è sulla grammatica logica di certe parole e di certi concetti, non sull’ontologia delle cose.
[Ivi, p. 51]
In questo senso il portato ontologico della tesi di Weitz è nell’accordarsi con una proposta ontologica che non si basi su un modello fisso, su dei principi essenziali, necessari e sufficienti; non nel proporre un tale modello.
Egli nega, infine, che vi sia sempre e comunque un criterio necessario (come ad esempio una qualche proprietà relazionale) a regolare l’uso dei concetti aperti, Mandelbaum non riesce quindi, secondo Weitz, a dimostrare l’incoerenza della teoria delle somiglianze di famiglia:
Quel che Mandelbaum deve dimostrare, ma che non riesce a dimostrare e che, credo, non può dimostrare, è che la dottrina di Wittgenstein delle somiglianze di famiglia è incoerente senza una condizione rigorosamente necessaria che connette le condizioni disgiuntive
[Ivi, p. 52]
L’influenza delle considerazioni di Mandelbaum, nonostante la risposta di Weitz, è notevole; tali considerazioni sembrano infatti orientare la replica allo scetticismo di Weitz verso la ricerca di proprietà invisibili possedute da tutte le opere d’arte, come le cosiddette proprietà relazionali.