A cavallo di una scopa – Una intuizione di Gombrich sulla “finzione”

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In uno dei primi articoli di questo blog ho voluto provare a mettere in luce la particolare strategia argomentativa con cui il filosofo americano Kendall Walton affronta il concetto, centrale nella riflessione estetica, di rappresentazione. Non si tratta solo di una strategia particolare, essa è funzionale al ruolo teorico che Walton assegna alla rappresentazione.

La rappresentazione, per come la presenta Walton, è fortemente coinvolta nei processi immaginativi; l’essenza della rappresentazione non è comprensibile senza un riferimento all’immaginazione.

Quando Walton approccia alla “rappresentazione” ha alle spalle un significativo lavoro teorico precedente svolto in ambito analitico sul tema.

La rappresentazione è infatti legata a filo doppio alla riflessione sull’arte, sembra infatti che le opere d’arte siano spesso, se non sempre, delle rappresentazioni.

Può quindi essere utile inquadrare, almeno un po’, la riflessione di Walton all’interno del quadro più generale dell’estetica analitica per comprendere le importanti novità introdotte dal suo Mimesi come far finta.

Cominciamo col dire che molti dei più importanti esponenti dell’estetica analitica rifiutano l’idea che la rappresentazione sia fondamentalmente imitazione. L’arte contemporanea ha contribuito notevolmente a mettere in discussione questo tradizionale modo di intendere la rappresentazione. Infatti, di fronte a molte opere contemporanee è diventato davvero molto complesso spiegare in che senso esse “imitino”. Fountain per molti versi sembra un’aperta provocazione a questa idea di rappresentazione come imitazione, ma si potrebbero fare molti esempi; i quadri monocromi immaginati da Danto all’inizio de La trasfigurazione del banale, in che senso imitano?

Al di là di questo sembra essere l’impianto teorico su cui si regge l’idea della rappresentazione in quanto mimesi ad essere in crisi, ed in particolare l’idea che qualcosa ne rappresenti un’altra perchè ad essa somiglia.

Una citazione di Goodman ci permette di sottolineare alcune di queste difficoltà:

Un oggetto somiglia a se stesso al massimo grado, ma raramente rappresenta se stesso; la somiglianza è simmetrica; B è simile ad A tanto quanto A è simile a B ma mentre un quadro può rappresentare il duca di Wellington, il duca a sua volta non rappresenta un quadro. Inoltre, in molti casi nessuno fra due oggetti molto simili rappresenta l’altro: nessuna delle automobili che escono da una catena di montaggio è il ritratto di alcuna delle altre […]. Con ogni evidenza, la somiglianza, quale ne sia il grado, non è una condizione sufficiente per la rappresentazione.
[Goodman, Nelson, Languages of Art, Bobbs-Merrill, Indianapolis, trad. it. di R. Federici, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1969, pp. 11-12, citato in S. Velotti, La filosofia e le arti, cit., p. 35]

Non è quindi detto che la somiglianza sia in assoluto esclusa dall’idea di rappresentazione, è solo che essa non basta, e non è necessaria affinché vi sia rappresentazione. Questo passo di Goodman serve solo come esempio; è un passaggio molto chiaro che riassume alcune delle motivazioni addotte al rifiuto di una teoria tradizionale, quella della rappresentazione come somiglianza.

Tra gli autori trattati in questa blog ad esempio la rifiutano anche Danto e Walton poggiandosi su delle critiche di Wollheim e Gombirch.

Peacocke invece difende l’idea della somiglianza come cardine della rappresentazione [una ricostruzione sintetica della teoria si trova in S. Velotti, La filosofia e le arti, cit., pp. 36-38].

Quello che qui interessa è semplicemente notare come a fronte delle molte difficoltà nel far funzionare l’idea di rappresentazione come somiglianza molti autori analitici hanno cercato un’altra strada per provare a tenere ferma l’idea che le opere d’arte siano, o comunque possano essere, rappresentazioni, senza necessariamente imitare.

Su quale basi quindi capire la rappresentazione se non su una idea di somiglianza?

La risposta di Walton, come in parte abbiamo già visto, poggia sull’idea della finzione. Lo spunto per la teoria del far finta viene a Walton da delle considerazioni di Gombrich a proposito di un cavalluccio di legno, composto dal manico di una scopa con sopra applicata una sagoma di cartone come criniera:

Come definirlo? Forse “immagine di cavallo”? È un’etichetta che non sarebbe accettata dai compilatori di un piccolo famoso dizionario che ho qui davanti a me, il Pocket Oxford Dictionary. Per loro, infatti, “immagine è l’imitazione della forma esterna di un oggetto”, e certo la forma esterna di un cavallo qui non è imitata. Ma noi potremmo rispondere: tanto peggio per la “forma esterna”, quell’impalpabile avanzo della tradizione filosofica greca, che da tanto tempo domina il linguaggio dell’estetica. Per fortuna nel solito dizionarietto troviamo un’altra parola che forse si mostrerà più duttile, la parola rappresentazione. Rappresentare, vi leggiamo, può essere usato nel senso di “evocare per mezzo di una descrizione o di un ritratto o della fantasia, raffigurare, porre la copia somigliante di qualche cosa di fronte alla nostra mente o ai nostri sensi, servire come o essere intese come somiglianza…stare al posto di, essere un esempio o campione di, prendere il posto di, essere un sostituto per”. Il ritratto di un cavallo? No davvero. Cosa che sostituisce il cavallo? Sì. Questo sì. Forse in questa formula c’è più di quanto sembri a prima vista.
[Gombrich, Ernst, Meditations on a Hobby Horse, and Other Essays on the Theory of Art, Phaidon, London; trad. it. di Roatta, Camilla, A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte, Einaudi, Torino 1971, pp. 3-4]

In questo passaggio dall’imitazione del cavallo, alla sostituzione del cavallo, si racchiude lo spostamento teorico che permetterà di passare dal paradigma della mimesi, a quello della finzione. La sostituzione dell’oggetto permette infatti di passare dall’imitazione della forma esterna alla creazione di una relazione tra l’oggetto e la sua rappresentazione. Questa relazione può seguire delle convenzioni arbitrarie e quindi svincolarsi dalla somiglianza con l’oggetto:

La rappresentazione, cioè, ha una forza tanto grande da representare l’oggetto anche quando è costretta a perdere o sceglie di perdere la soluzione mimetica, perchè fa uso di un meccanismo di relazione fondato sulla sostituzione arbitraria: una rappresentazione è un oggetto che agisce da «sostituto» di un altro oggetto attraverso la costruzione di una relazione tanto arbitraria quanto «le parole di un incantesimo». Una rappresentazione, allora, fa uso di un meccanismo di finzione, perchè è il risultato di una relazione non vincolata alla «forma esterna dell’oggetto», ma creata ad hoc attraverso criteri di arbitrarietà radicale.
[S. Chiodo, Mimesi, rappresentazione, finzione, cit., p. 106]

Un manico di scopa, all’interno di un gioco di bambini, può avere una funzione in qualche modo paragonabile a quella di un cavallo, anche se, a livello di forma esteriore non assomiglia minimamente ad un cavallo.

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