Abbiamo scritto, in un articolo sui mondi di finzione di Kendall Walton, di una particolare sensazione abbastanza frequente di fronte ad alcune opere d’arte, ossia quella di “essere trasportati”, di immergersi, in un altro mondo. Walton parla di queste particolari situazioni utilizzando un lessico filosofico ed un approccio tipicamente analitico.
Ci descrive questa sensazione in modo più spontaneo, meno attento alle complicazioni ontologiche, Italo Calvino in “Autobiografia di uno spettatore“, testo che fa parte di una raccolta pubblicata postuma, pensata da Esther Calvino, dal titolo La strada di San Giovanni [Calvino, Italo, Autobiografia di uno spettatore, in La strada di San Giovanni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990].
Appassionato spettatore il giovane Calvino si recava nei cinema di Sanremo anche più volte al giorno, appena poteva darsi alla fuga; e descrive questa esperienza come una fuga dal mondo reale che trovava rifugio in un mondo parallelo, un «luogo dell’altrove» [Ivi, p. 52]. Certo il cinema si presta più di altre arti ad essere descritto come un “mondo altro”, ed in particolare, questa l’impressione di Calvino, il cinema americano degli anni Trenta.
Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà d’un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori dello schermo s’ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma
[Ivi, p. 43]
Due mondi che si oppongono, uno in cui vige la pienezza, la coerenza e la necessità, l’altro caratterizzato da una eterogeneità di materiali ammucchiati a caso. A dire di Calvino quel cinema americano spinge al massimo questa opposizione, con la sua spiccata differenza con il reale, con le dive distanti che simboleggiano modelli di donne mai incontrate e gli attori che identificano tipologie di uomini irreali. Anche l’artificioso doppiaggio, le voci un po’ metalliche a causa dei mezzi tecnici del tempo, spinge il giovane Calvino a pensare il cinema come un «luogo dell’altrove». Tanto che il passaggio da una dimensione all’altra, fortemente sentito, diviene un modo per capire lo scorrere del tempo:
Quando invece ero entrato nel cinema alle quattro o alle cinque, all’uscirne mi colpiva il senso del passare del tempo, il contrasto tra due dimensioni temporali diverse, dentro e fuori del film. Ero entrato in piena luce e ritrovavo fuori il buio, le vie illuminate che prolungavano il bianco-e-nero dello schermo. Il buio un po’ attutiva la discontinuità tra i due mondi e un po’ l’accentuava, perché marcava il passaggio di quelle due ore che non avevo vissuto, inghiottito in una sospensione del tempo, o nella durata d’una vita immaginaria, o nel salto all’indietro nei secoli
[Ivi, p. 47]
Questo mondo descritto da Calvino è fatto di uno spazio e di un tempo diversi da quelli del mondo consueto. Quando poi la censura fascista proibisce la visione di molti film prodotti negli Stati Uniti, intorno al 1938, Calvino sente fortemente la violenza del gesto, sicuramente non il più grave di quegli anni, ma quello che lo colpì più direttamente:
Era la prima volta che un diritto di cui godevo mi veniva tolto: più che un diritto, una dimensione, un mondo, uno spazio della mente
[Ivi, pp. 59-60]
Quello che lo affascinava, in questo cinema, era proprio «la distanza» che serviva a dilatare i confini del reale. Era quel cinema, uno «spazio della mente», e al contempo un «luogo dell’altrove», un altro mondo. La cosa molto interessante è che questa «distanza» Calvino non la ritrova in tutto il cinema, ma solo in specifici film che anche per la loro artificialità, per il modo in cui venivano realizzati, sembravano portare più lontano rispetto al mondo ordinario. Sulla base di questa distanza Calvino legge poi il cinema italiano del dopoguerra, che il bisogno di questa distanza, non riusciva invece a soddisfare:
Il cinema italiano del dopoguerra non so quanto abbia cambiato il nostro modo di vedere il mondo, ma certo ha cambiato il nostro modo di vedere il cinema (qualsiasi cinema, anche quello americano). Non c’è un mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia, e fuori un altro mondo eterogeneo separato da una discontinuità netta, oceano o abisso. La sala buia scompare, lo schermo è una lente d’ingrandimento posata sul fuori quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi.
[Ivi, pp. 61-62]
I film francesi degli anni Trenta erano un po’ una via di mezzo, da questo punto di vista, tra il neorealismo italiano del dopoguerra e il cinema americano. Essi stabilivano un “aggancio speciale” tra i «luoghi dell’altrove» (il mondo del cinema americano) e i luoghi dell’esperienza quotidiana.
Insomma il cinema, ed io penso anche altre arti, può lavorare su questa distanza. Non tutto il cinema crea necessariamente una scissione tra il luogo dell’altrove presentato dal film ed il mondo reale fuori dal cinema.
Questo testo di Calvino è stato preso in considerazione proprio perché è una testimonianza abbastanza esplicita di come questa nozione di “mondi di finzione” sia comune ed efficace. Calvino cita ovviamente gli “altri mondi” senza la cautela ontologica di Walton. Li descrive come “luoghi” (in fin dei conti il “mondo” è un luogo) dove il tempo ha un incedere diverso, talvolta sembra fermarsi. Allo stesso tempo sono ovviamente “spazi della mente”, non posti in cui si viene misteriosamente teletrasportati.
I luoghi dell’altrove di Calvino e i mondi fittizi di Walton
La nozione di “mondi” che invece Walton propone è molto più cauta, proprio per il bisogno di avere una legittimazione filosofica. Le confrontiamo brevemente.
La nozione di “mondi di finzione utilizzata da Walton è molto lontana dal modo di intendere i “luoghi dell’altrove” di Calvino, un modo più spontaneo, non filosofico (per Calvino ad esempio un mondo di finzione è, anche, un luogo).
Il primo modo di intendere i mondi che ho ricavato dal testo di Calvino, ossia come «luoghi dell’altrove», mondi paralleli, a Walton appare infatti non plausibile. Non esistono infatti realmente degli altri mondi in cui si viene trasportati.
Il secondo modo di intenderli, ossia come «spazi mentali», è altrettanto inaccettabile per il filosofo americano.Questo modo di concepirli non darebbe infatti conto della consistenza dei supporti (della materialità delle opere, per intendersi), che non sono sempre semplici spazi mentali (tant’è che anche i mondi dell’opera sono, per Walton, mondi di finzione).
Calvino invece con un approccio autobiografico più spontaneo li descrive al contempo come un luogo della mente e come un mondo altro, in cui proprio si va, andando al cinema.