I “mondi di finzione” secondo Kendall Walton

Ho già pubblicato alcuni articoli su Mimesi come far finta di Kendall Walton. In questo post ci soffermiamo su un particolare concetto di cui il filosofo americano fa ampio uso in questo libro, quello dei “mondi di finzione”, locuzione di uso comune che però nel lessico di Mimesi assume un significato particolare.

Bisogna specificare sin da subito che Walton si rifiuterà di spiegare nel dettaglio cosa intende con questa espressione limitandosi ad indicare cosa i mondi di finzione non sono, e facendo numerosi esempi a riguardo.

Vale comunque la pena di ripercorrere le tappe fondamentali della “lotta” intrapresa da Walton con il concetto di mondi di finzione, sicuramente una delle idee più particolari dell’intero Mimesi.

Grazie a questa nozione potremo anche apprezzare meglio la distanza tra la posizione di Margolis e quella di Walton. In entrambe le loro filosofie l’immaginazione ha un ruolo importante, solo che Margolis non ricorre ad alcuna ontologia separata, nella prospettiva di Walton invece una qualche ontologia sui generis deve essere postulata, dato il grande uso che egli fa della nozione di mondi di finzione; mondi che, come vedremo, non sono reali e nemmeno possibili, e tuttavia in un qualche senso essi sembrano esistere.

Walton ha con questo concetto un rapporto paradossale, una specie di corpo a corpo, sin dall’inizio del libro. Da una parte, il filosofo americano, non vorrebbe utilizzare questa locuzione, dall’altra sembra non poterne fare a meno. La nozione è tanto importante che viene introdotta in un primo momento per caratterizzare un altro concetto, anch’esso centrale, quello di finzionalità:

in generale, tutto ciò che si dà il caso che sia “in un mondo di finzione” – nel mondo di un gioco di far finta o di un sogno o di un sogno a occhi aperti o di un’opera artistica rappresentazionale – è fittizio.
[K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 57]

I “mondi di finzione” sono un concetto articolato, infatti «vi sono mondi di finzione dei giochi di far finta, mondi di finzione delle opere rappresentazionali, e mondi di finzione dei sogni e dei sogni ad occhi aperti» [Ivi, p. 82]. Una stessa opera può avere più di un mondo di finzione, o non averne affatto. La distinzione più importante è comunque quella tra i mondi dell’opera e i mondi del gioco, su cui tornerò in un altro articolo.

Insomma, i mondi di finzione sono tanti mondi diversi accomunati dal fatto di avere un ruolo nella finzione.

Quello di «mondi di finzione» è però un concetto ambiguo. Walton ha infatti il problema di una opposizione tra la realtà del mondo, come noi lo viviamo, e la realtà di questi mondi di finzione, che sembrano dei mondi paralleli. Egli scrive che «la finzionalità è finita per risultare analoga sotto certi aspetti alla verità» [Ivi, p. 63] e con ciò intende dire che «ciò che è vero deve essere creduto; ciò che è fittizio deve essere immaginato» [Ivi, p. 64]. Egli parla di verità fittizie riferendosi a quelle proposizioni che in un determinato contesto (un certo «mondo di finzione») devono essere immaginate in virtù delle prescrizioni ad immaginare generate dai supporti.

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George Seurat, Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande Jatte, 1883-1885, The Art Institute (Chicago)

Per fare un esempio possiamo dire che nel mondo de La Grande Jatte il supporto (La Grande Jatte stessa), genera delle prescrizioni ad immaginare; essa ad esempio impone di immaginare una coppia a passeggio nel parco. La proposizione «una coppia passeggia nel parco» è una verità fittizia nel mondo de La Grande Jatte. Non è una verità, infatti nel mondo reale non c’è nessuna coppia a passeggio nel parco, tuttavia in un certo senso c’è un parallelismo tra la verità e la verità di finzione.

La tentazione, secondo Walton, è duplice: da una parte si potrebbe concepire questo parallelismo (verità/verità di finzione) come una separazione ontologica, e quindi pensare ai «mondi di finzione come remoti angoli dell’universo dove realmente scorrazzano gli unicorni» [Ibidem], dall’altra si può cercare di unire questi due mondi (mondo reale/mondo di finzione) e pensare come vero nel nostro mondo ciò che è vero in un mondo di finzione.

“La verità in un mondo di finzione” va tenuta distinta da “la verità nel mondo reale”. Ma la tentazione di considerarle entrambe specie di un singolo genere è palese.
Ad essa non cedo. Ciò che chiamiamo verità in un mondo di finzione non è un tipo di verità.
[Ibidem]

Quindi da una parte c’è una possibilità davvero particolare, quella dell’esistenza di un altro mondo pieno di unicorni, orsi-tronconi e minotauri, una via che Walton da filosofo serio non può seguire. Dall’altra però l’alternativa non sembra a Walton più allettante, se questi mondi di finzione sono veri come le cose vere di questo mondo, rischieremmo di incontrare veramente Anna Karenina e Amleto.

Cosa fa Walton? Nega l’una e l’altra ipotesi, ma quando poi deve dire quale è lo statuto ontologico dei mondi di finzione, si rifiuta di farlo:

Dire che per ciascun sogno o sogno ad occhi a occhi aperti, gioco di far finta, e opera rappresentazionale vi sia un mondo di finzione, e dire che significhi per una proposizione essere fittizia nel mondo di un particolare sogno o gioco o opera non è aver detto che tipi di entità siano i mondi di finzione. Verrà fuori che per i nostri scopi non è cruciale dirimere tale questione. Ma è il caso di fare un certo numero di osservazioni relative a cosa i mondi di finzione non siano
[Ivi, p. 88]

Nonostante il rifiuto di specificare che tipi di entità sono, nell’intero libro, Walton continua ad utilizzare la nozione di «mondi di finzione» e lo fa spesso in riferimento proprio alle opere d’arte. Non tutti i supporti infatti generano mondi finzione, non lo fanno chiaramente i tronconi ma neanche le bambole che continuano a restare nel “nostro mondo”. E’ vero che anche le rappresentazioni non artistiche possono generare dei mondi di finzione ma di fatto questa nozione sembra “lavorare” a pieno con le opere d’arte.

Il motivo per cui questa nozione di «mondi di finzione» suona così naturale è che corrisponde ad una sensazione molto condivisa. Di fronte a certe opere d’arte, molti romanzi ad esempio, siamo come “trasportati” in un altro mondo. Walton darà conto di questa sensazione comune parlando di “partecipazione” ai giochi di far finta, nozione su cui torneremo in un altro articolo.

Tuttavia, questo modo non teorico, non filosofico di intenderli, non è quello verso cui sembra andare l’argomentazione di Walton che spinge verso l’idea, che però non accoglie in pieno, di “mondi” costituiti da classi di proposizioni normative. Tornando all’esempio fatto prima, nel mondo di finzione de La Grande Jatte, una delle proposizioni normative che costituirebbe tale mondo sarebbe, approssimativamente: “Una coppia passeggia nel parco”.<7p>

Walton però specifica che i mondi di finzione non sono classi di proposizioni. Se così fosse si andrebbe incontro, secondo Walton, a contraddizioni importanti. Ne sottolineo una molto chiara e rilevante: proposizioni e classi di proposizioni esistono necessariamente, indipendentemente da se un quadro viene o non viene dipinto. Il mondo fittizio generato da La Grande Jatte invece esiste solo perché c’è il dipinto. [Per l’intera argomentazione vedi, Ivi, pp. 88-92] Inoltre, Walton sa bene che l’impressione di trovarsi “in un altro mondo” è in realtà abbastanza lontana da questo modo di intenderli.

Ecco come Walton chiude significativamente la sua trattazione a riguardo:

Non dirò più di questo sulla natura dei mondi di finzione. Restano aperte parecchie opzioni. Probabilmente una teoria in cui essi sono concepiti come classi di proposizioni, o una nella quale sono concepiti come classi indicate di proposizioni, si potrebbe far funzionare, senza curarsi dello scostamento dalle ordinarie concezioni dei mondi di finzione. In alternativa, potremmo cercare un tipo di entità metafisicamente rispettabile più conforme alla concezione ordinaria. Ma non siamo tenuti a decidere che cosa siano i mondi di finzione; in effetti non siamo tenuti neppure a legittimare tali cose. Ciò che conta sono le diverse proprietà che le proposizioni talvolta possiedono: la proprietà di essere fittizia e quella di essere fittizia in una particolare opera rappresentazionale o gioco di far finta o sogno o sogno ad occhi aperti. E’ naturale esprimere queste proprietà con l’aiuto di formulazioni che appaiono fare riferimento ai mondi di finzione […], e per convenienza spesso farò così. Ma le mie spiegazioni di queste proprietà non presuppongono alcun referente del genere.
[K. Walton, Mimesi come far finta, cit., pp. 91-92]

Da questa affermazione con cui Walton conclude il paragrafo dedicato ai mondi di finzione traspaiono comunque alcune possibilità. Una ontologia sui generis che, con delle correzioni, potrebbe funzionare, è comunque quella di intenderli come classi indicate di proposizioni. In questo caso questa ontologia sui generis andrebbe intesa come una certa relazione tra linguaggio ed esistenza. Tale idea però non viene abbracciata in toto da Walton, sia perchè egli è convinto che nel suo discorso non sia fondamentale dire cosa sono questi mondi di finzione, sia perchè questo modo di intenderli è sicuramente lontano da un modo ordinario, non filosofico, di intenderli. E’ quindi forse possibile immaginare «un tipo di entità metafisicamente rispettabile più conforme alla concezione ordinaria».

Alla luce anche di queste considerazioni sui mondi di finzione diventa chiaro che Walton, negando che i mondi di finzione siano dei mondi possibili, vuole sottolineare che il nostro rapporto con i supporti, anche le opere d’arte, è fondamentalmente giocare con il supporto in un gioco di far finta. I supporti quindi agevolano le nostre immaginazioni che si svolgono senza alcun impegno ontologico e senza alcun ruolo conoscitivo.

La nozione di mondo di finzione così come Walton la considera è differente rispetto a quella di «spazio fittizio», molto importante nell’arte contemporanea; vale a dire che la nozione di mondi di finzione non è legata necessariamente a quella di “luogo”, come verrebbe naturale pensare.

Questo non voler caratterizzare questi mondi nè come entità con una consistenza ontologica distinta, nè come “spazi mentali”, luoghi dell’immaginazione, ma postulando, nel caso in cui ci si volesse servire di tale nozione, una ontologia separata sui generis, permette a Walton di non cadere in contraddizioni filosofiche.

L’idea di Walton è esente da contraddizioni ma perde l’efficacia che ha nel linguaggio ordinario.

Uno dei problemi che probabilmente spinge Walton alla reticenza nei confronti dei mondi di finzione è il fatto che, come sottolineato, con tale concetto egli intenda cose molto diverse come i mondi dei sogni ad occhi aperti, i mondi del gioco e i mondi dell’opera. Se aggiungiamo il fatto che egli debba spiegare questo “accorpamento” di nozioni senza fare particolare affidamento agli autori, mettendo, come visto, in primo piano i supporti, la questione si complica ulteriormente.

E’ possibile intendere i mondi di finzione in altri modi, ad esempio come «spazi della mente» (come fa Calvino, ad esempio). Questo modo di intenderli è pienamente coerente nei casi in cui non sono coinvolte opere, come nei sogni e nelle fantasticherie.

Infatti se prendiamo questa nozione non teorica, ci rendiamo conto di come il problema dello statuto ontologico di questi “mondi” non sia sempre così oscuro. In alcuni casi ci troviamo di fronte ad una delle caratteristiche più banali dell’immaginazione, che va tenuta in considerazione più che giustificata ontologicamente. Infatti nel caso dei sogni, delle fantasticherie e dei sogni ad occhi aperti, ci rendiamo subito conto di come questi “mondi” siano prodotti direttamente dalla nostra immaginazione, seppur in modo molto diverso in ognuna di queste attività.

Immaginando possiamo creare dei “mondi” che non sono nè separati dal nostro, nè hanno esistenza fisica nel nostro mondo; è questa una delle caratteristiche dell’immaginare che è radicato nella “nostra realtà” ma realizza in essa delle entità che non sono fisicamente presenti.

Allargando il discorso alle opere d’arte chiaramente il problema si complica, e rischiamo di cadere in un’altra tematica importante affrontata dall’estetica analitica, quella dell’ontologia delle opere d’arte. E’ chiaro infatti che la questione della consistenza dei mondi di finzione e delle entità fittizie è sicuramente legata all’ontologia dell’opera d’arte, una tematica molto dibattuta in ambito analitico e che qui non riesco ad affrontare [La complessa tematica è stata ricostruita in Kobau, Pietro, Ontologia dell’arte, in P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, cit.].

Nel rapporto con le opere la dinamica diventa sicuramente più complessa; il mondo di finzione de La Grande Jatte non lo immaginiamo dal nulla ma in un certo senso lo “troviamo” nella ricezione dell’opera.

Voglio però sottolineare come Walton nel suo tentativo di accomunare attività così diverse come sogni e produzione di opere d’arte, fantasticherie e giochi di bambini, allarghi la problematica ad attività che tutto sommato non la hanno.

Walton infatti per comprendere attività così eterogenee, basandosi su una sola prospettiva teorica, deve mostrare che i mondi creati nei sogni e nei sogni ad occhi aperti, siano anch’essi dei mondi di finzione, non solo e non fondamentalmente dei “mondi” dell’immaginazione. Come vedremo in un articolo successivo, immaginazione e finzione sono due concetti nettamente distinti nella prospettiva teorica del filosofo americano, così come concetti differenti sono, di conseguenza, i mondi immaginari e i mondi di finzione.

Il nocciolo della distinzione operata da Walton sta nel fatto che il mondo di finzione è caratterizzato da ciò che il supporto prescrive di immaginare, anche se questo poi di fatto non viene immaginato. Nel mondo dei sogni quindi, per far sì che anch’esso sia un mondo di finzione, Walton deve far valere delle prescrizioni ad immaginare, ossia delle regole. Vedremo il sottile e complesso lavoro che Walton svolge per giustificare questa idea, in realtà controintuitiva (senza riuscirci, secondo me).

Vedremo anche come questa tendenza a considerare i “mondi” dei mondi separati da chi li immagina sia presente anche parlando della distinzione tra immaginazioni deliberate e immaginazioni spontanee. Nelle immaginazioni deliberate costruiamo un mondo “pezzo dopo pezzo” ed è chiaro, almeno in questo caso, cosa sia questo “mondo”; nell’immaginare spontaneo invece, per Walton, più che i costruttori di un mondo immaginario, ne siamo spettatori. Ciò significa che il mondo delle nostre immaginazioni spontanee è in parte indipendente da noi, intendendo con ciò che è indipendente dalla nostra volontà.

Tornando invece alla tendenza di Walton a considerare soprattutto il rapporto tra spettatore ed opera, relegando ai margini il ruolo dell’autore, volevo sottolineare come essa possa essere comunque arricchita da una analisi più centrata sul ruolo dell’autore, cosa che egli solo in parte fa affrontando la questione della “partecipazione” ai giochi di far finta.

La nozione di mondi di finzione intesa in modo non filosofico, “alla Calvino”, sembra essere una di quelle nozioni che spinge a guardare alla specifica produzione dell’opera, spesse volte è in essa la chiave per accedere a questi “mondi”.

Chi produce un film, per esempio, sà che ci sono modi per far sì che aumenti la sensazione di essere in un mondo di finzione, così come modi per evitare che ciò avvenga, questo è ciò che più avanti nel testo Walton chiamerà i modi per «favorire» o «inibire» la partecipazione dello spettatore ai giochi di far finta.

Walton però insiste soprattutto sul rapporto tra lo spettatore ed il supporto. Quello che conta, come abbiamo visto, è il fatto che l’autore sia il realizzatore materiale di un supporto che poi, come dire, vive di vita propria generando autonomamente delle verità fittizie e, in alcuni casi, dei mondi di finzione. Nell’intero libro l’unico caso in cui il ruolo dell’autore è dirimente resta nella distinzione tra i supporti prodotti con la funzione di essere supporti e i supporti ad hoc, per quanto anche in questo caso Walton svincoli la funzione dalla specifica volontà dell’autore legando in molti casi tale funzione al significato che il supporto assume in un determinato contesto sociale.

Raccogliere tutti i casi possibili sotto una sola direttrice interpretativa è molto complesso e nutro dei dubbi sul fatto che tale strategia sia sempre fruttuosa.

La nozione di mondi di finzione è comunque affascinante anche se in Walton finisce per perdere un po’ di vivacità.

Quello che invece è molto chiaro è che il ruolo dello spettatore, in tutto Mimesi, ma anche a riguardo di questa nozione di “mondi”, è centrale. Egli infatti sottolinea come si debba distinguere tra i «mondi dell’opera», ossia i mondi di finzione “generati” dall’opera stessa, e i «mondi del gioco», cioè i modi in cui lo spettatore recepisce ed entra in rapporto con i «mondi dell’opera».

Analizzeremo più nel dettaglio la distinzione di Walton tra mondi dell’opera e mondi del gioco in un articolo successivo.

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