RIME DI FRANCESCO PETRARCA dal SONETTO CXXX.

SONETTO CXXX.

Arde di amore per Laura, ma non è mai geloso,

perchè la virtù di lei è somma.

Amor, che ’ncende ’l cor d’ardente zelo,
Di gelata paura il tien costretto,
E qual sia più, fa dubbio a l’intelletto,
La speranza o ’l timor, la fiamma o ’l gielo.

Trema al più caldo, arde al più freddo cielo,
Sempre pien di desire e di sospetto:
Pur come donna in un vestire schietto
Celi un uom vivo, o sotto un picciol velo.

Di queste pene è mia propria la prima,
Arder dì e notte; e quanto è ’l dolce male,
Nè ’n pensier cape, non che ’n versi o ’n rima:

L’altra non già; chè ’l mio bel foco è tale,
ch’ogni uom pareggia; e del suo lume in cima
Chi volar pensa, indarno spiega l’ale.

 

Verso 1. Il cor. Il cuor dell’amante. Zelo. Affetto. // 2. Di gelata paura. Di quella della gelosia. Costretto. Stretto; – ma costretto ha più forza. [A.] // 3. E fa dubbio, cioè dubbioso, all’intelletto dell’amante, qual sia maggiore. // 7-8. Accenna le strane immaginazioni degl’innamorati, che poco meno che non hanno sospetto e gelosia fino delle donne; dubitando che non sieno uomini travestiti. Pur come vale nè piu nè meno, come se. – Proper.: «Et miser in tunica suspicor esse virum.»* // 9-14. Di queste due pene degli altri amanti, che sono l’ardore del desiderio e il freddo della gelosia, la prima, cioè quella detta nel primo verso, che è l’arder dì e notte, è mia propria, cioè tocca a me ancora, ed ha luogo nell’amor mio. E quanto sia grande questo dolce male, cioè questa pena dell’ardore, non cape non solamente in versi o in rima, ma nè anche in pensiero, cioè non si può, non solo esprimere con parole, ma neppur comprendere colla mente. L’altra pena, cioè della gelosia, non ha luogo in me, atteso che il mio bel fuoco, cioè la donna ch’io amo, pareggia ogni uomo, cioè ha tutti gli uomini per uguali, gli guarda d’uno stesso occhio, e non concede più all’uno che all’altro, e chi pensa volare in cima del suo lume, cioè chi spera e s’ingegna di farsi principale e signore nell’animo di quella, spiega le ale, cioè spera e si affatica, invano. – Mio bel foco. Virg.: «meus ignis Amyntas.»*

SONETTO CXXXI.

Se i dolci sguardi di lei lo tormentano a morte,

che sarebbe se glieli negasse?

Se ’l dolce sguardo di costei m’ancide,
E le soavi parolette accorte,
E s’Amor sopra me la fa sì forte
Sol quando parla, ovver quando sorride:

Lasso, che fia se forse ella divide,
O per mia colpa o per malvagia sorte,
Gli occhi suoi da mercè, sì che di morte
Là dov’or m’assecura, allor mi sfide?

Però s’i’ tremo e vo col cor gelato
Qualor veggio cangiata sua figura,
Questo temer d’antiche prove è nato.

Femmina è cosa mobil per natura;
Ond’io so ben ch’un amoroso stato
In cor di donna picciol tempo dura.

 

Verso 5. Che fia. Che sarà. Se forse. Se mai per avventura. // 7-8. Mercè. Pietà. Sì che di morte, Là dov’or m’assecura, allor mi sfide. In modo che allora co’ suoi sguardi ella mi sfidi a morte, cioè a dire procuri di darmi morte, laddove ora me ne assicura, cioè m’aiuta che io non muoia, ovvero, mi rassicura che io non tema di avere a morire. // 10. Figura. Cioè aspetto. // 11. Prove. Esperienze. // 12. Virg.: «Varium et mutabile semper fœmina.»*

SONETTO CXXXII.

Si addolora, e teme che l’infermità, in cui Laura

si trova, le tolga la vita.

Amor, Natura e la bell’alma umìle,
Ov’ogni alta virtute alberga e regna,
Contra me son giurati. Amor s’ingegna
Ch’i’ mora affatto; e ’n ciò segue suo stile:

Natura tien costei d’un sì gentile
Laccio, che nullo sforzo è che sostegna:
Ella è si schiva, ch’abitar non degna
Più ne la vita faticosa e vile.

Così lo spirto d’or in or vien meno
A quelle belle care membra oneste,
Che specchio eran di vera leggiadria.

E s’a morte pietà non stringe il freno,
Lasso, ben veggio in che stato son queste
Vane speranze ond’io viver solia.

 

Verso 3. Son giurati, s’intende fra loro, congiurati.* – S’ingegna. Procura. // 4. Stile. Costume. Usanza. // 5-6. Vuol dire: la complessione di Laura è così delicata, che non regge a nessuno urto, a nessuna scossa. Nullo sta per niuno, Sostegna per sostenga. – Tener d’un laccio. Ecco una di quelle elissi che nel parlar toscano sono frequenti e di bell’effetto. S’intende tener per mezzo di un laccio. [A.] // 7. Ella. Laura. Degna. Verbo. // 9. D’or in or vien meno. Sta continuamente per mancare. // 14. Onde. Delle quali. Solia. Solea.

SONETTO CXXXIII.

Attribuisce a Laura le bellezze tutte, e le rare

doti della Fenice.

Questa Fenice, de l’aurata piuma
Al suo bel collo candido gentile
Forma senz’arte un sì caro monile,
Ch’ogni cor addolcisce e ’l mio consuma:

Forma un diadema natural ch’alluma
L’aere dintorno; e ’l tacito focile
D’Amor tragge indi un liquido sottile
Foco che m’arde a la più algente bruma.

Purpurea vesta, d’un ceruleo lembo
Sparso di rose i belli omeri vela;
Novo abito e bellezza unica e sola.

Fama ne l’odorato e ricco grembo
D’arabi monti lei ripone e cela,
Che per lo nostro ciel sì altera vola.

 

Verso 1. De l’aurata piuma. Cioè, de’ suoi capelli biondi. // 5. Alluma. Illumina, o accende. // 7. Indi. Da esso diadema. // 8. A la più algente bruma. Alla più gelata brina. Cioè nel maggior freddo. // 9. Vesta. Veste. D’un. Con un. Dipende dal verbo vela. // 11. Novo. Straordinario. Non più veduto. // 12-14. Cioè, la fama porta che la Fenice viva nascosta nelle montagne dell’Arabia, quando ella in verità vive nelle nostre parti, e vola maestosamente per l’aria. Vuol dire che Laura è la vera Fenice, e l’altra è una favola. Che vuol dir la quale, e dipende da lei.

SONETTO CXXXIV.

I più famosi poeti non avrebber cantato che di Laura,

se l’avesser veduta.

Se Virgilio ed Omero avessin visto
Quel Sole il qual vegg’io con gli occhi miei,
Tutte lor forze in dar fama a costei
Avrian posto, e l’un stil con l’altro misto:

Di che sarebbe Enea turbato e tristo,
Achille, Ulisse e gli altri semidei,
E quel che resse anni cinquantasei
Sì bene il mondo, e quel ch’ancise Egisto.

Quel fiore antico di virtuti e d’arme,
Come sembiante stella ebbe con questo
Novo fior d’onestate e di bellezze!

Ennio di quel cantò ruvido carme;
Di quest’altro io: ed o pur non molesto
Gli sia ’l mio ingegno, e ’l mio lodar non sprezze.

 

Verso 1. Avessin. Avessero. // 2. Quel Sole. Cioè Laura. // 4. E l’un stil con l’altro misto. E avrebbero mescolato insieme i due stili, cioè gli stili di loro due. // 5. Di che. Onde. Della qual cosa. Per la qual cosa. Cioè perchè Omero e Virgilio, occupati al tutto nelle lodi di Laura, non avrebbero cantato di loro. // 7-8. Cioè Augusto ed Agamennone. Quel ch’ancise Egisto vuol dire quel che fu ucciso da Egisto. // 9. Cioè Scipione Affricano maggiore. // 10-11. Come sembiante vuol dire quanto somigliante; Stella vale destino, sorte; Novo sta per moderno, opposto all’antico del verso nono. Il senso è: quanto fu somigliante la sorte di Scipione a quella di Laura! // 13. Di quest’altro. Suppliscasi fiore. Io. Suppliscasi canto ruvido carme. O. Interiezione di desiderio. Pur. Solamente. // 14. Sprezze. Sprezzi.

SONETTO CXXXV.

Teme che le sue rime non sieno atte a celebrar

degnamente le virtù di Laura.

Giunto Alessandro a la famosa tomba
Del fero Achille, sospirando disse:
O fortunato, che sì chiara tromba
Trovasti e chi di te sì alto scrisse!

Ma questa pura e candida colomba,
A cui non so s’al mondo mai par visse,
Nel mio stil frale assai poco rimbomba:
Così son le sue sorti a ciascun fisse.

Chè d’Omero dignissima e d’Orfeo,
O del pastor ch’ancor Mantova onora,
Ch’andassen sempre lei sola cantando;

Stella difforme, e fato sol qui reo
Commise a tal che ’l suo bel nome adora,
Ma forse scema sue lode parlando.

 

Verso 3. Sì chiara tromba. Quella di Omero – *Cic. pro Arch.: «O fortunate adolescens, qui tuæ virtutis præconem Homerum inveneris.»* // 4. Alto. Altamente. Nobilmente. // 6. Par. Pari. Alcun’altra uguale. // 7. Frale. Debole. Assai. Si riferisce a poco. // 9. Chè. Perocchè. Dignissima. Lei degnissima. Accusativo. // 10. Che. Accusativo. Intende di Virgilio. // 11. Andassen. Andassero. // 12. Stella. Nominativo. Difforme. Discorde dalle altre che l’adornarono di tanti pregi. Ovvero, non corrispondente al suo merito; – o forse difforme dalla stella d’Achille. [A.] – Fato. Nominativo. Sol qui. In ciò solo. // 13. Commise. Assegnò da celebrarla. A tal. A uno. Intende di sè stesso. // 14. Scema sue lode. Cioè nuoce alla sua gloria in cambio di giovarle. Lode sta per lodi.

SONETTO CXXXVI.

Prega il Sole a non privarlo della vista

del beato paese di Laura.

Almo Sol, quella fronde ch’io sol’amo,
Tu prima amasti: or sola al bel soggiorno
Verdeggia e senza par, poi che l’adorno
Suo male e nostro vide in prima Adamo.

Stiamo a mirarla: i’ ti pur prego e chiamo,
O Sole; e tu pur fuggi, e fai d’intorno
Ombrare i poggi, e te ne porti ’l giorno,
E fuggendo mi toi quel ch’i’ più bramo.

L’ombra che cade da quell’umil colle,
Ove favilla il mio soave foco,
Ove ’l gran lauro fu picciola verga,

Crescendo mentr’io parlo, agli occhi tolle
La dolce vista del beato loco
Ove ’l mio cor con la sua donna alberga.

 

Verso 1. Quella fronde. Cioè il lauro, allegoria di Laura e di Dafne. – *Sol’. Sola.* // 2. Or. Forse era in tempo d’inverno, quando non verdeggiano le altre piante. Al bel soggiorno. Nel suo bel soggiorno. // 3-4. Par. Pari. Poi che. Da poi che. Da che. Da quando. L’adorno Suo male e nostro. Eva. Accusativo. Vuol significare che siccome l’alloro nel tempo dell’inverno verdeggia solo esso tra le altre piante, così non ci ha donna alcuna che si possa agguagliare a Laura, e mai non ce ne ebbe, dalla prima donna in qua. // 5. I’ ti pur prego. Io ti prego pure. // 7. Ombrare. Dar ombra. // 8. Toi. Togli. Quel ch’i’ più bramo. Quello che è dichiarato negli ultimi due versi. // 10. Favilla. Sfavilla. // 11. Dove già Laura fu bambina. // 12. Tolle. Toglie.

SONETTO CXXXVII.

Paragonasi ad una nave in tempesta,

e che incomincia a disperare del porto.

Passa la nave mia colma d’obblio
Per aspro mare a mezza notte il verno
Infra Scilla e Cariddi; ed al governo
Siede ’l signor, anzi ’l nemico mio.

A ciascun remo un pensier pronto e rio,
Che la tempesta e ’l fin par ch’abbia a scherno:
La vela rompe un vento umido eterno
Di sospir, di speranze e di desio.

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
Bagna e rallenta le già stanche sarte,
Che son d’error con ignoranza attorto.

Celansi i duo miei dolci usati segni;
Morta fra l’onde è la ragione e l’arte:
Tal ch’incomincio a disperar del porto.

 

Verso 2. Aspro. Turbato. Il verno. In tempo d’inverno. // 3. Al governo. Della nave. // 4. Il signor, anzi ’l nemico mio. Amore. // 5. A ciascun remo. Suppliscasi siede o sta. // 6. Il fin. La morte. // 7. La vela. Accusativo. Rompe. Fiede. Batte. Percuote. Eterno. Continuo. Perenne. // 11. Che son. Che son fatte. // 12. I duo miei dolci usati segni. Le due mie consuete stelle. Vuol dir gli occhi di Laura. // 14. Del porto. Di giungere in porto. Di salvarmi.

SONETTO CXXXVIII.

Contempla estatico Laura in visione, e predice,

dolente, la morte di lei.

Una candida cerva sopra l’erba
Verde m’apparve, con duo corna d’oro,
Fra due riviere, a l’ombra d’un alloro,
Levando ’l Sole, a la stagione acerba.

Era sua vista sì dolce superba
Ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro;
Come l’avaro, che ’n cercar tesoro
Con diletto l’affanno disacerba.

«Nessun mi tocchi,» al bel collo d’intorno
Scritto avea di diamanti e di topazi;
«Libera farmi al mio Cesare parve.»

Ed era ’l Sol già vòlto al mezzo giorno.
Gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi;
Quand’io caddi ne l’acqua, ed ella sparve.

 

Verso 3. Riviere. Fiumi. Forse tra Sorga e Durenza. [L.] // 4. Levando ’l Sole. In sul levar del sole. A la stagione acerba. In tempo di primavera. Veggasi il duodecimo verso del Sonetto contesimonono. // 5. Vista. Aspetto. // 8. Disacerba. Solleva. Tempera. // 10. Portava scritto in caratteri di diamanti e di topazi. // 11. Parve. Piacque. Ha riguardo all’antico motto: «Cæsaris sum; noli me tangere.» // 12. Vòlto. Cioè vicino. // 13. Suppliscasi erano. [L.] // 14. Il Tassoni pensa che il cader nell’acqua significhi la quantità delle lacrime versate dal Poeta, dopo lo sparire di Laura. [L.]

SONETTO CXXXIX.

Ripone tutta la sua felicità solo nel contemplare

le bellezze di Laura.

Sì come eterna vita è veder Dio,
Nè più si brama, nè bramar più lice,
Così me, donna, il voi veder, felice
Fa in questo breve e frale viver mio.

Nè voi stessa, com’or, bella vid’io
Già mai, se vero al cor l’occhio ridice;
Dolce del mio pensier ôra beatrice,
Che vince ogni alta speme, ogni desio.

E se non fosse il suo fuggir sì ratto,
Più non dimanderei: che s’alcun vive
Sol d’odore, e tal fama fede acquista;

Alcun d’acqua o di foco il gusto e ’l tatto
Acquetan, cose d’ogni dolzor prive;
I’ perchè non de la vostr’alma vista?

 

Verso 1. Eterna vita è veder Dio. Il veder Dio è vita eterna. // 3. Il voi veder. Il veder voi. // 5. Com’or, bella. Bella come ora. Così bella come vi veggo al presente. – *Proper.: «Nec illa mihi formosior unquam Visa est.» E Dante: «Io non la vidi tante volte ancora Ch’i’ non trovassi in lei nova bellezza.» // 7. Del mio pensier ôra beatrice. Aura beatrice del mio pensiero. // 5. Suo. Della detta ôra, cioè aura. // 10. Alcun. Cioè alcuni animali. // 11. E tal fama fede acquista. E tal cosa è creduta per vera. – Si allude alla favola di Solino e di Plinio intorno agli astomi, cioè senza bocca, popoli che abitavano presso le fonti del Gange e che vivevano di solo odore. [L.] // 12. Alcun. Alcuni animali. // 13. Acquetan. Appagano. Contentano. Dolzor. Dolcezza. // 14. Perchè non. Perchè non potrei vivere ed appagarmi.

SONETTO CXL.

Invita Amore a vedere il bell’andamento

e gli atti dolci e soavi di Laura.

Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra,
Cose sopra natura, altere e nove:
Vedi ben quanta in lei dolcezza piove;
Vedi lume che ’l Cielo in terra mostra.

Vedi quant’arte dora e ’mperla e innostra
L’abito eletto e mai non visto altrove;
Che dolcemente i piedi e gli occhi move
Per questa di bei colli ombrosa chiostra.

L’erbetta verde e i fior di color mille,
Sparsi sotto quell’elce antiqua e negra,
Pregan pur che ’l bel piè li prema o tocchi.

E ’l ciel di vaghe e lucide faville
S’accende intorno, e ’n vista si rallegra
D’esser fatto seren da sì begli occhi.

 

Verso 2. Altere e nove. Nobili e inusitate. // 4. Il Cielo. Accusativo. // 5. Innostra. Imporpora. // 6. L’abito. La persona di Laura. [A.] // 7. Che. Quanto. Veggasi il primo verso del Sonetto quarantesimosecondo. // 13. In vista. Nel sembiante. Visibilmente.

SONETTO CXLI.

Nulla può immaginarsi di più perfetto

che veder Laura, e sentirla parlare.

Pasco la mente d’un sì nobil cibo,
Ch’ambrosia e nèttar non invidio a Giove:
Chè sol mirando, obblio ne l’alma piove
D’ogni altro dolce, e Lete al fondo bibo.

Talor ch’odo dir cose e ’n cor describo,
Perchè da sospirar sempre ritrove,
Ratto per man d’Amor, nè so ben dove,
Doppia dolcezza in un volto delibo;

Chè quella voce infino al Ciel gradita,
Suona in parole sì leggiadre e care,
Che pensar nol poria chi non l’à udita.

Allor insieme in men d’un palmo appare
Visibilmente, quanto in questa vita
Arte, ingegno e natura e ’l ciel può fare.

 

Verso 1. D’un sì nobil cibo. Cioè del mirare e dell’ascoltar la sua Laura, come poi dichiara. // 3. Chè. Perocchè. Mirando. Cioè mirando io Laura. Ne l’alma. Nell’alma mia. // 4. Dolce. Dolcezza. Al fondo. Insino al fondo. Bibo. Beo. // 5. Odo dir cose. Cioè odo colei favellare. Describo. Descrivo. Cioè le cose che odo. // 6. Per le quali io trovi sempre materia di sospirare. // 7. Ratto. Rapito. Dove. Cioè dove rapito. // 8. Doppia dolcezza. Cioè la dolcezza del vedere e quella dell’udire. Delibo. Gusto. // 11. Pensar. Immaginare. Poria. Potrebbe. // 12. In men d’un palmo. In meno spazio d’un palmo. Vuol dire nel volto di Laura.

SONETTO CXLII.

Avvicinandosi al paese di Laura, sente la forza

del suo amore verso di lei.

L’aura gentil che rasserena i poggi
Destando i fior per questo ombroso bosco,
Al soave suo spirto riconosco,
Per cui convèn che ’n pena e ’n fama poggi.

Per ritrovar ove ’l cor lasso appoggi,
Fuggo dal mio natio dolce aere tosco;
Per far lume al pensier torbido e fosco,
Cerco ’l mio Sole, e spero vederlo oggi.

Nel qual provo dolcezze tante e tali,
Ch’Amor per forza a lui mi riconduce;
Poi sì m’abbaglia, che ’l fuggir m’è tardo.

Io chiedere’ a scampar non arme anziali:
Ma perir mi dà ’l Ciel per questa luce:
Che da lunge mi struggo, e da presso ardo.

 

Verso 1. L’aura. L’aura del paese ove era la sua donna. // 2. Destando i fior. Ecco il linguaggio poetico; i fiori si destano, come persone addormentate nel verno. [A.] // 3. Spirto. Fiato. // 4. Convèn. Conviene. Che ’n pena e ’n fama poggi. Che io monti, cioè cresca, di giorno in giorno in patimenti e in celebrità. // 5. Ove ’l cor lasso appoggi. Dove appoggiare il mio cuor lasso. // 6. Fuggo. Vo lontano. Tosco. Toscano. // 7. Al pensier. Al mio pensiero. // 11. . Sì fattamente. M’abbaglia. Esso mio sole. Che. Dipende dal . Il fuggir m’è tardo. Non veggo l’ora di fuggire. // 12. A scampar. Per salvarmi. Anzi. Ma. // 13. Ma il Cielo mi ha destinato a perire per virtù di questa luce, cioè della luce del mio sole.

SONETTO CXLIII.

Non può sanarsi la sua amorosa ferita,

che o dalla pietà di Laura o dalla morte.

Di dì in dì vo cangiando il viso e ’l pelo;
Nè però smorso i dolce inescati ami,
Nè sbranco i verdi ed invescati rami
De l’arbor che nè Sol cura nè gielo.

Senz’acqua il mare, e senza stelle il cielo
Fia innanzi ch’io non sempre tema e brami
La sua bell’ombra, e ch’i’ non odii ed ami
L’alta piaga amorosa che mal celo.

Non spero del mio affanno aver mai posa
Infin ch’i’ mi disosso e snervo e spolpo,
O la nemica mia pietà n’avesse.

Esser può in prima ogn’impossibil cosa,
Ch’altri che morte od ella sani ’l colpo
Ch’Amor co’ suoi begli occhi al cor m’impresse.

 

Verso 1. Vo cangiando ’l viso e ’l pelo. Pel crescer della età. // 2. Smorso. Lascio di tener co’ denti. Dolce inescati. Guerniti di dolce esca. // 3. Sbranco. Lascio di tenere abbrancati. Invescati. Invischiati. // 4. Del lauro, allegoria di Laura. // 6. Innanzi che. Prima che. Non sempre tema e brami. Non tema e brami sempre. // 7. Sua. Cioè del detto albero. // 8. Alta. Profonda. // 10. Mi disosso e snervo e spolpo. Cioè muoio. – I verbi smorsare, sbrancare, disossare, snervare, spolpare somigliano a certi altri foggiati dall’Alighieri: ma non attestano una medesima forza creatrice. [A.] // 11. O. O infin che. La nemica mia. Cioè Laura. Pietà n’avesse. Cioè avesse pietà del mio affanno. Dice avesse, e non ha o abbia, per significare la incertezza che ciò avvenga mai. // 12. In prima. Prima. // 13. Ch’altri. Dipende da in prima. Ella. Cioè la nemica mia. // 14. Suoi. Cioè della nemica mia. – E si noti la frase imprimere un colpo, che è il latino imprimere vulnus. [A.]

SONETTO CXLIV.

Sin dal primo dì in ch’ei la vide, crebbero

in Laura le grazie, ed in esso l’amore.

L’aura serena che, fra verdi fronde
Mormorando, a ferir nel volto viemme,
Fammi risovvenir quando Amor diemme
Le prime piaghe sì dolci e profonde;

E ’l bel viso veder, ch’altri m’asconde,
Che, sdegno o gelosia celato tiemme;
E le chiome, or avvolte in perle e ’n gemme
Allora sciolte e sovra ôr terso bionde;

Le quali ella spargea sì dolcemente,
E raccogliea con sì leggiadri modi,
Che, ripensando, ancor trema la mente.

Torsele il tempo po’ in più saldi nodi,
E strinse ’l cor d’un laccio sì possente
Che morte sola fia ch’indi lo snodi.

 

Verso 2. Ferir. Percuotere. Viemme. Viemmi. Cioè mi viene. // 3. Quando. Del tempo quando. Ciò fu di primavera. Diemme. Diemmi. // 5. E. E fammi. Altri. cioè: sdegno e gelosia, come spiega nel verso seguente. // 6. Gelosia. Invidia che Laura ha del mio bene. Veggasi il Sonetto centoventesimo. Tiemme. Tiemmi. Cioè mi tiene. // 7. E le chiome. E veder le chiome. // 8. Sovra. Più che. // 12. Vuol dir che Laura cresciuta in età, non lasciava più i suoi capelli andare sciolti, come nella prima giovinezza. Po’ sta, per poi. // 13. Il cor. Il cuor mio. // 14. Indi. Cioè da esso laccio.

SONETTO CXLV.

La presenza di Laura lo trasforma, e la sola

sua ombra lo fa impallidire.

L’aura celeste che ’n quel verde lauro
Spira, ov’Amor ferì nel fianco Apollo,
Ed a me pose un dolce giogo al collo,
Tal che mia libertà tardi restauro;

Può quello in me che nel gran vecchio mauro
Medusa quando in selce trasformollo.
Nè posso dal bel nodo omai dar crollo,
Là ’ve ’l Sol perde, non pur l’ambra o l’auro;

Dico le chiome bionde e ’l crespo laccio,
Che sì soavemente lega e stringe
L’alma, che d’umiltate e non d’altro armo.

L’ombra sua sola fa ’l mio core un ghiaccio
E di bianca paura il viso tinge:
Ma gli occhi hanno virtù di farne un marmo.

 

Versi 1-3. Vuol dire il fiato e le parole di Laura, significata nell’alloro, che è figura altresì di Dafne. // 4. In modo che io non posso ricuperare, o non sono più a tempo di ricuperare, la mia libertà. // 5. Può quello in me che. Può in me quello che potè. Ha in me quel potere che ebbe. Nel gran vecchio mauro. In Atlante. // 7. Dar crollo. Muovermi pur un poco. Quel che si dice in francese bouger. // 8. Là ’ve. Là ove. Dove. Cioè, al paragone del qual nodo; pel quale s’intendono i capelli di Laura. Il Sol perde, non pur l’ambra o l’auro. È vinto, non dico l’ambra e l’oro, ma fino il sole. // 11. L’alma. L’alma mia. D’altro armo. Armo di altro. // 12. Sua. Dell’alloro, che vuol dir Laura; ovvero del crespo laccio detto nel nono verso, cioè della chioma di Laura. // 14. Gli occhi. Di Laura. Farne. Cioè del mio cuore e del viso.

SONETTO CXLVI.

Non può ridire gli effetti che in lui fanno gli occhi

e le chiome di Laura.

L’aura soave al Sole spiega e vibra
L’auro ch’Amor di sua man fila e tesse:
Là da’ begli occhi, e da le chiome stesse
Lega ’l cor lasso, e i levi spirti cribra.

Non ho midolla in osso, o sangue in fibra,
Ch’io non senta tremar, pur ch’i’ m’appresse
Dov’è chi morte e vita insieme spesse
Volte in frale bilancia appende e libra;

Vedendo arder i lumi, ond’io m’accendo,
E folgorar i nodi, ond’io son preso,
Or sull’omero destro ed or sul manco.

I’ nol posso ridir; che nol comprendo;
Da ta’ due luci è l’intelletto offeso,
E di tanta dolcezza oppresso e stanco.

 

Verso 2. Cioè i capelli di Laura. // 4. Lega. Intendasi di Amore. Il cor. Il mio cuore. I levi spirti. I miei lievi spiriti. Cribra. Agita. Scuote. // 6. Pur che. Purchè. Appresse. Appressi. // 7. Dove. Al luogo dove. Chi. Vuol dir Laura. Morte e vita. La morte e la vita mia. // 8. Appende. Sospende. // 9. Vedendo. Si riferisce alle parole del sesto verso ch’io non senta tremar. I lumi. Cioè gli occhi di Laura. // 10. Folgorar. Risplendere. I nodi. Cioè le trecce di Laura. // 11. Dipende dal verbo folgorare. // 13. Ta’. Tali.

SONETTO CXLVII.

Rapitole un guanto, loda la sua bella mano,

e duolsi di doverlo restituire.

O bella man che mi distringi ’l core
E ’n poco spazio la mia vita chiudi;
Mano ov’ogni arte e tutti loro studi
Poser Natura e ’l Ciel per farsi onore;

Di cinque perle orïental colore,
E sol ne le mie piaghe acerbi e crudi,
Diti schietti, soavi; a tempo ignudi
Consente or voi, per arricchirmi, Amore.

Candido, leggiadretto e caro guanto,
Che copria netto avorio e fresche rose;
Chi vide al mondo mai sì dolci spoglie?

Così avess’io del bel velo altrettanto.
O incostanza de l’umane cose!
Pur questo è furto; e vien ch’i’ me ne spoglie.

 

Verso 1. Distringi. Stringi. // 5-8. O diti schietti, soavi, simili per colore a cinque perle orientali, acerbi e crudi solo nelle mie piaghe, opportunamente permette Amore che voi rimanghiate ora ignudi, per arricchirmi, cioè delle vostre spoglie. Si aveva preso il Poeta nascostamente un guanto di Laura. // 14. Pur questo è furto. Questo è pur furto. Vien. Avviene. Ch’i’ me ne spoglie. Ch’io me ne spogli, cioè lo renda.

SONETTO CXLVIII.

Le ridà il guanto, e dice che non pur le mani,

ma tutto è in Laura meraviglioso.

Non pur quell’una bella ignuda mano,
Che con grave mio danno si riveste,
Ma l’altra, e le duo braccia, accorte e preste
Son a stringer il cor timido e piano.

Lacci Amor mille, e nessun tende in vano
Fra quelle vaghe nove forme oneste,
Ch’adornan sì l’alto abito celeste,
Ch’aggiunger nol può stil nè ’ngegno umano.

Gli occhi sereni e le stellanti ciglia;
La bella bocca angelica, di perle
Piena e di rose e di dolci parole,

Che fanno altrui tremar di maraviglia;
E la fronte e le chiome, ch’a vederle,
Di state a mezzo dì vincono il Sole.

 

Verso 1. Non pur. Non solo. // 2. Si riveste. Cioè del guanto rendutole dal Poeta. // 3-4. Accorte e preste Son. Sono accorte e preste, cioè pronte. Piano. Umile. Facile. Che non resiste. // 5. Amor tende mille lacci, e nessun d’essi invano. // 7. . Talmente. Abito. Cioè corpo, persona. // 8. Aggiunger. Arrivare, attivo. // 9-14. Dipendono questi versi dalla voce fra del verso sesto.

SONETTO CXLIX.

Si pente d’aver restituito quel guanto ch’era

per lui una delizia e un tesoro.

Mia ventura ed Amor m’avean sì adorno
D’un bell’aurato e serico trapunto,
Ch’al sommo del mio ben quasi era aggiunto,
Pensando meco a chi fu questo intorno.

Nè mi riede a la mente mai quel giorno
Che mi fe ricco e povero in un punto,
Ch’i’ non sia d’ira e di dolor compunto,
Pien di vergogna e d’amoroso scorno;

Chè la mia nobil preda non più stretta
Tenni al bisogno, e non fui più costante
Contra lo sforzo sol d’un’angioletta:

O fuggendo, ale non giunsi a le piante,
Per far almen di quella man vendetta,
Che degli occhi mi trae lagrime tante.

 

Verso 2. Cioè del guanto di Laura, trapunto o ricamato d’oro o di seta. // 3. Che. Dipende dal del primo verso. Al sommo del mio ben. Al colmo della mia beatitudine. Era. Io era. Aggiunto. Giunto. // 4. Meco. Fra me. A chi fu questo intorno. Intorno a chi, cioè intorno a qual mano, fu questo guanto. // 5. Riede. Torna. // 6. Fe. Fece. Ricco e povero. Ricco, per l’acquisto del guanto; povero, per averlo renduto. In un punto. In un medesimo punto. // 10. Al bisogno. Come voleva il bisogno. // 12. Ale non giunsi a le piante. Non aggiunsi, non legai, non posi, ale a’ miei piedi. // 14. Degli. Dagli.

SONETTO CL.

Arso e distrutto dalla fiamma amorosa,

non ne incolpa che la propria sorte.

D’un bel, chiaro, polito e vivo ghiaccio
Move la fiamma che m’intende e strugge,
E sì le vene e ’l cor m’asciuga e sugge,
Che ’nvisibilemente i’ mi disfaccio.

Morte, già per ferire alzato ’l braccio,
Come irato ciel tuona o leon rugge,
Va perseguendo mia vita che fugge;
Ed io, pien di paura, tremo e taccio.

Ben poria ancor pietà con amor mista,
Per sostegno di me, doppia colonna
Porsi fra l’alma stanca e ’l mortal colpo:

Ma io nol credo, nè ’l conosco in vista
Di quella dolce mia nemica e donna:
Nè di ciò lei; ma mia ventura incolpo.

 

Verso 1. Vuol dir Laura. // 2. Move. Viene procede. Nasce. // 3. . Sì fattamente. // 7. Perseguendo. Inseguendo. // 9. Poria. Potrebbe. Pietà con amor. Che nascessero nel cuor di Laura. // 11. L’alma. L’alma mia. E ’l mortal colpo. Che mi è minacciato da Morte. // 12-13. Ma io non credo che ciò sia per avvenire, e non ne veggo alcun segno nell’aspetto di Laura. Donna qui sta per signora. // 14. Ventura. Fortuna.

SONETTO CLI.

L’amerà anche dopo morte. Essa nol crede,

ed egli se ne rattrista.

 

Lasso, ch’i’ ardo, ed altri non mel crede;
Sì crede ogni uom, se non sola colei
Che sovra ogni altra e ch’i’ sola vorrei:
Ella non par che ’l creda, e sì sel vede.

Infinita bellezza e poca fede,
Non vedete voi ’l cor negli occhi miei?
Se non fosse mia stella, i’ pur devrei
Al fonte di pietà trovar mercede.

Quest’arder mio, di che vi cal sì poco,
E i vostri onori in mie rime diffusi,
Ne porian infiammar forse ancor mille:

Ch’i’ veggio nel pensier, dolce mio foco,
Fredda una lingua, e duo begli occhi chiusi
Rimaner dopo noi pien di faville.

 

Verso 2. Sì crede. Anzi veramente mel crede. // 3. La quale più che ogni altra persona, anzi la qual sola io vorrei che mel credesse. // 4. E sì sel vede. E pure, e nondimeno, lo vede. // 5. Vocativi. Cioè, o donna di bellezza infinita e di poca fede. // 7. Se non fosse mia stella. Se non fosse la mia sorte nemica, che lo impedisce. Devrei. Dovrei. // 8. Al fonte di pietà. Che siete voi. // 9. Di che. Di cui. // 11. Potrebbero infiammar di amore forse anco mille donne. // 12. Chè. Perocchè. Veggio nel pensier. Cioè preveggo col pensiero. Dolce mio foco. Vocativo. // 13-14. Cioè, che voi, per virtù delle mie rime, vivrete nella memoria degli uomini ancor dopo morta. Pien vale pieni, e dipende da rimanere.

SONETTO CLII.

Propone Laura a sè stesso come un modello

di virtù da doversi imitare.

Anima, che diverse cose tante,
Vedi, odi e leggi e parli e scrivi e pensi;
Occhi miei vaghi, e tu, fra gli altri sensi,
Che scorgi al cor l’alte parole sante;

Per quanto non vorreste o poscia od ante
Esser giunti al cammin che sì mal tiensi,
Per non trovarvi i duo bei lumi accensi,
Nè l’orme impresse de l’amate piante?

Or con sì chiara luce e con tai segni
Errar non dèssi in quel breve vïaggio
Che ne può far d’eterno albergo degni.

Sfòrzati al cielo, o mio stanco coraggio,
Per la nebbia entro de’ suoi dolci sdegni
Seguendo i passi onesti e ’l divo raggio.

 

Verso 1. Anima. Anima mia. Diverse cose tante. Tante cose diverse. // 3. Vaghi. Cupidi. Bramosi. E tu. Parla al senso dell’udito. // 4. Scorgi. Guidi. Conduci. Al cor. Al mio cuore. L’alte parole sante. Di Laura. // 5-8. Quanto gran prezzo non rifiutereste voi piuttosto che acconsentire di esser venuti al mondo o più presto o più tardi di questo tempo, in guisa che non aveste trovato nella vita costei? Ante vale avanti, prima. // 9. Con sì chiara luce. Quella de’ duo bei lumi accensi, cioè degli occhi di Laura. Con tai segni. Cioè l’orme impresse de l’amate piante, che vuol dire i vestigi di Laura. // 10. Dèssi. Si dee. In quel breve viaggio. Cioè nel viaggio della vita. // 11. Ne. Ci. // 12. Sfòrzati al ciel. «Poma ad sidera nituntur.» Virg.: Geor. II, v. 428. [A.] – *Coraggio vale cuore, ed è voce frequentissima presso i poeti antichi.* // 13. Per la nebbia entro. Per entro la nebbia. // 14. I passi onesti. Le orme di Laura. Divo. Divino. Raggio. Degli occhi di Laura.

SONETTO CLIII.

Confortasi col pensiero che un dì gli sarà invidiata

la sua fortuna.

Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci,
Dolce mal, dolce affanno e dolce peso,
Dolce parlar e dolcemente inteso,
Or di dolce òra, or pien di dolci faci.

Alma, non ti lagnar, ma soffri e taci,
E tempra il dolce amaro che n’à offeso,
Col dolce onor che d’amar quella ài preso
A cu’ io dissi: tu sola mi piaci.

Forse ancor fìa chi sospirando dica,
Tinto di dolce invidia: assai sostenne
Per bellissimo amor questi al suo tempo.

Altri: o fortuna agli occhi miei nemica!
Perchè non la vid’io? perchè non venne
Ella più tardi, ovver io più per tempo?

 

Verso 4. Or pieno di dolce aura, cioè refrigerio, or di dolci faci, cioè di dolce ardore. // 6. Che n’à offeso. Che ci ha travagliati. // 7. D’amar. Dall’amare. Preso. Ricevuto. // 8. A cu’ io. A cui io. – *Ovid.: «Elige cui dicas: tu mihi sola places.»* // 9. Ancor fia chi. Ci sarà nell’avvenire qualcuno che. // 10. Sostenne. Sofferse. // 11. Questi. Cioè il Poeta. // 12. Altri. Altri forse dirà. // 14. Per tempo. Presto.

CANZONE XV.

La persuade esser falso ch’ei avesse detto

di amare altra donna.

S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ venga in odio a quella
Del cui amor vivo, e senza ’l qual morrei:
S’i’ ’l dissi, ch’e’ miei dì sian pochi e rei,
E di vil signoria l’anima ancella:
S’i’ ’l dissi, contra me s’arme ogni stella,
E dal mio lato sia
Paura e gelosia,
E la nemica mia
Più feroce vêr me sempre e più bella.

 

Verso 1. S’i’ ’l dissi mai. D’amare un’altra donna. // 3. Ch’e’. Che i. Rei. Cattivi. Miseri. // 4. Di vil signoria. Cioè di vil passione, affetto. // 5. S’arme. Si armi. // 8. La nemica mia. Laura. // 9. Più feroce. Suppl. sia. Vêr. Verso.

 

S’i’ ’l dissi, Amor l’aurate sue quadrella
Spenda in me tutte, e l’impiombate in lei:
S’i’ ’l dissi, cielo e terra, uomini e Dei
Mi sian contrari, ed essa ognor più fella:
S’i’ ’l dissi, chi con sua cieca facella
Dritto a morte m’invia,
Pur come suol si stia,
Nè mai più dolce o pia
Vêr me si mostri in atto od in favella.

 

Verso 1. L’aurate sue quadrella. Le saette che producono amore. // 2. L’impiombate. Quelle che generano odio o freddezza. // 4. Fella. Aspra. Rigida. // 5. Chi. Colei che. Cioè Laura. Cieca facella. Cioè face, fiamma, che arde le intime e segrete parti dell’uomo. Chiusa, occulta, invisibile facella. Così Virgilio di Didone innamorata: «Vulnus alit venis, et cœco carpitur igni.» // 6. Dritto. Avverbio. // 7. Si rimanga tale, nè più nè meno, quale ella suol essere. // 8. Più dolce o pia. Più dolce o pietosa di quel che ella suole. // 9. Vêr. Verso. In atto od in favella. In opere o in parole.

 

S’i’ ’l dissi mai, di quel ch’i’ men vorrei
Piena trovi quest’aspra e breve via:
S’i’ ’l dissi, il fero ardor che mi desvia
Cresca in me, quanto ’l fier ghiaccio in costei:
S’i’ ’l dissi, unqua non veggian gli occhi miei
Sol chiaro o sua sorella,
Nè donna nè donzella,
Ma terribil procella,
Qual Faraone in perseguirgli Ebrei.

 

Verso 2. Trovi. Io trovi. Quest’aspra e breve via. Cioè la vita. // 3. Fero. Fiero. Mi desvia. Mi disvia. Cioè mi trae della via, mi fa smarrire, mi toglie il senno. // 5. Unqua. Mai. // 6. Sole chiaro nè luna chiara. // 9. Qual. Accusativo. Come quella che. Faraone. Suppliscasi vide. Perseguir. Inseguire.

 

S’i’ ’l dissi, coi sospir, quant’io mai fei,
Sia pietà per me morta e cortesia:
S’i’ ’l dissi, il dir s’innaspri, che s’udia
Sì dolce allor che vinto mi rendei:
S’i’ ’l dissi, io spiaccia a quella ch’io torrei,
Sol chiuso in fosca cella
Dal dì che la mammella
Lasciai fin che si svella
Da me l’alma, adorar: forse ’l farei.

 

Versi 1-2. Coi sospir, quant’io mai fei, Sia pietà per me morta e cortesia. Siano morti, cioè perduti, e gittati invano, i miei sospiri e quanto io feci mai; e con questo, e insieme, cioè medesimamente, sia morta per me ogni pietà e cortesia. // 3. Il dir. Cioè le parole di Laura. S’innaspri. Divenga aspro. // 4. Che vinto mi rendei. Cioè, che fui preso dell’amor di Laura. // 5. Torrei. Congiungasi questa voce col verbo adorar dell’ultimo verso della stanza; e intendasi: Vorrei, sarei contento, di adorare.

 

Ma s’io nol dissi, chi sì dolce apria
Mio cor a speme ne l’età novella,
Regga ancor questa stanca navicella
Col governo di sua pietà natia,
Nè diventi altra, ma pur qual solia
Quando più non potei,
Che me stesso perdei,
Nè più perder devrei.
Mal fa chi tanta fè sì tosto obblia.

 

Verso 1. Chi. Colei che. //. 2. Età. Età mia. // 3. Ancor. Anche ora. Anche in avvenire. Tuttavia. // 4. Governo. Timone. Natia. Naturale. Ingenita. // 5. Ma pur qual solia. Ma sia quale ella soleva essere. // 6. Suppliscasi perdere, patire, sostenere, fare, o altro simile. Ovvero intendasi: quando io non potei resistere. // 8. Devrei. Dovrei. // 9. . Fede.

Io nol dissi già mai, nè dir poria
Per oro o per cittadi o per castella.
Vinca ’l ver dunque e si rimanga in sella,
E vinta a terra caggia la bugia.
Tu sai in me il tutto, Amor: s’ella ne spia,
Dinne quel che dir dèi.
I’ beato direi
Tre volte e quattro e sei
Chi, devendo languir, si morì pria.

 

Verso 1. Nè dir poria. Nè potrei dirlo. // 3. E si rimanga in sella. Metafora tolta dai giostratori. // 4. Caggia. Cada. // 5. Ne spia. Ne cerca. Ne dimanda. // 6. Dei. Devi. // 7. Io direi: beato. // 9. Devendo. Dovendo. Languir. Per amore. Pria. Di languire.

 

Per Rachel ho servito e non per Lia;
Nè con altra saprei
Viver; e sosterrei,
Quando ’l Ciel ne rappella,
Girmen con ella in sul carro d’Elia.

 

Verso 1. Cioè, per Laura ho patito e non per un’altra donna. Ha riguardo al servizio prestato da Giacobbe a Labano per avere in isposa Rachele. // 3-5. E sosterrei girmen. Ed avrei cuore di andarmene. Ne rappella. Ci richiama a sè.

CANZONE XVI.

Non può vivere senza vederla, e non vorrebbe

morire per poter amarla.

Ben mi credea passar mio tempo omai
Come passato avea questi anni addietro,
Senz’altro studio e senza novi ingegni;
Or poi che da Madonna i’ non impetro
L’usata aita, a che condotto m’ài,
Tu ’l vedi, Amor, che tal arte m’insegni.
Non so s’i’ me ne sdegni;
Chè ’n questa età mi fai divenir ladro
Del bel lume leggiadro,
Senza ’l qual non vivrei in tanti affanni.
Così avess’io i prim’anni
Preso lo stil ch’or prender mi bisogna;
Chè ’n giovenil fallire è men vergogna.

 

Verso 1. Mi credea. Io mi credeva. // 3. Ingegni. Artifizi. Astuzie. // 4-5. Or poi che da Madonna i’ non impetro L’usata aita. Vuol dire: ma poichè Laura non mi si lascia più vedere, oppur non mi volge più gli occhi, volontariamente. // 6. Tal arte. Cioè di procacciarmi la vista, ovvero gli sguardi, di Laura come per furto. // 10. Senza il quale, trovandomi, come mi trovo, in tanti affanni, io non potrei vivere. // 11. Così. Voce desiderativa. I. Nei. // 12. Lo stil. L’usanza. L’arte detta di sopra. // 13. Chè. Perocchè. – *Ovid.: «Quæ decuit primis sine crimine lusimus annis.»*

 

Gli occhi soavi, ond’io soglio aver vita,
De le divine lor alte bellezze
Furmi in sul cominciar tanto cortesi,
Chè ’n guisa d’uom cui non proprie ricchezze,
Ma celato di for soccorso aita,
Vissimi; che nè lor nè altri offesi.
Or ben ch’a me ne pesi,
Divento ingiurioso ed importuno;
Chè ’l poverel digiuno
Viene ad atto talor che ’n miglior stato
Avria in altrui biasmato.
Se le man di pietà invidia m’à chiuse,
Fame amorosa e ’l non poter mi scuse.

 

Verso 1. Onde. Dai quali. // 3. In sul cominciar. Da principio. Cortesi. Liberali. // 5. Di for soccorso. Soccorso che gli viene di fuori. Soccorso altrui. Aita. Verbo. Aiuta. // 6. Altri. Vuol dir Laura. // 10. Atto. Azione. Che. Che esso. // 12. Se invidia m’à chiuse (cioè fu cagione che si chiudessero con mio danno) le mani di pietà; le mani che mi solevano pietosamente soccorrere. [A.] // 13. ’L non poter. Il non potere altrimenti. Scuse. Scusi.

 

Ch’i’ ò cercate già vie più di mille
Per provar senza lor se mortal cosa
Mi potesse tener in vita un giorno:
L’anima, poi ch’altrove non à posa,
Corre pur all’angeliche faville;
Ed io, che son di cera, al foco torno;
E pongo mente intorno,
Ove si fa men guardia a quel ch’i’ bramo;
E come augello in ramo,
Ove men teme, ivi più tosto è colto,
Così dal suo bel volto
L’involo or uno ed or un altro sguardo;
E di ciò insieme mi nutrico ed ardo.

 

Verso 1. Vie più di mille. Più di mille vie. 2. Senza lor se. Se senza quegli occhi. // 4. L’anima. L’anima mia. – Non à posa. È il non pausare dei greci. [A.] // 5. A l’angeliche faville. Cioè a quegli occhi. // 7. Pongo mente. Osservo. // 12. L’involo. Le involo. Involo a lei, cioè a Laura. // 13. Insieme. In un medesimo tempo.

 

Di mia morte mi pasco e vivo in fiamme:
Stranio cibo e mirabil salamandra!
Ma miracol non è; da tal si vòle.
Felice agnello a la penosa mandra
Mi giacqui un tempo; or a l’estremo famme
E Fortuna ed Amor pur come sòle:
Così rose e viole
A primavera, e ’l verno à neve e ghiaccio.
Però, s’i’ mi procaccio
Quinci e quindi alimenti al viver curto,
Se vòl dir che sia furto,
Sì ricca donna deve esser contenta,
S’altri vive del suo, ch’ella nol senta.

 

Verso 2. Salamandra. Animale, che si dice che viva nel fuoco. // 3. Ma miracol non è. Ma non è cosa da farsene maraviglia. Da tal. Intende da Amore. Vole. Vuole. // 4-6. Dante, Par. XXV: «Del bello ovile, ov’io dormii agnello.»* – Cioè: io vissi felice già un tempo nella schiera degl’innamorati; ora in sull’ultimo, la Fortuna ed Amore mi trattano secondo la loro usanza, cioè mi danno pena e miseria. Famme sta per fammi; Sòle, per suole. // 11. Se ec. Laura dica pure a sua posta che questo sia furto; ma dica altresì che ben è moderato chi a lei tanto ricca non toglie se non quelle, di ch’ella nè pure si accorge. [A.] – Vòl. Vuole. // 13. Ch’ella nol senta. In maniera che ella non perda però nulla, nè pur se ne avvegga.

 

Chi nol sa di ch’io vivo e vissi sempre
Dal dì che prima que’ begli occhi vidi,
Che mi fecer cangiar vita e costume?
Per cercar terra e mar da tutti lidi
Chi può saver tutte l’umane tempre?
L’un vive, ecco, d’odor là sul gran fiume:
Io qui di foco e lume
Queto i frali e famelici miei spirti.
Amor (e vo’ ben dirti),
Disconviensi a signor l’esser sì parco.
Tu ài li strali e l’arco:
Fa’ di tua man, non pur bramando, i’ mora:
Ch’un bel morir tutta la vita onora.

 

Verso 1. Di che. Di che cosa. // 2. Prima. Primieramente. La prima volta. // 4. Cioè se bene avesse corso, o corresse, tutte le terre e tutti i mari. // 5. Saver. Sapere. Le umane tempre. Le nature degli uomini. // 6. Ecco, alcuni là presso al Gange vivono di odore. Favola narrata da alcuni antichi. – Vedi il Sonetto CXXXIX, e la nota respettiva. [L.] // 8. Queto. Verbo. Appago. // 9. E vo’ ben dirti. E voglio pur dirtelo. // 12. Fa’ ch’io muoia d’un tuo colpo, e non così consumandomi di fame e di desiderio a poco a poco. – *Cic.: «Mors honesta sæpe vitam quoque turpem exornat.»*

 

Chiusa fiamma è più ardente; e se pur cresce,
In alcun modo più non può celarsi;
Amor, i’ ’l so, che ’l provo a le tue mani.
Vedesti ben quando sì tacito arsi:
Or de’ miei gridi a me medesmo incresce,
Che vo noiando e prossimi e lontani.
O mondo, o pensier vani!
O mia forte ventura a che m’adduce!
O di che vaga luce
Al cor mi nacque la tenace speme
Onde l’annoda e preme
Quella che con tua forza al fin mi mena!
La colpa è vostra, e mio ’l danno e la pena.

 

Verso 1. *Chiusa ecc. Ovid. «Quoque magis tegitur, tanto magis æstuat ignis.»* Pur. Ancora. Tuttavia. // 3. A le. Per le. Per opera delle. // 5. Ora non posso più tacere: anzi son ridotto a gridar tanto, che le mie grida rincrescono a me medesimo. // 6. Prossimi. Vicini. // 8. Forte ventura. Fortuna nemica. M’adduce. Mi conduce. // 9. Che. Quanto. Luce. Vuol dir gli occhi di Laura. – E si noti la graziosa elissi di che vaga ecc. per dir: a cagion di che ecc. Elissi frequente ai trecentisti anche nella prosa e poi quasi dimenticata dagli scrittori con tante altre maniere e proprietà; ciascuna delle quali è sì picciola cosa in sè stessa, ma tutto insieme davano alla nostra lingua un carattere suo proprio che noi moderni abbiamo perduto. Per timore di parer troppo antichi non ci vergogniamo di parer forestieri. [A.] // 11. Onde. Con cui. // 12. Quella. Cioè Laura. Tua. Di te, Amore. Al fin. A morte. // 13. Vostra. Vuol dire d’Amore e di Laura.

 

Così di ben amar porto tormento,
E del peccato altrui cheggio perdono;
Anzi del mio, chè devea torcer gli occhi
Dal troppo lume, e di sirene al suono
Chiuder gli orecchi; ed ancor non men pento
Che di dolce veleno il cor trabocchi.
Aspetto io pur che scocchi
L’ultimo colpo chi mi diede il primo:
E fia, s’i’ dritto estimo,
Un modo di pietate occider tosto,
Non essendo ei disposto
A far altro di me che quel che soglia;
Chè ben mor chi morendo esce di doglia.

 

Verso 1. Di bene amar. Per bene amare. Cioè a causa del mio bene amare. Porto. Sostengo. Patisco. // 2. Cheggio. Chiedo. – *Guitt. d’Arez. «De l’altrui fallo chiedo perdonanza.»* // 3. Devea. Dovea. Persona prima. // 5-6. Ed ancor non men pento Che. Ed ancor non mi pento, non mi dolgo, di questo, che. Il cor. Il mio cuore. Trabocchi. Ridondi. // 8. Chi. Cioè Amore. // 9. S’i’ dritto estimo. Se io ben giudico. – *Senec. «Misericordiæ genus est cito occidere.»* // 11-12. Quando egli, cioè Amore, non sia disposto a trattarmi altrimenti di ciò che suol fare.

 

Canzon mia, fermo in campo
Starò, ch’egli è disnor morir fuggendo:
E me stesso riprendo
Di tai lamenti: sì dolce è mia sorte,
Pianto, sospiri e morte.
Servo d’Amor, che queste rime leggi,
Ben non ha ’l mondo che ’l mio mal pareggi.

 

Verso. 2. Egli. Voce di ripieno. Disnor. Disonore. // 7. Ben. Nome accusativo. Che. Relativo di ben. Pareggi. Agguagli.

SONETTO CLIV.

Prega il Rodano, che scendendo al paese di Laura,

le baci ’l piede, o la mano.

Rapido fiume, che d’alpestra vena,
Rodendo intorno, onde ’l tuo nome prendi,
Notte e dì meco desïoso scendi
Ov’Amor me, te sol Natura mena;

Vattene innanzi: il tuo corso non frena
Nè stanchezza nè sonno: e pria che rendi
Suo dritto al mar, fiso, u’ si mostri, attendi
L’erba più verde, e l’aria più serena.

Ivi è quel nostro vivo e dolce Sole
Ch’adorna e ’nfiora la tua riva manca;
Forse (o che spero) il mio tardar le dole.

Baciale ’l piede, o la man bella e bianca:
Dille: il baciar sia ’n vece di parole;
Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca.

 

Verso 1. D’alpestra vena. Si riferisce al verbo scendi, che sta nel terzo verso. // 2. Intorno. Cioè il terreno d’intorno. Onde. Cioè: dal rodere. Il tuo nome. Di Rodano. – *Non da rodere ma da Roda, città dove nasce tal fiume, congettura il Tassoni derivare l’etimologia di Rodano.* // 4. Cioè verso colà dove è Laura. // 6. Che rendi. Che tu renda. // 7. Suo dritto. Il tributo delle tue acque. Fiso, u’ si mostri, attendi. Guarda fissamente, attentamente, ove sia. // 9. Quel nostro vivo e dolce Sole. Cioè Laura. // 10. Cioè, che abita sulla tua riva sinistra. // 11. O che spero. O certo, o per lo meno, io lo spero. Dole. Dispiace. // 14. Lo spirto. Cioè del Poeta. Ma la carne è stanca. Vuol dire: ma il corpo non può giungere così tosto, e senza l’indugio di quel tempo che è necessario al viaggio, come vorrebbe lo spirito.

SONETTO CLV.

Assente da Valchiusa col corpo, non fu, non è,

e non sarà mai collo spirito.

I dolci colli ov’io lasciai me stesso
Partendo onde partir già mai non posso,
Mi vanno innanzi; ed emmi ogni or addosso
Quel caro peso ch’Amor m’à commesso.

Meco di me mi meraviglio spesso,
Ch’i’ pur vo sempre, e non son ancor mosso
Dal bel giogo più volte indarno scosso,
Ma com’ più me n’allungo e più m’appresso.

E qual cervo ferito di saetta,
Col ferro avvelenato dentro al fianco
Fugge, e più duolsi quanto più s’affretta;

Tal io con quello stral dal lato manco,
Che mi consuma e parte mi diletta,
Di duol mi struggo e di fuggir mi stanco.

 

Verso 1. I dolci colli. I luoghi della dimora di Laura. // 2. Onde. Di là donde. Partir. Cioè partir col pensiero e coll’animo. // 3. Mi vanno innanzi. Cioè alla fantasia. Emmi. Mi è. Mi sta. Ogni or. Ognora. // 4. Cioè il giogo che Amore mi ha posto. // 5. Meco. Fra me stesso. // 6. Ch’i’ pur vo sempre. Ch’io vo pur continuamente oltre, allontanandomi da Laura. Non son. Non mi sono. // 8. Ma quanto più me ne allontano, più mi vi appresso. // 9-11. Virg. En.: «Qualis conjecta cerva sagitta, Quam procul incautam nemora inter Cressia fixit Pastor agens telis, liquitque volatile ferrum Nescius; illa fuga sylvas, saltusque peragrat Dictœos; hæret lateri lethalis arundo.»* // 11. E più. E tanto più. // 13. Parte. Insieme. Al medesimo tempo.

SONETTO CLVI.

È nuovo ed unico il suo tormento, giacchè Laura,

che n’è la cagione, non s’accorge.

Non da l’ispano Ibero a l’Indo Idaspe
Ricercando del mar ogni pendice,
Nè dal lito vermiglio a l’onde Caspe,
Nè ’n ciel nè ’n terra è più d’una fenice.

Qual destro corvo o qual manca cornice
Canti ’l mio fato? o qual Parca l’innaspe?
Che sol trovo pietà sorda com’aspe,
Misero onde sperava esser felice:

Ch’i’ non vo’ dir di lei; ma chi la scorge,
Tutto ’l cor di dolcezza e d’amor l’empie;
Tanto n’à seco e tanto altrui ne porge:

E per far mie dolcezze amare ed empie,
O s’infinge o non cura o non s’accorge
Del fiorir queste innanzi tempo tempie.

 

Versi 1-4. Vuol dire: la mia donna è di perfezione unica al mondo. Ibero. Nome di fiume. Pendice. Costa. Riva. Dal lito vermiglio. Dal lido del Mar Rosso. Caspe. Caspio. // 5-8. Vuol dire: or dunque per qual cagione avviene che essendo la mia donna così perfetta, io solo trovo lei, che è la stessa pietà, sorda come un aspide, e sono fatto misero da quello stesso per cui mi sperava di avere a esser felice? Il cantare del corvo da mano destra, e quello della cornacchia dalla sinistra, si prendono qui per augurii infausti. Innaspe sta per innaspi. // 9. Chi la scorge. Colui che la regge, la governa; o intenda di Amore o d’altro; chè l’oscurità di questo luogo e di tutto il sonetto passa ogni termine. // 10. L’empie. Le empie. Empie a Lei. // 11. Ne. Cioè di dolcezza e d’amore. Seco. In sè. // 12. Empie. Spietate. // 13. S’infinge. Dissimula. // 14. Che le mie tempie fioriscono, cioè incanutiscono, prima del tempo.

SONETTO CLVII.

Come e quando sia entrato nel laberinto d’amore,

e come ora egli vi stia.

Voglia mi sprona, Amor mi guida e scorge,
Piacer mi tira, usanza mi trasporta,
Speranza mi lusinga e riconforta,
E la man destra al cor già stanco porge:

Il misero la prende, e non s’accorge
Di nostra cieca e disleale scorta:
Regnano i sensi, e la ragione è morta;
De l’un vago desio l’altro risorge.

Vertude, onor, bellezza, atto gentile,
Dolci parole ai bei rami m’àn giunto,
Ove soavemente il cor s’invesca.

Mille trecento ventisette appunto,
Su l’ora prima, il dì sesto d’aprile
Nel labirinto intrai; nè veggio ond’esca.

 

Verso 2. Usanza. Abito. Assuefazione. – *Benuccio Salimb.: «E la speranza mi lusinga e mena.»* // 6. Come sia cieca e infedele la nostra guida. Cioè Amore o speranza, ovvero ambedue. // 8. De l’un. Dall’un. Risorge. Rinasce. // 10. Ai bei rami. Del lauro, allegoria di Laura. Giunto. Colto. Preso. // 11. S’invesca. S’invischia. // 12. Mille trecento ventisette. Nell’anno mille trecento ventisette. // 14. Intrai. Entrai. Ond’esca. Donde, da che parte, uscire, potere uscire.

SONETTO CLVIII.

Servo fedele di Amore per sì lungo tempo,

non n’ebbe in premio che lagrime.

Beato in sogno, e di languir contento,
D’abbracciar l’ombre e seguir l’aura estiva
Nuoto per mar che non ha fondo o riva,
Solco onde, e ’n rena fondo, e scrivo in vento;

E ’l Sol vagheggio sì, ch’egli à già spento
Col suo splendor la mia vertù visiva;
Ed una cerva errante e fuggitiva
Caccio con un bue zoppo e ’nfermo e lento.

Cieco e stanco ad ogni altro ch’al mio danno,
Solo Amor e Madonna e Morte chiamo.

Così vent’anni (grave e lungo affanno!)
Pur lacrime e sospiri e dolor merco:
In tale stella presi l’esca e l’amo.

 

Verso 2. Seguir l’aura estiva. Correr dietro al vento. // 4. Catull.: «In vento et rapida scribere oportet acqua.»* // 6. Vertù. Virtù. Cioè facoltà, potenza. // 9. Ad ogni altro. Ad ogni altra cosa. Cioè verso ogni altra cosa, a rispetto di ogni altra cosa. // 13. Pur. Solo. Non altro che. Merco. Procaccio. Guadagno. // 14. In tal punto di stelle fui preso all’amo, cioè caddi in questa mia passione.

SONETTO CLIX.

Laura colle sue grazie fu per lui una vera

incantatrice che lo trasformò.

Grazie ch’a pochi ’l Ciel largo destina;
Rara vertù, non già d’umana gente;
Sotto biondi capei canuta mente,
E in umil donna, alta beltà divina;

Leggiadria singulare e pellegrina,
E ’l cantar che ne l’anima si sente,
L’andar celeste, e ’l vago spirto ardente,
Ch’ogni dur rompe ed ogni altezza inchina;

E que’ begli occhi, che i cor fanno smalti
Possenti a rischiarare abisso e notti,
E tôrre l’alme a’ corpi e darle altrui;

Col dir pien d’intelletti dolci ed alti,
E co’ sospir soavemente rotti:
Da questi magi trasformato fui.

 

Verso 1. Largo. Liberale. // 2. Virtù rara e più che umana. // 3. Capei. Capelli. // 7. L’andar. L’andamento. // 8. Ogni dur. Ogni duro. Cioè ogni durezza, ogni cosa dura. // 9. Che i cor fanno smalti. Che impietrano i cuori. // 10. Possenti. Dipende da occhi. // 12. Intelletti. Concetti. Sentimenti.

SESTINA VI.

Storia del suo amore. Difficoltà di liberarsene.

Invoca l’aiuto di Dio.

Anzi tre dì creata era alma in parte
Da por sua cura in cose altere e nove,
E dispregiar di quel ch’a molti è ’n pregio.
Quest’ancor dubbia del fatal suo corso,
Sola, pensando, pargoletta e sciolta,
Intrò di primavera in un bel bosco.

 

Verso 1. Anzi tre dì. Già da tre giorni. Per giorni intende le età dell’uomo, e vuol dire che l’anima sua, quando ella s’innamorò di Laura, trovavasi aver passate le tre prime età della vita, infanzia, puerizia e gioventù. Alma. Un’alma. Cioè l’anima del poeta. In parte. In corpo, in persona sì fattamente disposta. // 2. Altere. Alte. Nobili. // 3. Ch’a molti è ’n pregio. Che da molti è pregiato. // 4. Quest’anima, ancora incerta del corso a lei stabilito dal destino. // 6. Intrò. Entrò. In un bel bosco. Nel bosco di Amore.

 

Era un tenero fior nato in quel bosco
Il giorno avanti; e la radice in parte
Ch’appressar nol poteva anima sciolta:
Chè v’eran di lacciuo’ forme sì nove,
E tal piacer precipitava al corso,
Che perder libertate iv’era in pregio.

 

Verso 1. Un tenero fior. Intende di Laura. Nato. Dipende da era. // 2. Il giorno avanti. Cioè un’età innanzi. E la radice in parte. E la radice di questo fiore era in luogo tale, era di tal disposizione. // 3. Che nessuna anima che si fosse appressata al medesimo fiore, poteva rimanere sciolta, cioè libera. Nessuna anima se gli poteva appressare che non vi restasse presa. // 4. Chè. Perocchè. Lacciuo’. Lacciuoli. // 5. Precipitava al corso. Induceva le anime a correre cupidissimamente a quel fiore. // 6. Iv’era. Ivi era. In pregio. Cosa avuta in pregio.

 

Caro, dolce, alto e faticoso pregio,
Che ratto mi volgesti al verde bosco,
Usato di sviarne a mezzo ’l corso,
Ed ho cerco poi ’l mondo a parte a parte,
Se versi o pietre o suco d’erbe nove
Mi rendesser un dì la mente sciolta.

 

Verso 1. Pregio. Del perder la propria libertà intorno a quel fiore. // 3. Usato. Solito. Dipende da bosco. Sviarne. Sviarci. Sviare gli uomini. A mezzo ’l corso. Della vita. // 4. Cerco. Cercato. // 5. Se. Per vedere se. Suco. Sugo. Nove. Strane. Rare. // 6. Sciolta. Libera.

 

Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta
Fia di quel nodo ond’è ’l suo maggior pregio,
Prima che medicine antiche o nove
Saldin le piaghe ch’i’ presi in quel bosco
Folto di spine; ond’i’ ò ben tal parte,
Che zoppo n’esco e ’ntraivi a sì gran corso.

 

Verso 1-2. La carne. Il mio corpo. Sciolta fia. Sarà sciolta. Ond’è ’l suo maggior pregio. Da cui viene a essa carne il suo maggior pregio. Cioè da quel nodo che la congiunge allo spirito. // 3. Antiche o nove. Usitate o insolite. // 5. Ò ben tal parte. Sono ridotto a tale. // 6. A sì gran corso. Correndo sì gagliardamente.

 

Pien di lacci e di stecchi un duro corso
Aggio a fornire, ove leggiera e sciolta
Pianta avrebbe uopo, e sana d’ogni parte.
Ma tu, Signor, ch’ài di pietate il pregio,
Porgimi la man destra in questo bosco;
Vinca ’l tuo Sol le mie tenebre nove.

 

Verso 1. Un duro corso, pieno di lacci o di stecchi. // 2. Aggio. Ho. // 3. Pianta. Piede. Avrebbe uopo. Sarebbe di bisogno. D’ogni parte. Da ogni parte. Del tutto. // 4. Signor. Si volge a Dio. Il pregio. Il vanto. La lode. // 6. Nove. Strane.

 

Guarda ’l mio stato a le vaghezze nove,
Che ’nterrompendo di mia vita il corso,
M’àn fatto abitator d’ombroso bosco:
Rendimi, s’esser può, libera e sciolta
L’errante mia consorte; e fia tuo ’l pregio
S’ancor teco la trovo in miglior parte.

 

Verso 1. Guarda in che stato io sono ridotto alle bellezze, cioè per le bellezze, al mirar le bellezze stupende di questa donna. // 2. Che sviandomi dal diritto cammino. // 5. L’errante mia consorte. Cioè l’anima mia. // 6. S’ancor. Se un dì nello avvenire. Teco la trovo in miglior parte. Vuol dire: la ritroverò in paradiso.

 

Or ecco in parte le question mie nove:
S’alcun pregio in me vive o ’n tutto è corso,
O l’alma sciolta o ritenuta al bosco.

 

Verso 1. Le question. I dubbi. // 2. Vive. Resta. O ’n tutto. O del tutto. Corso. Dileguato. Venuto meno. // 3. Suppliscasi è o sarà.

SONETTO CLX.

Virtù somme congiunte a bellezza somma,

formano il ritratto di Laura.

In nobil sangue vita umile e queta,
Ed in alto intelletto un puro core;
Frutto senile in sul giovenil fiore,
E ’n aspetto pensoso anima lieta,

Raccolto à ’n questa donna il suo pianeta,
Anzi il re de le stelle; e ’l vero onore,
Le degne lode e ’l gran pregio e ’l valore
Ch’è da stancar ogni divin poeta.

Amor s’è in lei con onestate aggiunto;
Con beltà naturale abito adorno,
Ed un atto che parla con silenzio;

E non so che negli occhi che ’n un punto
Può far chiara la notte, oscuro il giorno,
E ’l mèl amaro, ed addolcir l’assenzio.

 

Verso 6. E ’l vero onore. E similmente vi ha raccolto il vero onore. // 7. Lode. Lodi. Vanti. // 8. Ch’è. Che è tale. // 9. Aggiunto. Congiunto. // 10. Abito. Portamento. Adorno. Aggraziato. Elegante. Leggiadro. // 11. Un atto. Un’attitudine. Che parla con silenzio. Che parla tacendo. – *Ovid.: «Sæpe tacens vultus verba loquentis habet.»* // 12. E non so che. E un non so che. In un punto. A un medesimo tempo.

SONETTO CLXI.

Soffre in pace di pianger sempre,

ma no che Laura siagli sempre crudele.

Tutto ’l dì piango; e poi la notte quando
Prendon riposo i miseri mortali,
Trovomi in pianto e raddoppiarsi i mali:
Così spendo ’l mio tempo lagrimando.

In tristo umor vo gli occhi consumando,
E ’l core in doglia; e son fra gli animali
L’ultimo sì, che gli amorosi strali
Mi tengono ad ogni or di pace in bando.

Lasso, che pur da l’uno a l’altro sole
E da l’un’ombra a l’altra ò già ’l più corso
Di questa morte che si chiama vita.

Più l’altrui fallo che ’l mio mal mi dole;
Chè pietà viva e ’l mio fido soccorso
Vedem’arder nel foco e non m’aita.

 

Verso 3. E raddoppiarsi i mali. E trovo raddoppiarsi i miei mali. // 6-7. E son fra gli animali l’ultimo. Cioè: sono di condizione inferiore a quella degli altri animali, in peggior condizione che qualunque altro animale, perchè gli altri hanno pace almeno la notte. Veggansi le due prime stanze della prima Sestina. // 8. Ad ogni or. In ogni tempo. Di pace in bando. Privo di pace. // 9-10. Da l’uno a l’altro sole E da l’un’ombra a l’altra. Da giorno a giorno e da notte a notte. Vuol dire, andando oltre a grado a grado negli anni. Ò già ’l più corso. Ho già trapassata la maggior parte. // 12. L’altrui fallo. Vuol dir la colpa di Laura. // 13. Chè. Perocchè. Pietà viva e il mio fido soccorso. Cioè, Laura che è la pietà in persona, e dove è riposta ogni speranza ch’io ho di soccorso. // 14. Vedem’arder. Mi vede ardere. Aita. Aiuta.

SONETTO CLXII.

Si pente d’essersi sdegnato verso di una bellezza

che gli rende dolce anche la morte.

Già desiai con sì giusta querela
E ’n sì fervide rime farmi udire,
Ch’un foco di pietà fessi sentire
Al duro cor ch’a mezza state gela;

E l’empia nube che ’l raffredda e vela,
Rompesse a l’aura del mio ardente dire;
O fessi quella altrui ’n odio venire
Ch’e’ belli, onde mi strugge, occhi mi cela.

Or non odio per lei, per me pietate
Cerco; chè quel non vo’, questo non posso;
Tal fu mia stella e tal mia cruda sorte

Ma canto la divina sua beltate;
Chè quand’i’ sia di questa carne scosso,
Sappia ’l mondo che dolce è la mia morte.

 

Verso 1. Già. Un tempo. // 3. Fessi. Facessi. // 4. Al duro cor. Al cuor di Laura. Gela. Neutro. // 6. Rompesse. Si rompesse. // 7-8. Ovvero facessi venire in odio agli altri colei che mi nasconde i begli occhi con cui mi strugge. // 9. Odio. Dipende da cerco, che sta nel verso seguente. Per me pietate. Nè pietà per me. // 10. Quel. Cioè far venire in odio ad altrui la mia donna. Questo. Cioè far sentire al cuor di Laura un fuoco di pietà. // 13. Chè. Acciocchè. Sicchè. Scosso. Spogliato. Nudo.

SONETTO CLXIII.

Laura è un Sole. Tutto è bello finch’essa vive,

e tutto si oscurerà alla sua morte.

Tra quantunque leggiadre donne e belle
Giunga costei, ch’al mondo non à pare,
Col suo bel viso sôl de l’altre fare
Quel che fa ’l dì de le minori stelle.

Amor par ch’a l’orecchie mi favelle,
Dicendo: quanto questa in terra appare,
Fia ’l viver bello; e poi ’l vedrem turbare,
Perir virtuti, e ’l mio regno con elle.

Come Natura al ciel la luna e ’l sole,
A l’aere i venti, a la terra erbe e fronde,
A l’uomo e l’intelletto e le parole,

Ed al mar ritogliesse i pesci e l’onde;
Tanto e più fien le cose oscure e sole,
Se morte gli occhi suoi chiude ed asconde.

 

Verso 1. Quantunque. Quanto si voglia. Quanto si sia. // 2. Pare. Pari. // 3. Sôl. Suole. // 5. Favelle. Favelli. // 6. Quanto. Tanto tempo quanto. Insino a tanto che. Questa. Questa donna, cioè Laura. // 7. Turbare. Turbarsi. Essere turbato. // 8. Elle. Esse. // 9. Come. Come se. Come avverrebbe se. // 13. Fien. Saranno. Sole. Solitarie. Deserte. // 14. Suoi. Di costei, cioè di Laura.

SONETTO CLXIV.

Levasi il Sole, e spariscono le stelle.

Levasi Laura, e sparisce il Sole.

 

Il cantar novo e ’l pianger degli augelli
In sul dì fanno risentir le valli,
E ’l mormorar de’ liquidi cristalli
Giù per lucidi freschi rivi e snelli.

Quella ch’à neve il volto, oro i capelli,
Nel cui amor non fur mai ’nganni nè falli,
Destami al suon degli amorosi balli,
Pettinando al suo vecchio i bianchi velli.

Così mi sveglio a salutar l’Aurora
E ’l Sol ch’è seco, e più l’altro ond’io fui
Ne’ prim’anni abbagliato e sono ancora.

I’ gli ò veduti alcun giorno ambedui
Levarsi insieme, e ’n un punto e ’n un’ora,
Quel far le stelle e questo sparir lui.

 

Verso 1. Novo. Cioè che si rinnova, che ricomincia, in quell’ora. // 2. In sul dì. In sul far del di. Risentir. Destarsi. // 3. Il mormorar. Nominativo, come il cantar e il pianger nel primo verso: e regge medesimamente il verbo fanno, che sta nel verso precedente. // 5. Vuol dir l’Aurora. // 7. Al suon degli amorosi balli. A quella, per così dir, festa che fa la natura in sul mattino. // 8. Al suo vecchio. A Titone. Velli. Crini. Capelli. // 10. L’altro. Quell’altro sole. Cioè Laura. Onde. Dal quale. // 11. Ne’ prim’anni. Ne’ miei primi anni. E sono ancora. Cioè abbagliato. // 12. Ambedui. Cioè questo e quell’altro sole. // 13. Levarsi insieme. Comparire a uno stesso tempo. E ’n un punto e ’n un’ora. E in un medesimo istante. // 14. Cioè, il sole fare sparire le stelle, e Laura fare sparire il sole.

SONETTO CLXV.

Interroga Amore, ond’abbia tolte quelle tante

grazie di cui Laura va adorna.

Onde tolse Amor l’oro e di qual vena,
Per far due trecce bionde? e ’n quali spine
Colse le rose, e ’n qual piaggia le brine
Tenere e fresche, e diè lor polso e lena?

Onde le perle in ch’ei frange ed affrena
Dolci parole oneste e pellegrine?
Onde tante bellezze e sì divine
Di quella fronte più che ’l ciel serena?

Da quali angeli mosse e di qual spera
Quel celeste cantar che mi disface
Sì che m’avanza omai da disfar poco?

Di qual Sol nacque l’alma luce altera
Di que’ begli occhi ond’io ò guerra e pace,
Che mi cuocono ’l cor in ghiaccio e ’n foco?

 

Verso 3. Le brine. Figurano il candore della carnagione di Laura. // 4. Polso e lena. Cioè vita. // 5. Le perle. Significano i denti di Laura. // 9. Mosse. Neutro. Venne. Di. Da. Spera. Sfera. // 11. In guisa che oramai poco resta di me da disfare. // 12. Di. Da. // 13. Onde. Da cui. // 14. Che. I quali occhi. – *Ovid.: «Me calor ætneo non minor igne coquit.»*

SONETTO CLXVI.

Guardando gli occhi di lei si sente morire,

ma non sa come staccarsene.

Qual mio destin, qual forza o qual inganno
Mi riconduce disarmato al campo
Là ’ve sempre son vinto; e s’io ne scampo,
Maraviglia n’avrò; s’i’ moro, il danno?

Danno non già, ma pro; sì dolci stanno
Nel mio cor le faville e ’l chiaro lampo
Che l’abbaglia e lo strugge, e ’n ch’io m’avvampo:
E son già, ardendo, nel vigesimo anno.

Sento i messi di morte ove apparire
Veggio i begli occhi e folgorar da lunge;
Poi s’avvèn ch’appressando a me li gire,

Amor con tal dolcezza m’unge e punge,
Ch’i’ nol so ripensar, non che ridire;
Chè nè ingegno nè lingua al vero aggiunge.

 

Verso 2. Al campo. Vuol dire alla presenza di Laura. // 3. Là ’ve. Dove. // 6. Lampo. Splendore. // 7. E ’n ch’io. E in cui io. // 8. E corre già l’anno ventesimo da che io ardo nel detto fuoco. // 9. Messi. Nunzi. Forieri. Ove. Quando. // 11. Avvèn. Avviene. Appressando. Appressandosi. Gire. Giri. Cioè volga. Sottintendasi Laura. // 12. M’unge e punge. Cioè m’empie di piacere e d’affanno. // 13. Ripensar, non che ridire. Non solo ridire, ma nè anche ripensare. // 14. Chè. Perocchè. Aggiunge. Arriva.

SONETTO CLXVII.

Non trovandola colle sue amiche, ne chiede

loro il perchè; ed esse il confortano.

– Liete e pensose, accompagnate e sole
Donne, che ragionando ite per via,
Ov’è la vita, ov’è la morte mia ?
Perchè non è con voi com’ella sòle?

– Liete siam per memoria di quel Sole
Dogliose per sua dolce compagnia
La qual ne toglie invidia e gelosia,
Che d’altrui ben, quasi suo mal, si dole.

– Chi pon freno agli amanti o dà lor legge?
– Nessuno a l’alma; al corpo ira ed asprezza:
Questo ora in lei, talor si prova in noi.

Ma spesso nella fronte il cor si legge:
Sì vedemmo oscurar l’alta bellezza,
E tutti rugiadosi gli occhi suoi.

 

Verso 1. Sole. Perchè prive della compagnia di Laura. // 3. Cioè: dove è Laura? // 4. Sòle. Suole. // 5. Rispondono le donne. Di quel Sole. Cioè di Laura. // 6-7. Per sua dolce compagnia La qual ne toglie invidia e gelosia. Perchè la sua dolce compagnia ci è tolta da invidia e da gelosia. // 9. Soggiunge il Poeta. E vuol dire: come può Laura, essendo amante, e niuna cosa potendo por freno a chi ama, essere impedita di trovarsi con voi? Lor. Ad essi. // 10. Rispondono le donne. Ira ed asprezza. Dei parenti, dei mariti, o simili. // 11. Questo avviene ora a lei, e talora a noi. Cioè avviene che ira ed asprezza ci pongono freno e dan legge. // 13. Oscurar. Oscurarsi. Cioè contristarsi e turbarsi per dispiacere di non potere essere seco noi. L’alta bellezza. Di Laura. // 14. Rugiadosi. Cioè lagrimosi.

SONETTO CLXVIII.

Nella notte sospira per quella che sola nel dì

può addolcirgli le pene.

 

Quando ’l Sol bagna in mar l’aurato carro,
E l’aer nostro e la mia mente imbruna,
Col cielo e con le stelle e con la luna
Un’angosciosa e dura notte innarro.

Poi, lasso, a tal che non m’ascolta narro
Tutte le mie fatiche ad una ad una,
E col mondo e con mia cieca fortuna
Con Amor, con Madonna e meco garro.

Il sonno è ’n bando, e del riposo è nulla;
Ma sospiri e lamenti infino a l’alba,
E lagrime che l’alma agli occhi invia.

Vien poi l’aurora, e l’aura fosca inalba;
Me no; ma ’l Sol che ’l cor m’arde e trastulla,
Quel può solo addolcir la doglia mia.

 

Verso 4. Innarro. Incaparro. Locuzione metaforica, che viene a dire: incomincio una trista notte. // 5. A tal. A una. Cioè a Laura. // 6. Fatiche. Miserie. Affanni. Patimenti. // 8. Garro. Garrisco. // 12. L’aura fosca. Accusativo. Inalba. Imbianca. Rischiara. // 13. Il Sol. Vuol dir Laura. // 14. Quel può solo. Quello solo può. Cioè il detto sole, che è Laura.

SONETTO CLXIX.

Se i tormenti che soffre lo condurranno a morte,

ei ne avrà ’l danno, ma Laura la colpa.

S’una fede amorosa, un cor non finto,
Un languir dolce, un desïar cortese;
S’oneste voglie in gentil foco accese;
S’un lungo error in cieco laberinto;

Se ne la fronte ogni penser dipinto,
Od in voci interrotte appena intese,
Or da paura, or da vergogna offese;
S’un pallor di vïola e d’amor tinto;

S’aver altrui più caro che sè stesso;
Se lagrimar e sospirar mai sempre,
Pascendosi di duol, d’ira e d’affanno;

S’arder da lunge ed agghiacciar da presso,
Son le cagion ch’amando i’ mi distempre;
Vostro, donna, il peccato; e mio fia ’l danno.

 

Verso 4. Un lungo error. Un lungo aggirarsi. // 5. Ne la fronte. Dipende da dipinto. Penser. Pensiero. // 6. Od in voci. O dipinto in voci. // 7. Offese. Turbate. Intraversate. Impacciate. // 8. Di viola e d’amor tinto. Tinto di viola e d’amore. – *Oraz.: «Tinctus viola pallor amantium.»* // 9. Altrui. Cioè la persona amata. // 13. Distempre. Distemperi. Cioè distrugga, disfaccia. – Sordello: «Mon es lo dans e vostres lo peccat.» [T.]

SONETTO CLXX.

Chiama ben felice chi guidò quella barca

e quel carro, su cui Laura sedeva cantando.

Dodici donne onestamente lasse,
Anzi dodici stelle, e ’n mezzo un Sole
Vidi in una barchetta allegre e sole,
Qual non so s’altra mai onde solcasse.

Simil non credo che Giason portasse
Al vello ond’oggi ogni uom vestir si vòle,
Nè ’l pastor di che ancor Troia si dòle;
De’ qua’ duo tal romor al mondo fasse.

Poi le vidi in un carro trïonfale,
E Laura mia con suoi santi atti schifi
Sedersi in parte e cantar dolcemente:

Non cose umane o visïon mortale.
Felice Automedon, felice Tifi,
Che conduceste sì leggiadra gente!

 

Verso 1. Onestamente lasse. In atto e positura compostamente o leggiadramente abbandonata e negletta. // 2. E ’n mezzo. E in mezzo a loro. Un Sole. Vuol dir Laura. // 4. Qual. Cioè simile alla qual barchetta. Altra. Altra barca. Onde. Nome accusativo. // 5. Non credo che fosse simile a questa barchetta quella nave che portò Giasone. // 6. Al vello. Cioè al vello d’oro. Onde. Del qual vello. Cioè di drappi d’oro, di panni suntuosissimi. // 7. Di che. Di cui. // 8. De’ qua’ duo. Dei quali due. Cioè di Giasone e di Paride. Fasse. Fassi. Si fa. // 10. Schifi. Verecondi e ritrosetti. // 11. In parte. Da un lato. // 12. Cose sovrumane, e vista più che mortale. // 13. Cioè: felice te o cocchiero, e te o piloto. Automedonte fu nome del cocchiero di Achille, e Tifi del piloto degli Argonauti.

SONETTO CLXXI.

Tanto egli è misero nell’esser lontano da lei,

quanto è felice il luogo che la possede.

Passer mai solitario in alcun tetto
Non fu quant’io, nè fera in alcun bosco;
Ch’i’ non veggio ’l bel viso, e non conosco
Altro Sol, nè questi occhi hanno altro obbietto.

Lagrimar sempre è ’l mio sommo diletto;
Il rider, doglia; il cibo, assenzio e tosco;
La notte, affanno; il ciel seren m’è fosco,
E duro campo di battaglia il letto.

Il sonno è veramente, qual uom dice,
Parente de la morte, e ’l cor sottragge
A quel dolce pensier che ’n vita il tène.

Solo al mondo paese almo felice,
Verdi rive, fiorite ombrose piagge,
Voi possedete ed io piango ’l mio bene.

 

Verso 1. Solitario. Dipende da non fu. // 2. Nè fera. Nè fiera. Suppliscasi: fu mai tanto solitaria quanto sono io. // 3. Chè. Perchè. // 6. Doglia. Mi è doglia. // 9. È veramente. È per me veramente. Qual uom dice. Quello che si dice. Come si dice. Quale egli è detto. // 10. Parente de la morte. Virg.: «Et consanguineus lethi sopor.»* – Il cor. Il mio cuore. // 11. Tène. Tiene. // 12-13. Parla al paese ove è Laura. // 14. Voi possedete il mio bene, ed io lo piango.

SONETTO CLXXII.

Invidia la sorte dell’aura che spira,

e del fiume che scorre intorno a lei.

Aura che quelle chiome bionde e crespe
Circondi e movi, e se’ mossa da loro
Soavemente, e spargi quel dolce oro,
E poi ’l raccogli e ’n bei nodi ’l rincrespe;

Tu stai negli occhi onde amorose vespe
Mi pungon sì, che infin qua il sento e ploro;
E vacillando cerco il mio tesoro;
Com’animal che spesso adombre e ’ncespe:

Ch’or mel par ritrovar, ed or m’accorgo
Ch’i’ ne son lunge; or mi sollevo, or caggio:
Ch’or quel ch’i’ bramo, or quel ch’è vero scorgo.

Aer felice, col bel vivo raggio
Rimanti. E tu, corrente e chiaro gorgo,
Chè non poss’io cangiar teco vïaggio?

 

Componeva il Poeta questo Sonetto in tempo che egli si allontanava da Laura.

Verso 2. Se’. Sei. // 4. Rincrespe. Rincrespi. // 5. Amorose vespe. Modo di dire metaforico. // 6. Infin qua. Infin qua dove io sono, lungi da quegli occhi. Ploro. Piango. // 8. Adombre. Adombri. Pigli ombra. Incespe. Incespi. Inciampi. // 9. Mel par ritrovar. Parmi ritrovarlo. Mi pare di ritrovarlo. // 10. Caggio. Cado. // 12-13. Col bel vivo raggio Rimanti. Rimanti presso a quegli occhi. E tu, corrente e chiaro gorgo. E quanto si è a te, ruscello chiaro e corrente, che vai verso colà dove è Laura. // 14. Chè. Perchè.

SONETTO CLXIII.

Essa, qual lauro, pose nel di lui cuor le radici;

vi cresce, e l’ha con sè da per tutto.

 

Amor con la man destra il lato manco
M’aperse, e piantovvi entro in mezzo ’l core
Un lauro verde sì, che di colore
Ogni smeraldo avria ben vinto e stanco.

Vomer di penna, con sospir del fianco,
E ’l piover giù dagli occhi un dolce umore
L’adornâr sì, ch’al ciel n’andò l’odore,
Qual non so già se d’altre frondi unquanco.

Fama, onore e virtute e leggiadria,
Casta bellezza in abito celeste
Son le radici de la nobil pianta.

Tal la mi trovo al petto ove ch’i’ sia;
Felice incarco; e con preghiere oneste
L’adoro e ’nchino come cosa santa.

 

Verso 2. In mezzo ’l core. In mezzo al cuore. – *Notevole ci pare la varia lezione del citato Cod. Bolognese: piantommi entro. Onesto Bolog.: «Amor che ’n cor l’amorosa radice, Mi piantò il dì primier che mai la vidi.»* // 3. Verde sì. Sì fattamente verde. Di sì fatta verdezza. // 5. Vomer di penna. Il mio coltivar questo lauro colla penna, cioè il mio scriver di Laura. Con sospir del fianco. E i sospiri del mio fianco. // 8. Qual. Cioè simile al quale odore. Non so già se d’altre frondi. Suppliscasi: andasse al cielo. Unquanco. Mai. // 12. La mi trovo al petto. Me la trovo al petto. La trovo nel mio petto. Ove che. Ovunque.

SONETTO CLXXIV.

Benchè in mezzo agli affanni,

ei pensa d’essere il più felice di tutti.

Cantai; or piango, e non men di dolcezza
Del pianger prendo, che del canto presi,
Ch’a la cagion, non a l’effetto, intesi
Sono i miei sensi vaghi pur d’altezza.

Indi e mansuetudine e durezza,
Ed atti feri ed umili e cortesi
Porto egualmente; nè mi gravan pesi;
Nè l’arme mie punta di sdegni spezza.

Tengan dunque vêr me l’usato stile
Amor, Madonna, il mondo e mia fortuna;
Ch’i’ non penso esser mai se non felice.

Arda o mora o languisca; un più gentile
Stato del mio non è sotto la luna:
Sì dolce è del mio amaro la radice.

 

Verso 1. Dolcezza. Piacere. // 2. Che. Dipende da non men. // 3-4. Chè. Perocchè. A la cagion, non a l’effetto. Alla cagione, che è Laura; non all’effetto, o riso o pianto che egli sia. Intesi son. Attendono. Riguardano. Vaghi. Desiderosi. // 5. Indi. Però. // 6. Feri. Fieri. // 7. Porto egualmente. Cioè ricevo con egual disposizione d’animo. // 9. Vêr. Verso. L’usato stile. Il solito loro andamento. // 11. Penso. Credo. Aspetto. // 12-13. Arda o mora o languisca. Voci di persona prima. Un più gentile Stato del mio. Uno stato più gentile del mio.

SONETTO CLXXV.

Tristo, perchè lontano da lei,

al rivederla si rasserena e ritorna in vita.

I’ piansi: or canto; chè ’l celeste lume
Quel vivo Sole agli occhi miei non cela,
Nel qual onesto Amor chiaro rivela
Sua dolce forza e suo santo costume;

Onde e’ suol trar di lagrime tal fiume,
Per accorciar del mio viver la tela,
Che non pur ponte o guado o remi o vela,
Ma scampar non potiemmi ali nè piume.

Sì profondo era e di sì larga vena
Il pianger mio, e sì lungi la riva,
Ch’i’ v’aggiungeva col pensiero appena.

Non lauro o palma, ma tranquilla oliva
Pietà mi manda, e ’l tempo rasserena,
E ’l pianto asciuga, e vuol ancor ch’i viva.

 

Verso 1. Chè. Perocchè. Il celeste lume. Il suo celeste lume. Accusativo. // 2. Quel vivo Sole. Laura. // 3. Nel qual. Nel qual sole. Chiaro. Avverbio. Rivela. Manifesta. Dà a vedere. // 5. Onde. Dai quali occhi miei, detti qui di sopra nel secondo verso. // 7. Non pur. Non solo. // Potiemmi. Poteanmi. Mi poteano. // 11. Aggiungeva. Giungeva. // 12. Non lauro o palma. Segni di vittoria. Accusativi. Tranquilla oliva. Segno di pace o tregua. Accusativo. // 13. Pietà. Nata in cuor di Laura. Il tempo. Accusativo. // 14. Il pianto. Il mio pianto. Accusativo.

SONETTO CLXXVI.

Trema che il male sopravvenuto a Laura

negli occhi, lo privi della lor vista.

I’ mi vivea di mia sorte contento,
Senza lagrime e senza invidia alcuna;
Che s’altro amante à più destra fortuna,
Mille piacer non vagliono un tormento.

Or que’ begli occhi, ond’io mai non mi pento
De le mie pene, e men non ne voglio una,
Tal nebbia copre, sì gravosa e bruna,
Che ’l Sol de la mia vita à quasi spento.

O natura, pietosa e fera madre,
Onde tal possa e sì contrarie voglie
Di far cose e disfar tanto leggiadre?

D’un vivo fonte ogni poter s’accoglie.
Ma tu come ’l consenti, o sommo Padre,
Che del tuo caro dono altri ne spoglie?

 

Verso 2. Senza invidia alcuna. Senza portare invidia ad alcuno. // 3. S’altro amante. Se qualche altro amante. Più destra. Più benigna. Migliore. // 5-6. Onde. Per cagione dei quali. Non mi pento De le mie pene. Non ho a grave le mie pene. E men non ne voglio una. E non ne vorrei una di meno. // 7. Tal nebbia. Accenna un’infermità di Laura. // 8. Il Sol. Accusativo. // 9. Fera. Fiera. // 10. Onde. Onde ti vengono. Onde hai tu. // 11. Di far cose e disfar. Di fare e disfar cose. // 12. Risponde la Natura. Da un vivo fonte, che è Dio, deriva e si raccoglie in me ogni potere ch’io ho. // 13. Consenti. Permetti. // 14. Altri. Cioè una malattia. Ne spoglie. Ci spogli.

SONETTO CLXXVII.

Gode di soffrire negli occhi suoi quel male
medesimo da cui Laura guarì.

Qual ventura mi fu quando da l’uno
De’ duo i più begli occhi che mai furo,
Mirandol di dolor turbato e scuro,
Mosse vertù che fe ’l mio infermo e bruno!

Send’io tornato a solvere il digiuno
Di veder lei che sola al mondo curo,
Fummi ’l Ciel ed Amor men che mai duro,
Se tutte altre mie grazie insieme aduno:

Chè dal destro occhio, anzi dal destro sole
De la mia donna, al mio destro occhio venne
Il mal, che mi diletta e non mi dole:

E pur come intelletto avesse e penne,
Passò, quasi una stella che ’n ciel vole;
E Natura e Pietade il corso tenne.

 

Essendo Laura inferma dell’occhio destro, il Poeta, andato a vederla, infermò esso parimente dell’occhio ritto, e Laura guarì.

Verso 2. De’ duo occhi più belli che mai furono al mondo. // 4. Mirandol. Mirandolo io. // 4. Mosse. Neutro. Vertù. Una virtù. Un effluvio. *Ovid.: «Dum spectant læsos oculi, læduntur et ipsi.»* // 5. Send’io. Essendo io. Solvere. Sciogliere. Rompere. // 7-8. Il Cielo ed Amore mi furono più cortesi che mi fossero stati mai, se anche si raccolgano insieme tutte le altre grazie ch’io ne ho ricevute fin qui, e così raccolte si paragonino a questa sola. – Mie grazie è anfibologico, e pare che dica: le grazie fatte da me. [A.] // 11. Tibull.: «Et faveo morbo, cum juvat ipse dolor.»* // 12. Pur come. Appunto come se. // 13. Vole. Voli. // 14. Il corso tenne. Resse, diresse, indirizzò all’occhio mio destro, il suo corso, cioè il corso del detto male.

SONETTO CLXXVIII.

Non trovando conforto in sè stesso

e nella solitudine, lo cerca tra gli uomini.

O cameretta, che già fosti un porto
A le gravi tempeste mie dïurne,
Fonte se’ or di lagrime notturne,
Che ’l dì celate per vergogna porto.

O letticciuol, che requie eri e conforto
In tanti affanni, di che dogliose urne
Ti bagna Amor con quelle mani eburne
Solo vêr me crudeli a sì gran torto!

Nè pur il mio secreto e ’l mio riposo,
Fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,
Che seguendol talor, levomi a volo.

Il vulgo, a me nemico ed odïoso,
(Chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero;
Tal paura ò di ritrovarmi solo.

 

Verso 1. Già. Già un tempo. // 3. Se’. Sei. // 6. Di che dogliose urne. Cioè di che gran copia di lagrime. // 7. Con quelle mani eburne. Cioè colle mani di Laura; quasi che Laura versasse colle sue mani due urne piene di lagrime del Poeta. Maniera di dir figurato. // 8. Vêr. Verso. // 9. Nè pur. Nè solo. Il mio secreto. Cioè il trovarmi solo. // 10. Pensero. Pensiero. // 11. Levomi a volo. Cioè: poco manca che io non mi parto da questa vita, per poco io non muoio. // 13. Chi ’l pensò mai? Chi l’avrebbe creduto? Chero. Cerco.

SONETTO CLXXIX.

Rimirandola spesso, sa di annoiarla; però se ne

scusa incolpandone Amore.

Lasso, Amor mi trasporta ov’io non voglio;
E ben m’accorgo che ’l dever si varca,
Onde a chi nel mio cor siede monarca
Son importuno assai più ch’i’ non soglio.

Nè mai saggio nocchier guardò da scoglio
Nave di merci prezïose carca,
Quant’io sempre la debile mia barca
Da le percosse del suo duro orgoglio.

Ma lagrimosa pioggia e fieri venti
D’infiniti sospiri or t’ànno spinta
(Ch’è nel mio mar orribil notte e verno)

Ov’altrui noie, a sè doglie e tormenti
Porta, e non altro, già da l’onde vinta,
Disarmata di vele e di governo.

 

«Si scusa del riguardar troppo spesso Laura.» Così trovasi in molte edizioni. Parmi che alluda a qualche parola o preghiera o istanza, per la quale è importuno, e si confessa d’avere perduto il vanto cercato sempre di non esporsi a rifiuti, alle percosse del suo duro orgoglio. Il sonetto seguente par che avvalori questa mia supposizione. [A.]

Verso 2. Che ’l dever si varca. Che il dovere si trapassa, si trasgredisce. Che io trapasso i termini del dovere. // 3. A chi. A quella che. Cioè a Laura. // 5. Guardò. Suppliscasi tanto. // 7. Quant’io sempre. Suppliscasi guardo. // 8. Suo. Cioè di Laura. // 10. L’ànno spinta. Cioè la debile mia barca. // 11. Ch’è. Perocchè è. Nel mio mar. Cioè nella mia vita. // 12. Ove. In luogo, in parte, ove. Dipende dalle parole del decimo versi or l’ànno spinta. Altrui. Dativo. Cioè a Laura. // 13. Porta. Essa mia barca. // 14. Governo. Timone.

SONETTO CLXXX.

Se amore è cagione di sue colpe, lo prega

far ch’ella ’l senta, e le perdoni a sè stessa.

Amor, io fallo, e veggio il mio fallire;
Ma fo sì com’uom ch’arde e ’l foco à ’n seno,
Che ’l duol pur cresce, e la ragion vien meno
Ed è già quasi vinta dal martire.

Solea frenare il mio caldo desire,
Per non turbare il bel viso sereno:
Non posso più; di man m’ài tolto il freno;
E l’alma, disperando, à preso ardire.

Però, s’oltra suo stile ella s’avventa,
Tu ’l fai, che sì l’accendi e sì la sproni,
Ch’ogni aspra via per sua salute tenta;

E più ’l fanno i celesti e rari doni;
Ch’à in sè Madonna. Or fa’ almen ch’ella il senta,
E le mie colpe a sè stessa perdoni.

 

Verso 1. Fallo. Pecco. Commetto errore. Opero contro il dovere. // 2. Sì come. Siccome. Come. // 3. Pur. Sempre. Tuttavia. Di continuo. // 5. Solea. Persona prima. // 6. Il bel viso sereno. Di Laura. // 9. Oltra suo stile. Fuori del suo costume. Contro il suo consueto. // 10. Tu ’l fai. Tu ne sei cagione. // 11. Ogni aspra via. Accusativo. // 12. E più ’l fanno. E anche più di te ne sono cagione. // 13. Fa’ almen. Imperativo. Fa’ tu, Amore. Senta. Conosca. – Senta, conosca che il mio troppo ardire non è colpa mia, ma de’ suoi troppi pregi. [A.] // 14. E le mie colpe ec. Auson. Gall.: «Inque meis culpis da tibi tu veniam.»*

SESTINA VII.

Dispera di poter liberarsi da que’ tanti affanni

in cui vedesi avvolto.

Non à tanti animali il mar fra l’onde,
Nè lassù sopra ’l cerchio de la luna
Vide mai tante stelle alcuna notte,
Nè tanti augelli albergan per li boschi,
Nè tant’erbe ebbe mai campo nè piaggia,
Quant’à il mio cor pensier ciascuna sera.

 

Verso 4. Nè tanti augelli ec. Virg.: «Quam multa in sylvis avium se millia condunt.»* // 6. Quant’à ’l mio cor pensier. Quanti pensieri ha il mio cuore.

 

Di dì in dì spero omai l’ultima sera,
Che scevri in me dal vivo terren l’onde,
E mi lasci dormir in qualche piaggia:
Chè tanti affanni uom mai sotto la luna
Non sofferse, quant’io: sannolsi i boschi,
Che sol vo ricercando giorno e notte.

 

Verso 2. Che divida, che separi, dal mio corpo il pianto. Cioè, che ponga fine al mio pianto. // 3. Dormir. Dormire il sonno dei morti. Piaggia. È detto per luogo in genere. // 4. Chè. Poichè. // 5. Quant’io. Quanto io. Sannolsi. Sel sanno. Il sanno. // 6. Che. I quali. Sol. Avverbio.

 

I’ non ebbi già mai tranquilla notte,
Ma sospirando andai mattino e sera,
Poi ch’Amor femmi un cittadin de’ boschi.
Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde,
E la sua luce avrà ’l Sol da la luna,
E i fior d’april morranno in ogni piaggia.

 

Verso 3. Poi che. Dappoichè. Da che. Da quando. Amor femmi. Amor mi fece. Cittadin de’ boschi. Cioè abitatore de’ boschi. // 4. Pòsi. Abbia pace. // 5. La sua luce. Accusativo. // 6. D’april. In aprile.

 

Consumando mi vo di piaggia in piaggia
Il dì pensoso; poi piango la notte;
Nè stato ò mai se non quanto la luna.
Ratto come imbrunir veggio la sera,
Sospir del petto, e degli occhi escon onde,
Da bagnar l’erba e da crollare i boschi.

 

Verso 3. Stato. Stato fermo, durevole, quieto. Quanto la luna. Che continuamente si muta. // 4. Ratto come. Tosto che. Immantinente che. // 6. Da. Tali da.

 

Le città son nemiche, amici i boschi
A’ miei pensier, che per quest’alta piaggia
Sfogando vo col mormorar de l’onde
Per lo dolce silenzio de la notte:
Tal ch’io aspetto tutto ’l dì la sera,
Che ’l Sol si parta e dia luogo a la luna.

 

Verso 2. Che. I quali pensieri. Accusativo. // 3. Col mormorar. Cioè, al mormorare, accompagnando il mormorare. // 4. Per lo. Cioè nel. – *Virg.: «Tacitæ per amica silentia lunæ.»*

 

Deh or foss’io col vago de la Luna
Addormentato in qualche verdi boschi;
E questa ch’anzi vespro a me fa sera,
Con essa e con Amor in quella piaggia
Sola venisse a starsi ivi una notte:
E ’l dì si stesse e ’l Sol sempre ne l’onde.

 

Verso 1. Foss’io. Maniera significativa di desiderio. Col vago de la Luna. Coll’amante della Luna. Vuol dire, come Endimione. // 2. Addormentato. Dipende da foss’io. // 3. Questa. Cioè Laura. Ch’anzi vespro a me fa sera. Che mi mena a sera, cioè a morte, prima del tempo. // 4. Con essa. Colla luna. Cioè al lume della luna. In quella piaggia. Nella quale io fossi addormentato. // 5. Sola. Si riferisce al pronome questa del terzo verso, non al nome piaggia. // 6. E il giorno e il sole si stessero sempre nell’onde. Cioè, quella tal notte durasse sempre.

 

Sovra dure onde al lume de la luna,
Canzon nata di notte in mezzo i boschi,
Ricca piaggia vedrai diman da sera.

 

Verso 1. Dipende dalla voce nata del verso seguente. Sovra dure onde. Spiegano: in riva del fiume Druenza o Durenza. // 3. Ricca piaggia. Cioè il luogo ove è Laura. Diman da sera. Dimani a sera. Trovavasi il Poeta quando componeva questa Sestina circa a una giornata dal luogo dove era Laura.

SONETTO CLXXXI.

È tocco d’invidia nel veder chi per farle onore

baciolla in fronte e negli occhi.

Real natura, angelico intelletto,
Chiara alma, pronta vista, occhio cervero,
Provvidenza veloce, alto pensero,
E veramente degno di quel petto:

Sendo di donne un bel numero eletto
Per adornar il dì festo ed altero;
Subito scorse il buon giudicio intero
Tra tanti e sì bei volti il più perfetto.

L’altre maggior di tempo o di fortuna
Trarsi in disparte comandò con mano
E caramente accolse a sè quell’una,

Gli occhi e la fronte con sembiante umano
Baciolle sì, che rallegrò ciascuna;
Me empiè d’invidia l’atto dolce e strano.

 

Sopra l’atto d’un principe che tra le gentili donne che si trovavano a una festa fece segno di maggiore onore a Laura.

Versi 1-4. Lodi del detto principe. Occhio cervero. Occhio di lupo cerviere, di lince. Cioè, occhio di vista acutissima. Provvidenza. Provvedimento. Accorgimento. Pensero. Pensiero. // 5. Sendo. Essendo. Essendo stato. Eletto. Dipendo da Sendo. // 6. Festo. Festivo. Destinato a festeggiar la presenza di esso principe. // 7. Scòrse. Vide. Conobbe. Il buon giudicio. Di quel principe. Intero. Perfetto. // 9. Maggior. Maggiori. – Maggior di tempo, deve voler dire più vecchio; d’onde il buon principe dovette essere di coloro, che baciano più volentieri le giovani. [A.] // 13. Rallegrò ciascuna. Forse tenendosi tutte onorate in Laura; o per indicare che a lei tutte volentieri cedevano, riconoscendola migliore di tutte. [A.]

SESTINA VIII.

È sì sorda e crudele, che non si commuove

alle lagrime, e non cura rime nè versi.

Là vêr l’aurora, che sì dolce l’aura
Al tempo novo suol mover i fiori
E gli augelletti incominciar lor versi;
Sì dolcemente i pensier dentro a l’alma
Mover mi sento a chi gli à tutti in forza,
Che ritornar convienmi a le mie note.

 

Verso 1. Là vêr l’aurora. Verso l’aurora. In sull’aurora. Che. Quando. // 2. Al tempo novo. A primavera. // 5. A chi. Da quella che. Vuol dir da Laura. In forza. In suo potere. // 6. Note. Voci. Querele. Canti lamentevoli. Suppliscasi consuete.

 

Temprar potess’io in sì soavi note
I miei sospiri, ch’addolcissen Laura,
Facendo a lei ragion, ch’a me fa forza!
Ma pria fia ’l verno la stagion de’ fiori,
Ch’amor fiorisca in quella nobil alma,
Che non curò già mai rime nè versi.

 

Verso 1. Potess’io. Forma desiderativa. // 2. Addolcissen. Addolcissero. // 3. Facendo a lei ragion, che. Cioè, movendo per ragione, per via di ragione, colei, che. // 5. Che. Dipende da pria.

 

Quante lagrime, lasso, e quanti versi
Ò già sparti al mio tempo! e ’n quante note
Ò riprovato umilïar quell’alma!
Ella si sta pur com’aspr’alpe a l’aura
Dolce, la qual ben move fronde e fiori,
Ma nulla può se ’ncontro à maggior forza.

 

Verso 2. Sparti. Sparsi. Al mio tempo. In mia vita. Ovvero, nella mia gioventù. // 3. Ò riprovato. Ho provato più volte. // 4. Alpe. Monte. Rupe. Scoglio.

 

Uomini e Dei solea vincer per forza
Amor, come si legge in prose e ’n versi
Ed io ’l provai ’n sul primo aprir de’ fiori.
Ora nè ’l mio Signor, nè le sue note,
Nè ’l pianger mio nè i preghi pôn far Laura
Trarre o di vita o di martìr quest’alma.

 

Verso 3. In sul primo aprir de’ fiori. Cioè nel mese di aprile, quando m’innamorai di Laura. // 4. Il mio Signor. Cioè Amore. Le sue note. Cioè i versi amorosi. // 5-6. I preghi. I miei preghi. Pôn far Laura Trarre o di vita o di martìr ec. Possono fare che Laura tragga quest’alma.

 

A l’ultimo bisogno, o misera alma,
Accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza,
Mentre fra noi di vita alberga l’aura.
Nulla al mondo è che non possano i versi;
E gli aspidi incantar sanno in lor note,
Non che ’l gielo adornar di novi fiori.

 

Verso 1. A l’ultimo bisogno. In questo bisogno estremo. // 2. Accampa. Metti in campo, cioè in opera. // 3. Mentre. Finchè. Fra noi. Con noi, cioè te e me. // 5. Gli aspidi. Accusativo. Sanno. I versi. In lor note. Cioè colle loro note.

 

Ridono or per le piagge erbette e fiori:
Esser non può che quell’angelic’alma
Non senta ’l suon de l’amorose note.
Se nostra ria fortuna è di più forza,
Lagrimando, e cantando i nostri versi,
E col bue zoppo andrem cacciando l’aura.

 

Verso 1. Vuol dir che era il tempo della primavera. // 4. È di più forza. Può più che le amorose note. // 5. Dipende dalla voce andrem del verso seguente. // 6. Cioè: andremo procacciando una cosa impossibile. Veggasi la seconda quartina del Sonetto centesimo cinquantesimottavo. Dicendo l’aura, allude al nome di Laura.

 

In rete accolgo l’aura e ’n ghiaccio i fiori,
E ’n versi tento sorda e rigid’alma,
Che nè forza d’Amor prezza nè note.

 

Verso 3. Che non prezza, cioè non cura, nè forza nè note d’Amore.

SONETTO CLXXXII.

La invita a trovare in sè stessa il perchè egli

non possa mai starsi senza di lei.

I’ ò pregato Amor, e nel riprego,
Che mi scusi appo voi, dolce mia pena,
Amaro mio diletto, se con piena
Fede dal dritto mio sentier mi piego.

I’ nol posso negar, donna, e nol nego,
Che la ragion, ch’ogni buon’alma affrena,
Non sia dal voler vinta; ond’ei mi mena
Talor in parte ov’io per forza il sego.

Voi, con quel cor che di sì chiaro ingegno,
Di sì alta virtute il cielo alluma,
Quanto mai piovve da benigna stella;

Devete dir pietosa e senza sdegno:
Che può questi altro? il mio volto ’l consuma:
Ei perchè ingordo, ed io perchè sì bella.

 

Verso 1. Nel. Ne lo. // 2. Appo. Appresso. // 3-4. Con piena fede. Conservando nondimeno intera la mia fedeltà e lealtà verso di voi. // 7. Non sia dal voler vinta. Non sia vinta in me dall’appetito. Ei. Cioè il volere. //. 8. In parte ov’io per forza il sego. A far cose che io non vorrei. Cioè, ad usar con voi più ardimento che non mi si converrebbe. Sego sta per seguo. // 9. Che. Accusativo. // 10. Alluma. Illumina. // 11. Quanto. Cioè, quanto ingegno e quanta virtù. // 12. Devete. Dovete. // 13. Che può questi altro? Che altro può far questi? Come potrebbe questi fare altrimenti? // 14. Ei. Suppliscasi: dal dritto suo sentier si piega. Ed io. Suppliscasi: il consumo. – *Ovid.: «Aut esses formosa minus, peterere modeste: Audaces facie cogimur esse tua.» *

SONETTO CLXXXIII.

Il pianger ch’ei fa per Laura malata, non ammorza

ma cresce il suo incendio.

L’alto Signor dinanzi a cui non vale
Nasconder nè fuggir nè far difesa,
Di bel piacer m’avea la mente accesa
Con un ardente ed amoroso strale:

E ben che ’l primo colpo aspro e mortale
Fosse da sè; per avanzar sua impresa,
Una saetta di pietate à presa;
E quinci e quindi ’l cor punge ed assale.

L’una piaga arde, e versa foco e fiamma;
Lagrime l’altra, che ’l dolor distilla
Per gli occhi miei del vostro stato rio.

Nè per duo fonti sol una favilla
Rallenta de l’incendio che m’infiamma;
Anzi per la pietà cresce ’l desio.

 

Verso 1. L’alto Signor. Cioè Amore. // 2. Nasconder. Nascondersi. // 3. Piacer. Desiderio, come si vede dichiarato nell’ultimo verso. // 5. Il primo colpo. Cioè questo colpo di desiderio. // 6. Da sè. Per sè medesimo senza più. Per avanzar sua impresa. Per far maggiore effetto. // 7. Di pietate. Che mi è cagionata dal veder Laura inferma. À presa. Cioè l’alto Signore detto di sopra. // 8. Quinci e quindi. Cioè colla saetta del desiderio e con quella della pietà. Il cor. Il mio cuore. // 10. Lagrime l’altra. L’altra piaga versa lagrime. Che. Accusativo. Le quali lagrime. // 11. Del vostro stato rio. Dipende dal nome precedente, il dolor. // 12. Nè per duo fonti. Nè per questo mio piangere. Nè con tutto il mio pianto. Sol una. Pur una. Una sola. // 13. Rallenta. Verbo neutro. Si mitiga. De l’incendio. Dipende da favilla.

 

 

SONETTO CLXXXIV.

Dice al suo cuore di ritornarsene a Laura,

e non pensa ch’è già seco lei.

Mira quel colle, o stanco mio cor vago:
Ivi lasciammo ier lei ch’alcun tempo ebbe
Qualche cura di noi e le ne ’ncrebbe,
Or vorria trar degli occhi nostri un lago.

Tornato in là, ch’io d’esser sol m’appago;
Tenta se forse ancor tempo sarebbe
Da scemar nostro duol che ’nfin qui crebbe,
O del mio mal partecipe e presago.

Or tu ch’ài posto te stesso in obblio,
E parli al cor pur com’e’ fosse or teco,
Misero, e pien di pensier vani e sciocchi!

Ch’al dipartir del tuo sommo desio,
Tu te n’andasti, e’ si rimase seco
E si nascose dentro a’ suoi begli occhi.

 

Verso 2. Alcun tempo. Già un tempo. // 3. Le ne ’ncrebbe. Le increbbe di noi. Ci ebbe compassione. // 5. D’esser sol m’appago. Mi compiaccio, o pur mi contento, di star solo. // 6. Se forse ancor tempo sarebbe. Se fosse ancor tempo. // 7. Da scemar nostro duol. Rammorbidando un poco l’animo di Laura. Che ’nfin qui crebbe. Che fino a ora non ha fatto altro che crescere. // 8. O. O cuore. // 9. Or tu. Si volge il Poeta a sè stesso, riprendendosi. // 10. Pur com’e’. Nè più nè meno come se egli. // 12. Al dipartir. Al partirsi. Ovvero, al partirti. Del tuo sommo desio. Di Laura. Ovvero, da Laura. // 13. E’. Il tuo cuore. Seco. Cioè con Laura.

SONETTO CLXXXV.

Misero! ch’essendo per lei senza cuore,

ella si ride se questo parli in suo pro.

Fresco, ombroso, fiorito e verde colle
Ov’or pensando ed or cantando siede,
E fa qui de’ celesti spirti fede
Quella ch’a tutto ’l mondo fama tolle;

Il mio cor, che per lei lasciar mi volle,
E fe gran senno, e più se mai non riede,
Va or contando ove da quel bel piede
Segnata è l’erba e da questi occhi molle.

Seco si stringe, e dice a ciascun passo:
Deh fosse or qui quel miser pur un poco,
Ch’è già di pianger e di viver lasso.

Ella sel ride; e non è pari il gioco:
Tu paradiso, i’ senza core un sasso,
O sacro, avventuroso e dolce loco.

 

Verso 1. E rende testimonianza quaggiù in terra degli spiriti del cielo, cioè mostra in sè un’immagine di quegli spiriti. // 4. Cioè quella che vince, oscura, la fama di chicchessia. Tolle sta per toglie. // 6. E fece molto saviamente, e anco più saviamente farà se non tornerà meco mai più. 17. Contando. Cioè notando. Ove. I luoghi ove. // 8. E da questi occhi molle. E molle del pianto di questi occhi. // 9. Seco si stringe. Si stringe, cioè si fa presso, a colei. // 10. Quel miser. Cioè il Poeta. // 12. Sel ride. Si ride di ciò. Il gioco. Cioè il caso, la condizione tua e la mia. // 13-14. Tu, o sacro, dolce e fortunato colle, sei un paradiso, per la presenza di Laura; io sono un sasso senza cuore.

SONETTO CLXXXVI.

Ad un amico innamorato suo pari, non sa

dar consiglio, che di alzar l’anima a Dio.

Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio,
Al qual veggio sì larga e piana via,
Ch’i’ son intrato in simil frenesia,
E con duro pensier teco vaneggio.

Nè so se guerra o pace a Dio mi cheggio
Chè ’l danno è grave e la vergogna è ria.
Ma perchè più languir? di noi pur fia
Quel ch’ordinato è già nel sommo seggio.

Ben ch’i’ non sia di quel grande onor degno
Che tu mi fai; chè te ne ’nganna amore,
Che spesso occhio ben san fa veder torto;

Pur d’alzar l’alma a quel celeste regno
È ’l mio consiglio, e di spronare il core;
Perchè ’l cammino è lungo e ’l tempo è corto.

 

Risposta a un Sonetto di Giovanni De’ Dondi, che, dicendo di esser quasi fuori di senno per una sua passione amorosa, dimandava consiglio al Poeta.

Verso 1. Il mal. Cioè il mal presente. Mi preme. Mi grava. Mi opprime. Il peggio. Che io temo. // 2. Al qual ec. Prevede un gran peggiorare delle cose sue. [A.] // 3. Intrato. Entrato. In simil frenesia. In frenesia simile alla vostra. // 5. Mi cheggio. Io chiegga. Debba io chiedere. // 6. Il danno. Del continuar nella guerra, cioè nella mia passione. La vergogna. Dell’abbandonar la guerra e la impresa. // 7. Pur. A ogni modo. // 8. Nel sommo seggio. Nella seda di Dio, cioè in cielo. // 10. Te ne ’nganna. T’inganna di ciò, in ciò. Amore. L’amore che tu mi porti. // 11. Che. Il quale amore. San. Sano.

SONETTO CLXXXVII.

S’allegra per le lusinghiere parole dettegli

da un amico in presenza di Laura.

Due rose fresche, e colte in paradiso
L’altr’ier, nascendo, il dì primo di maggio,
Bel dono, e d’un amante antiquo e saggio,
Tra duo minori egualmente diviso,

Con sì dolce parlar e con un riso
Da far innamorar un uom selvaggio,
Di sfavillante ed amoroso raggio
E l’uno e l’altro fe cangiare il viso.

Non vede un simil par d’amanti il sole,
Dicea ridendo e sospirando insieme;
E stringendo ambedue, volgeasi attorno.

Così partia le rose e le parole:
Onde ’l cor lasso ancor s’allegra e teme.
O felice eloquenza! o lieto giorno!

 

Verso 1-2. Colte in paradiso L’altr’ieri nascendo, il dì primo di maggio. Colte in paradiso in sul loro nascere, l’altro ieri, che fu il primo di maggio. // 3. E d’un amante antiquo. E da un amante vecchio. Chi fosse costui, non si ha notizia. // 4. Tra duo minori. Tra due altri amanti, minori di età. Cioè tra Laura e me. Egualmente diviso. Vuol dire che quel vecchio diede a ciascuno de’ due una rosa. // 5. Con. Dipende dalla parola diviso del verso precedente. // 7-8. Fece che l’uno e l’altro cangiarono il viso, si cangiarono in viso, il quale sfavillò di un raggio amoroso. // 9. Par. Paio. Coppia. Accusativo. // 11. Volgeasi attorno. Si volgeva ora all’uno e ora all’altro de’ due. // 12. Partia. Compartia, dividea, tra noi due. // 13. Il cor. Il mio cuore. Ancor. A ricordarsene.

SONETTO CLXXXVIII.

La morte di Laura sarà un danno pubblico,

e brama perciò di morire prima di lei.

Laura, che ’l verde lauro e l’aureo crine
Soavemente sospirando move,
Fa con sue viste leggiadrette e nove
L’anime da ’lor corpi pellegrine.

Candida rosa nata in dure spine!
Quando fia chi sua pari al mondo trove?
Gloria di nostra etate! O vivo Giove,
Manda, prego, il mio in prima che ’l suo fine;

Sì ch’io non veggia il gran pubblico danno,
E ’l mondo rimaner senza ’l suo sole,
Nè gli occhi miei, che luce altra non ànno;

Nè l’alma, che pensar d’altro non vole,
Nè l’orecchie, ch’udir altro non sanno,
Senza l’oneste sue dolci parole.

 

Verso 1. Il verde lauro. Cioè la bella persona, le belle membra. // 3-4. Co’ suoi portamenti ed atti leggiadri e maravigliosi fa le anime pellegrine dai loro corpi, cioè rapisce l’anima a chi li vede. // 5. In dure spine. Significa la rigida onestà di Laura. // 6. Chi. Alcuno che. Trove. Trovi. // 7. O vivo Giove. O vero Giove. O Dio. // 8. Fa’ che la mia morte avvenga prima che la sua. // 9. Il gran pubblico danno. Il danno della sua perdita. Il gran danno che riceverà il mondo per la morte di Laura. // 10. E. Suppliscasi: io non veggia. // 11. Nè gli occhi miei. Nè vegga rimaner senza il loro Sole gli occhi miei. // 12. Nè l’alma. Nè rimaner senza lei, ovvero senza le sue parole, l’anima mia. // 13. L’orecchie. L’orecchie mie. // 14. Senza. Rimaner senza.

SONETTO CLXXXIX.

Perchè nessun dubiti di un eccesso nelle sue lodi,

invita tutti a vederla.

Parrà forse ad alcun che ’n lodar quella
Ch’i’ adoro in terra, errante sia ’l mio stile,
Facendo lei sovra ogni altra gentile,
Santa, saggia, leggiadra, onesta e bella.

A me pare il contrario; e temo ch’ella
Non abbia a schifo il mio dir troppo umìle,
Degna d’assai più alto e più sottile:
E chi nol crede, venga egli a vedella.

Si dirà ben: quello ove questi aspira,
È cosa da stancar Atene, Arpino,
Mantova e Smirna, e l’una e l’altra lira.

Lingua mortale al suo stato divino
Giunger non pote: Amor la spinge e tira,
Non per elezïon, ma per destino.

 

Verso 2. Errante, per eccesso di lodi. [A.] // 7. Degna. Dipende da ella. D’assai più alto. D’un dire assai più alto. Sottile. Fino. Squisito. // 8. Venga egli a vedella. Venga esso medesimo a vederla. // 9. Quello ove. Quella cosa a che, a cui. Cioè il lodar Laura degnamente, e quanto se le converrebbe. // 10-11. Atene, Arpino, Mantova e Smirna. Cioè Demostone, Cicerone, Virgilio od Omero. E l’una e l’altra lira. E l’uno e l’altro poeta lirico. Cioè Orazio e Pindaro. // 12. Al suo stato divino. Ad agguagliare, a significar degnamente e compiutamente, le divine qualità di costei. // 13. Pote. Puote. Può. La spinge e tira. Costringe la lingua del Poeta a dir le lodi di Laura. // 14. Non per elezïon. Perocchè il Poeta non si sarebbe messo volontariamente a sì fatta impresa, conoscendosi non avere forze bastanti a condurla.

SONETTO CXC.

Chiunque l’avrà veduta, dovrà confessare

che non si può mai lodarla abbastanza.

Chi vuol veder quantunque può Natura
E ’l Ciel tra noi, venga a mirar costei,
Ch’è sola un Sol, non pur agli occhi miei,
Ma al mondo cieco, che vertù non cura.

E venga tosto, perchè Morte fura
Prima i migliori, e lascia stare i rei:
Questa, aspettata al regno degli Dei,
Cosa bella mortal passa e non dura.

Vedrà, s’arriva a tempo, ogni virtute,
Ogni bellezza, ogni real costume
Giunti in un corpo con mirabil tempre.

Allor dirà che mie rime son mute,
L’ingegno offeso dal soverchio lume:
Ma se più tarda, avrà da pianger sempre.

 

Verso 1. Quantunque può. Quanto mai può fare. // 2. Tra noi. Cioè, quaggiù in terra. // 3. Non pur. Non solo. // 5. Fura. Ruba. Invola. // 7. Questa. Si riferisce al nome cosa, che sta nel verso seguente. Al regno degli Dei. In paradiso. // 9. Vedrà. Cioè, chi vuol veder quantunque può Natura. // 11. Giunti. Congiunti. Adunati. Tempre. Modi. // 12. Che mie rime son mute. Cioè che le mie lodi sono come nulla, a comparazione del merito di costei. // 13. L’ingegno offeso. E che il mio ingegno è offeso, è vinto.

SONETTO CXCI.

Pensando a quel dì in cui lasciolla sì trista,

teme della salute di lei.

Qual paura ò quando mi torna a mente
Quel giorno ch’i’ lasciai grave e pensosa
Madonna e ’l mio cor seco! e non è cosa
Che sì volentier pensi e sì sovente.

I’ la riveggio starsi umilemente
Tra belle donne, a guisa d’una rosa
Tra minor fior; nè lieta nè dogliosa,
Come chi teme, ed altro mal non sente.

Deposta avea l’usata leggiadria,
Le perle e le ghirlande e i panni allegri
E ’l riso e ’l canto e ’l parlar dolce umano.

Così in dubbio lasciai la vita mia:
Or tristi auguri e sogni e pensier negri
Mi danno assalto; e piaccia a Dio che ’n vano.

 

Versi 3-4. E non è cosa Che sì volentier pensi. E non ci è cosa alcuna alla quale io pensi così volentieri. // 5. I’ la riveggio. Mi par di vederla, come la vidi quel giorno. // 8. Altro mal. Altro male che il timore. Vuol dir che Laura non era ancor veramente malata nè in pericolo alcuno, ma pur mostrava di stare in qualche timore. // 14. Che ’nvano. Che mi dieno assalto invano. Cioè che siano vani, che ciò sia vano.

SONETTO CXCII.

Laura gli apparisce in sonno; e gli toglie

la speranza di rivederla.

Solea lontana in sonno consolarme
Con quella dolce angelica sua vista
Madonna: or mi spaventa e mi contrista;
Nè di duol nè di tema posso aitarme:

Chè spesso nel suo volto veder parme
Vera pietà con grave dolor mista,
Ed udir cose, onde ’l cor fede acquista
Che di gioia e di speme si disarme.

Non ti sovvèn di quell’ultima sera,
Dic’ella, ch’i’ lasciai gli occhi tuoi molli,
E sforzata dal tempo me n’andai?

I’ non tel potei dir allor nè volli,
Or tel dico per cosa esperta e vera:
Non sperar di vedermi in terra mai.

 

Verso 2. Vista. Aspetto. // 4. E non ho rimedio al dolore nè alla paura. E non posso far di non essere addolorato e di non temere. Aitarme sta per aiutarmi. // 5. Parme. Parmi. // 7-8. Onde ’l cor fede acquista Che di gioia e di speme si disarme. Per le quali il mio cuore si persuade di avere a por giù ogni allegrezza e ogni speranza. // 9. Sovvèn. Sovviene. // 11. Dal tempo. Dall’ora tarda. // 13. Per cosa esperta. Come cosa provata, conosciuta, certa. // 14. Mai. Mai più.

SONETTO CXCIII.

Non può creder vera la morte di lei: ma se è,

prega Dio di togliergli la vita.

O misera ed orribil visïone!
È dunque ver che ’nnanzi tempo spenta
Sia l’alma luce che suol far contenta
Mia vita in pene ed in speranze bone?

Ma com’è che sì gran romor non sone
Per altri messi, o per lei stessa il senta?
Or già Dio e Natura nol consenta,
E falsa sia mia trista opinïone.

A me pur giova di sperare ancora
La dolce vista del bel viso adorno,
Che me mantène e ’l secol nostro onora.

Se per salir a l’eterno soggiorno
Uscita è pur del bello albergo fora,
Prego non tardi il mio ultimo giorno.

 

Verso 4. Mia vita ec. Dant.: Inf. VIII: «Lo spirito lasso, Conforta e ciba di speranza bona.»* // 5. Sì gran romor. La fama di sì gran caso come sarebbe questo della morte di Laura. Sone. Suoni. Risuoni. // 6. O per lei stessa il senta? O che io non lo intenda da lei medesima? cioè apparendomi ed avvisandomene essa in spirito. // 7. Già. Particella che accresce forza alla negazione. Consenta. Permetta. // 11. Mantène. Mantiene in vita. Sostenta. // 13. Del bell’albergo. Cioè del suo bel corpo. Fora. Fuori. // 14. Prego Dio che il mio ultimo giorno non tardi a venire.

SONETTO CXCIV.

Il dubbio di non rivederla lo spaventa sì,

che non riconosce più sè medesimo.

In dubbio di mio stato, or piango or canto;
E temo e spero; ed in sospiri e ’n rime
Sfogo ’l mio incarco: Amor tutte sue lime
Usa sopra ’l mio cor afflitto tanto.

Or fia già mai che quel bel viso santo
Renda a quest’occhi le lor luci prime?
(Lasso, non so che di me stesso estime)
O li condanni a sempiterno pianto?

E per prender il ciel debito a lui,
Non curi che si sia di loro in terra,
Di ch’egli è ’l sole, e non veggiono altrui?

In tal paura e ’n sì perpetua guerra
Vivo, ch’i’ non son più quel che già fui;
Qual chi per via dubbiosa teme ed erra.

 

Verso 1. In dubbio di mio stato. Vuol dire: incerto se Laura sia viva o morta. // 3. Incarco. Affanno. Travaglio. Sollecitudine d’animo. Tutte sue lime. Cioè tutte le sue guise ed arti di tormentare. // 6. Le lor luci prime. La luce che essi godettero un tempo. // 7. Che di me stesso estime. Quello che io debba pensare, giudicare di me stesso, della mia sorte // 9. E. E che quel bel viso santo. Prender il ciel. Entrare nel soggiorno del cielo. Debito. Dovuto. // 10. Non si dia pensiero di quel che sia per essere di questi occhi miei. // 11. Di che. Dei quali occhi. E. E i quali occhi. Altrui. Altro.

SONETTO CXCV.

Sospira quegli sguardi da cui, per suo gran danno,

è costretto di allontanarsi.

O dolci sguardi, o parolette accorte,
Or fia mai ’l dì ch’io vi riveggia ed oda?
O chiome bionde, di che ’l cor m’annoda
Amor, e così preso il mena a morte;

O bel viso, a me dato in dura sorte,
Di ch’io sempre pur pianga e mai non goda;
O dolce inganno ed amorosa froda,
Darmi un piacer che sol pena m’apporte:

E se talor da’ begli occhi soavi,
Ove mia vita e ’l mio pensiero alberga,
Forse mi vien qualche dolcezza onesta;

Subito, acciò ch’ogni mio ben disperga
E m’allontane, or fa cavalli or navi
Fortuna, ch’al mio mal sempre è sì presta.

 

Verso 3. Di che. Di cui. Con cui. // 6. Di ch’io. Del quale io. Acciocchè io per esso. Pur. Solamente. // 7. Froda. Frode. // 8. Apporte. Apporti. // 12-14. Subito la fortuna, che sempre è sì pronta e sollecita a farmi male, procaccia o cavalli o navi, cioè occasioni d’ogni maniera, per allontanarmi da Laura, e dissipare ogni mio bene.

SONETTO CXCVI.

Non udendo più novella di lei, teme sia morta,

e sente vicino il proprio fine.

I’ pur ascolto, e non odo novella
De la dolce ed amata mia nemica,
Nè so che me ne pensi o che mi dica;
Sì ’l cor tema e speranza mi puntella.

Nocque ad alcuna già l’esser sì bella;
Questa più d’altra è bella e più pudica:
Forse vuol Dio tal di virtute amica
Tôrre a la terra, e ’n ciel farne una stella,

Anzi un sole: e se questo è, la mia vita,
I miei corti riposi e i lunghi affanni
Son giunti al fine. O dura dipartita,

Perchè lontan m’ài fatto da’ miei danni?
La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.

 

Verso 1. I’ pur ascolto. Io sto di continuo ascoltando, coll’orecchio teso per udire. // 3. Che me ne pensi o che mi dica. Quello che io ne debba pensare o dire. Che pensarne o dirne. // 4. . Talmente. In sì fatta guisa. Il cor. Accusativo. Tema. Nome. – *È degna di nota la lezione trovata dal Muratori in un antico Codice Estense: «Sì ’l cor teme, e speranza ec.»* // 6. D’altra. Di qualunque altra. // 9. E se questo è. E se ciò è. E se così è. // 11-12. O dura dipartita, Perchè lontan m’ài fatto da’ miei danni? Perchè mi è convenuto partirmi da Laura, e mi conviene ora trovarmi lontano da’ miei danni, cioè non posso pure esser presente al suo transito? // 13. La mia favola. La mia rappresentazione scenica. Vuol dir, la mia vita. // 14. E fornito. Ed è finito. A mezzo gli anni. Al mezzo degli anni.

SONETTO CXCVII.

Brama l’aurora, perchè lo acqueta, e gli mitiga

gli affanni della notte.

La sera desïar, odiar l’aurora
Soglion questi tranquilli e lieti amanti:
A me doppia la sera e doglia e pianti;
La mattina è per me più felice ora:

Chè spesso in un momento aprono allora
L’un sole e l’altro quasi duo levanti,
Di beltate e di lume sì sembianti,
Ch’anco ’l ciel de la terra s’innamora;

Come già fece allor ch’e’ primi rami
Verdeggiàr, che nel cor radice m’ànno;
Per cui sempre altrui più che me stesso ami.

Così di me due contrarie ore fanno:
E chi m’acqueta è ben ragion ch’i’ brami,
E tema ed odii chi m’adduce affanno.

 

Verso 3. Doppia. Verbo. Raddoppia. // 5-6. In un momento. In un punto medesimo. Apron allora L’un sole e l’altro quasi duo levanti. Aprono, per dir così, due orienti, cioè si levano, appariscono allora l’un sole e l’altro, cioè il sole e Laura. // 7. Sì somiglianti tra sè di bellezze e di lume. // 8. Che il cielo s’innamora della terra per cagion di Laura, non meno che la terra s’innamora del cielo per cagion del sole. // 9. Come già esso, cioè il cielo, s’innamorò della terra quando per la prima volta verdeggiò, cioè quando ebbe origine, quella pianta che mi ha radice nel cuore, cioè che ha radice nel mio cuore. Vuol dir la pianta dell’alloro, figura di Laura; ed accenna la trasformazione di Dafne. // 11. Per li quali rami, ovvero per la qual radice, avviene, conviene, che io ami sempre altra persona (che è Laura) più che me stesso. // 12. Così di me. Tale effetto in me. Due contrarie ore. Cioè il mattino e la sera. // 13. Chi. Quell’ora che. Accusativo. Dipende da brami. Ragion. Ragionevole. // 14. Chi. Quell’ora che. M’adduce. Mi reca.

SONETTO CXCVIII.

Struggesi per lei; e sdegnato si maraviglia

ch’ella ciò non vegga, anche dormendo.

Far potess’io vendetta di colei
Che guardando e parlando mi distrugge,
E per più doglia poi s’asconde e fugge,
Celando gli occhi a me sì dolci e rei.

Così gli afflitti e stanchi spirti miei
A poco a poco consumando sugge;
E ’n sul cor, quasi fero leon, rugge
La notte, allor quand’io posar devrei.

L’alma, cui Morte del suo albergo caccia,
Da me si parte; e di tal nodo sciolta,
Vassene pur a lei che la minaccia.

Maravigliomi ben s’alcuna volta,
Mentre le parla, e piange, e poi l’abbraccia,
Non rompe ’l sonno suo, s’ella l’ascolta.

 

Verso 1. Potess’io. Forma desiderativa. // 3. Per più doglia. Per più mia doglia. // 7-8. E la notte, quando io mi dovrei riposare, la sua immagine mi turba e mi crucia. // 9. L’alma. L’anima mia. Del suo albergo. Cioè dal suo corpo. // 10. Di tal nodo. Da quel nodo che la teneva congiunta al suo corpo. // 11. A lei. Cioè a Laura. // 13. Le parla. Cioè l’anima mia parla a Laura. // 14. Non rompe ’l sonno suo. Cioè l’anima mia non rompe il sonno di Laura. Ella. Laura.

SONETTO CXCIX.

La guarda fiso; ed ella copresi il volto.

Qual nuovo diletto nel voler rivederlo!

In quel bel viso ch’i’ sospiro e bramo,
Fermi eran gli occhi desïosi e ’ntensi,
Quand’Amor porse (quasi a dir: che pensi?)
Quell’onorata man che secondo amo.

Il cor preso ivi, come pesce a l’amo,
Onde a ben far per vivo esempio viensi,
Al ver non volse gli occupati sensi,
O come novo augello al visco in ramo;

Ma la vista privata del suo obbietto,
Quasi sognando, si facea far via
Senza la quale il suo ben è imperfetto:

L’alma, tra l’una e l’altra gloria mia,
Qual celeste non so novo diletto
E qual strania dolcezza si sentia.

 

Verso 1. Ch’i’ sospiro e bramo. Per cui sospiro, cioè peno, e il quale bramo. // 2. Gli occhi. Gli occhi miei. Intensi. Intesi. Tesi. Intenti. // 3. Quando Amore, cioè quell’amorosa donna, quasi dicendomi: che pensi? porse, cioè pose innanzi al suo viso. // 4. Secondo. Avverbio. In secondo luogo. Cioè dopo il viso. // 5. Il cor. Il mio cuore. Ivi. Cioè in quella mano. // 6. Dipende da ivi. La qual mano conduce con vivo esempio a bene operare.// 7. Cioè non si accorse, non pose mente, che mi fosse tolta la vista del volto. // 8. O come. Si riferisce alle parole del quinto verso, come pesce all’amo. Novo. Giovane. Inesperto. // 9. La vista. La mia vista. Del suo obbietto. Cioè del viso di Laura. // 10-11. Distingue il Poeta dal suo cuore agli occhi, e dice che quello, quasi colto e preso dalla mano di Laura, non ebbe luogo a darsi pensiero di ciò che essa toglieva agli occhi; ma questi, il cui bene, cioè la vista della mano senza la vista del volto, era imperfetto, s’aiutarono della immaginativa in modo, che quasi per sogno parve loro, non ostante la opposizione della mano, di continuare a mirare il viso. Si facea far via Senza la qual. Si facea fare, si apriva, quella via senza la quale, la quale se non le è aperta. // 12. L’alma. L’anima mia. L’una e l’altra gloria mia. Vuol dire il viso e la mano di Laura. // 13. Non so qual diletto celeste e disusato. // 14. Strania. Strana. Straordinaria.

SONETTO CC.

Le liete accoglienze di Laura oltre ’l costume,

lo fecero quasi morir di piacere.

Vive faville uscian de’ duo bei lumi
Vêr me sì dolcemente folgorando,
E parte d’un cor saggio, sospirando,
D’alta eloquenza sì soavi fiumi;

Che pur il rimembrar par mi consumi
Qualor a quel dì torno, ripensando
Come venieno i miei spirti mancando
Al varïar de’ suoi duri costumi.

L’alma nudrita sempre in doglie e ’n pene,
(Quant’è ’l poter d’una prescritta usanza!)
Contra ’l doppio piacer sì inferma fue,

Ch’al gusto sol del disusato bene,
Tremando or di paura or di speranza,
D’abbandonarmi fu spesso intra due.

 

Verso 2. Vêr. Verso. Folgorando. Folgoranti. // 3. E parte. E insieme, e in quel medesimo tempo, e parimente, uscivano. Sospirando. Sospirante. // 5. Pur il rimembrar. Solo il ricordarmene. Par mi consumi. Pare che mi consumi. // 6. Qualor. Ogni volta che. A quel dì torno. Colla memoria. // 7. Venieno. Venivano. // 8. Cioè in quel giorno medesimo, al veder Laura così mutata, e di rigida e aspra divenuta benigna. // 9. L’alma. L alma mia. // 10. Quant’è. Quanto è grande. Prescritta usanza. Assuefazione inveterata. // 11. Contra ’l doppio piacer. A reggere a quel doppio piacere, cioè di quegli sguardi benigni e di quelle parole dolci. Inferma. Debole. Fue. Fu. // 12. Al gusto sol. Al solo assaggiare. Del. Di quel. // 14. Fu spesse volta in dubbio, in punto, di abbandonarmi.

SONETTO CCI.

Nel pensar sempre a lei, gli dà pena di sovvenirsi

anche del luogo dov’ella sta.

Cercato ò sempre solitaria vita
(Le rive il sanno e le campagne e i boschi),
Per fuggir quest’ingegni sordi e loschi
Che la strada del ciel ànno smarrita:

E se mia voglia in ciò fosse compita,
Fuor del dolce aere de’ paesi toschi
Ancor m’avria tra’ suoi be’ colli foschi
Sorga, ch’a pianger e cantar m’aita.

Ma mia fortuna, a me sempre nemica,
Mi risospinge al loco ov’io mi sdegno
Veder nel fango il bel tesoro mio.

A la man and’io scrivo, è fatta amica
A questa volta; e non è forse indegno:
Amor sel vide, e sal Madonna ed io.

 

Verso 3. Quest’ingegni sordi e loschi. Cioè i tristi e gli sciocchi. // 5. Cioè: se io potessi in questa cosa fare a mio modo. // 6. Cioè, lontano dalla mia patria. // 7. M’avria. Cioè: mi vedrebbe dimorare. Foschi. Ombrosi. // 8. Sorga. Fiume di Valchiusa. // 10. Al loco. Intende di Avignone, ove risedeva allora la corte di Roma. // 11. Veder. Di veder. Nel fango. Tra quei cortigiani vili e ribaldi. Il bel tesoro mio. Cioè Laura. // 12-14. Luogo oscuro, che forse accenna copertamente qualche cosa che noi non sappiamo. Le interpretazioni dei comentatori non mi soddisfanno in modo alcuno. Onde. Colla quale. È fatta amica. È divenuta amica. Cioè la mia fortuna. Sel vide. Lo vide. Sal. Sallo. Lo sa.

SONETTO CCII.

La bellezza di Laura è gloria di Natura;

e però non v’ha donna a cui si pareggi.

In tale stella duo begli occhi vidi,
Tutti pien d’onestate e di dolcezza,
Che presso a quei d’Amor leggiadri nidi
Il mio cor lasso ogni altra vista sprezza.

Non si pareggi a lei qual più s’apprezza
In qualch’etade, in qualche strani lidi;
Non chi recò con sua vaga bellezza
In Grecia affanni, in Troia ultimi stridi;

Non la bella Romana che col ferro
Aprì il suo casto e disdegnoso petto;
Non Polissena, Issifile ed Argia.

Questa eccellenzia è gloria (s’io non erro)
Grande a Natura, a me sommo diletto;
Ma che? vien tardo e subito va via.

 

Verso 1. In tale stella. In tal punto di stelle. // 2. Pien. Pieni. // 3. Presso a quei d’Amor leggiadri nidi. Cioè, a petto, a lato, a comparazione, di quegli occhi. // 5. Non si pareggi. Non sia pareggiata, cioè agguagliata, paragonata. Qual. Qualunque donna. Più s’apprezza. È maggiormente pregiata, stimata, celebrata. // 6. Qualch’etade. Qual si sia età. Qualche strani lidi. Qualsivoglia paese straniero, lontano. // 7. Non. Non si pareggi a lei. Chi. Quella che. Vuol dir Elena. // 9. La bella Romana. Lucrezia. // 12. Questa eccellenzia. La eccellente bellezza di Laura. // 14. Vien. Viene al mondo. Tardo. Avverbio. Tardi.

SONETTO CCIII.

Le donne che vogliono imparar le virtù,

mirino fiso negli occhi di Laura.

Qual donna attende a glorïosa fama
Di senno, di valor, di cortesia,
Miri fiso negli occhi a quella mia
Nemica, che mia donna il mondo chiama.

Come s’acquista onor, come Dio s’ama,
Com’è giunta onestà con leggiadria,
Ivi s’impara, e qual è dritta via
Di gir al Ciel, che lei aspetta e brama.

Ivi ’l parlar che nullo stile agguaglia,
E ’l bel tacere, e quei santi costumi
Ch’ingegno uman non può spiegar in carte.

L’infinita bellezza, ch’altrui abbaglia,
Non vi s’impara; chè quei dolci lumi
S’acquistan per ventura e non per arte.

 

Verso 1. Qual. Qualunque. Attende a. Cerca. // 6. Com’è giunta. Come si congiunge. // 9. Ivi. Ivi s’impara. Che. Accusativo. Nullo. Nessuno.

SONETTO CCIV.

Provando che l’onestà dee preferirsi alla vita,

fa il bell’elogio di Laura.

Cara la vita, e dopo lei mi pare
Vera onestà che ’n bella donna sia.
L’ordine volgi: e’ non fur, madre mia,
Senz’onestà mai cose belle o care.

E qual si lascia di suo onor privare,
Nè donna è più, nè viva; e se, qual pria,
Appare in vista, è tal vita aspra e ria
Via più che morte e di più pene amare.

Nè di Lucrezia mi maravigliai,
Se non come a morir le bisognasse
Ferro, e non le bastasse il dolor solo.

Vengan quanti filosofi fur mai
A dir di ciò: tutte lor vie fien basse;
E quest’una vedremo alzarsi a volo.

 

Versi 1-2. Pare che questi versi siano in persona di una donna attempata che parli con Laura. In bella donna mi pare che innanzi ad ogni altra cosa sia cara la vita, e dopo la vita una vera onestà. // 3. Pare che Laura risponda. L’ordine volgi. Cioè: dì piuttosto che l’onestà è cara sopra ogni cosa; e dopo l’onestà, la vita. E’. Voce di ripieno. // 5. Qual. Qualunque donna. Ciascuna che. // 6-7. E se, qual pria, Appare in vista. E se bene, a vederla, ella par quella di prima, nondimeno. È tal vita. La sua vita è. // 3. Via più. Vie più. Assai più. Di più pene amare. Cioè più penosa che la morte. // 9. Mi maravigliai. Suppliscasi mai, ovvero intendasi: mi soglio maravigliare. // 12. Pare che qui entri a parlare il Poeta in persona propria. // 13. Tutte lor vie fien basse. Vuol dire: tutti i loro discorsi resteranno di sotto a questo di Laura. // 14. Quest’una. Quest’una via. Cioè questo discorso di Laura. Alzarsi a volo. Cioè superare ogni altra per nobiltà ed eccellenza.

SONETTO CCV.

Laura spregia sì le vanità, che le ’ncrescerebbe

esser bella, se non fosse casta.

Arbor vittorïosa trionfale,
Onor d’imperadori e di poeti,
Quanti m’ài fatto dì dogliosi e lieti
In questa breve mia vita mortale!

Vera donna, ed a cui di nulla cale
Se non d’onor, che sovra ogni altra mieti;
Nè d’Amor visco temi o lacci o reti;
Nè inganno altrui contra ’l tuo senno vale.

Gentilezza di sangue, e l’altre care
Cose tra noi, perle rubini ed oro,
Quasi vil soma, egualmente dispregi.

L’alta beltà, ch’al mondo non à pare,
Noia t’è, se non quanto il bel tesoro
Di castità par ch’ella adorni e fregi.

 

Versi. 7-2. Parla alla pianta del lauro, allegoria di Laura. – *Staz. Achill.: «Cui geminæ florent vatumque ducumque, Certatim laurus.»* // 3. Quanti m’ài fatto dì. Quanti dì m’hai fatti. // 5. Vera donna. Intendendo la voce donna per Signora, Padrona. Di nulla cale. Nulla sta a cuore. // 6. Che. Il quale. La qual cosa. Cioè onore. Sovra ogni altra. Più d’ogni altra donna. // 9-10. Care Cose tra noi. Cose pregiate tra noi, che tra noi sono in pregio. // 11. Soma. Peso. Egualmente. Tutte egualmente. // 12. L’alta beltà. L’alta tua beltà. Pare. Pari. // 13. Quanto. In quanto che.

CANZONE XVII.

Confessa le sue miserie, e vorrebbe liberarsene;

ma, perchè nol vuole, nol può.

I’ vo pensando, e nel pensier m’assale
Una pietà sì forte di me stesso,
Che mi conduce spesso
Ad altro lagrirnar ch’i’ non soleva:
Chè vedendo ogni giorno il fin più presso,
Mille fïate ho chieste a Dio quell’ale
Con le quai del mortale
Carcer nostro intelletto al ciel si leva;
Ma infin a qui niente mi rileva
Prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia:
E così per ragion convèn che sia;
Chè chi possendo star, cadde tra via,
Degno è che mal suo grado a terra giaccia.
Quelle pietose braccia,
In ch’io mi fido, veggio aperte ancora;
Ma temenza m’accora
Per gli altrui esempi; e del mio stato tremo;
Ch’altri mi sprona, e son forse a l’estremo.

 

Verso 1. Nel pensier. Nel pensare. – *Dante, Canz.: «E m’incresce di me sì malamente, Ch’altrettanto di doglia M’arreca la pietà quanto il desire.»* // 4. A pianger per altra cagione che per quel che io soleva. Cioè, a piangere, non per le pene dell’amore, ma per la considerazione del mio torto vivere e del mondo di là. // 5. Chè. Perocchè. Il fin. La morte. // 6. Quell’ale. Vuol dir la grazia divina. // 7. Del. Dal. // 9. Mi rileva. Mi vale. Mi giova. // 11. Per ragion. Ragionevolmente. Giustamente. // 12. Chè. Perocchè. Possendo. Potendo. Star. Star su. Stare in piede. Tra via. Per via. // 13. Mal suo grado. A suo mal grado. // 14. Cioè le braccia di Cristo crocifisso, ovvero della bontà divina. // 15. In che. In cui. Mi fido. Confido. // 16. Temenza. Timore. // 17. Per gli altrui esempi. Per gli esempi di quelli che sono morti prima di venire a penitenza. // 18. Altri. Cioè i mali pensieri ed abiti, le male inclinazioni e passioni. E son forse a l’estremo. E forse questa è l’ultima ora della mia vita.

L’un pensier parla con la mente, e dice:
Che pur agogni? onde soccorso attendi?
Misera, non intendi
Con quanto tuo disnore il tempo passa?
Prendi partito accortamente, prendi;
E del cor tuo divelli ogni radice
Del piacer che felice
Nol può mai fare, e respirar nol lassa.
Se, già è gran tempo, fastidita e lassa
Se’ di quel falso dolce fuggitivo
Che ’l mondo traditor può dare altrui,
A che ripon più la speranza in lui,
Che d’ogni pace e di fermezza è privo?
Mentre che ’l corpo è vivo,
Ài tu ’l fren in balìa de’ pensier tuoi.
Deh stringilo or che puoi;
Chè dubbioso è il tardar, come tu sai;
E ’l cominciar non fia per tempo omai.

 

Verso 2. Agogni. Desideri. Onde. Da chi. Da che cosa. // 4. Disnore. Disonore. // 5. Accortamente. Prudentemente. Saviamente. // 6. Del. Dal. Divelli. Svelli. // 8. Lassa. Lascia. // 9. Già è gran tempo. Già da gran tempo. Fastidita. Infastidita. Lassa. Stanca. Sazia. // 10. Se’. Sei. Dolce. Nome sostantivo. Dolcezza. Piacere. // 11. Che. Accusativo. Altrui. Agli uomini. // 12. Ripon. Riponi. In lui. Cioè nel mondo. // 14. Mentre che. Fino a tanto che. // 15. In balìa. Dipende da ài. De’ pensier tuoi. Dipende da fren. // 18. Per tempo. Presto.

Già sai tu ben quanta dolcezza porse
Agli occhi tuoi la vista di colei
La qual anco vorrei
Ch’a nascer fosse per più nostra pace.
Ben ti ricordi (e ricordar ten dèi)
De l’immagine sua, quand’ella corse
Al cor, là dove forse
Non potea fiamma intrar per altrui face.
Ella l’accese: e se l’ardor fallace
Durò molt’anni in aspettando un giorno,
Che per nostra salute unqua non vène,
Or ti solleva a più beata spene,
Mirando ’l ciel, che ti si volge intorno
Immortale ed adorno:
Chè dove, del mal suo qua giù sì lieta,
Vostra vaghezza acqueta
Un mover d’occhio, un ragionare, un canto;
Quanto fia quel piacer, se questo è tanto?

 

Versi 3-4. La qual anco vorrei Ch’a nascer fosse. La quale vorrei che avesse ancora a nascere, che non fosse nata ancora. // 5. Ten dèi. Te ne devi. // 7. Al cor, là dove. Al tuo cuore nel quale. // 8. Cioè non poteva nascere amore per cagion d’altra donna. // 9. L’accese. Accese il tuo cuore. // 10. Un giorno. Cioè il giorno che Laura acconsentisse a’ tuoi desiderii. // 11. Per nostra salute. Per nostra buona fortuna. Unqua. Mai. Vène. Viene. // 13. Volve. Volge. – Dante: «Chiamavi ’l ciel ch’intorno vi s’aggira, Mostrandovi le sue bellezze eterne.»* // 15-17. Che se un muover d’occhio, un ragionare, un canto, acquieta, cioè appaga, la vostra vaghezza, cioè il vostro desiderio, sì lieta, cioè sì cupida, e amante del suo male quaggiù in terra. // 18. Quanto. Quanto grande. Quel piacer. Cioè il godimento celeste.

Da l’altra parte un pensier dolce ed agro,
Con faticosa e dilettevol salma
Sedendosi entro l’alma,
Preme ’l cor di desio, di speme il pasce;
Che sol per fama glorïosa ed alma
Non sente quand’io agghiaccio o quand’io flagro;
S’i’ son pallido o magro;
E s’io l’occido, più forte rinasce.
Questo d’allor ch i’ m’addormiva in fasce,
Venuto è di dì in dì crescendo meco;
E temo ch’un sepolcro ambeduo chiuda.
Poi che fia l’alma de le membra ignuda,
Non può questo desio più venir seco.
Ma se ’l Latino e ’l Greco
Parlan di me dopo la morte, è un vento:
Ond’io, perchè pavento
Adunar sempre quel ch’un’ora sgombre,
Vorre’ il vero abbracciar, lassando l’ombre.

 

Verso 2. Salma. Peso. // 5. Sol per fama. Per solo amore di fama. // 6. Non sente. Non si accorge. Flagro. Ardo. – *È il sudavit et alsit d’Orazio.* // 7. S’i’ son. Nè sente se io sono. // 8. Occido. Uccido. // 9. D’allor che. Insin dall’ora che. Insin da quando. M’addormiva. Mi addormentava. // 11. Ambeduo. Cioè questo pensiero e me. Vuol dire che egli teme che il desiderio di gloria non sia per essere spento in lui se non che alla morte. // 12. Poi che. Quando. // 15. Parlan. Parleranno. È un vento. È cosa che non monta nulla. – *Dante: «Non è il mondan rumor altro ch’un fiato Di vento.»* // 16-17. Onde io, che, correndo dietro alla gloria mondana, temo non fare altro che venir continuamente adunando, cioè accumulando, quel che un’ora sgombri, cioè cose che all’ora della morte siano per dispergersi e dileguarsi in un punto. // 18. Vorre’. Vorrei. Lassando. Lasciando.

Ma quell’altro voler, di ch’i’ son pieno,
Quanti press’a lui nascon par ch’adugge;
E parte il tempo fugge
Che scrivendo d’altrui, di me non calme;
E ’l lume de’ begli occhi, che mi strugge
Soavemente al suo caldo sereno,
Mi ritien con un freno
Contra cui nullo ingegno o forza valme.
Che giova dunque perchè tutta spalme
La mia barchetta, poi che ’n fra li scogli
È ritenuta ancor da ta’ duo nodi?
Tu che dagli altri, che ’n diversi modi
Legano ’l mondo, in tutto mi disciogli,
Signor mio, chè non togli
Omai dal volto mio questa vergogna?
Ch’a guisa d’uom che sogna,
Aver la morte innanzi gli occhi parme;
E vorrei far difesa, e non ho l’arme.

 

Verso 1. Quell’altro voler. Intende della sua passione amorosa. // 2. Quanti. Quanti altri voleri. Tutti gli altri voleri che. Press’a lui. Presso a lui. Vicino a lui. Adugge. Aduggi. Uccida colla sua ombra. // 3-4. E parte che, cioè intanto che, scrivendo d’altrui, cioè di Laura, di me non calmi, cioè non mi cale di me, non ho cura di me stesso, il tempo fugge. // 6. Sereno. Nome sostantivo. // 8. Nullo. Nessuno. Valme. Valmi. Mi vale. // 9-11. Che mi giova dunque ungere e racconciar da ogni parte la mia barchetta, se ella è ritenuta ancor tra gli scogli da tali due nodi, cioè dall’amor della fama e da quello di Laura? // 12. Tu. Si volge a Dio. Dagli altri. Dagli altri nodi. // 13. In tutto. Del tutto. Totalmente. // 14-15. Chè non togli Omai dal volto mio questa vergogna? Perchè non mi liberi omai dalla ignominia di esser così tenuto legato da questi due nodi? // 17. Parme. Parmi.

 

Quel ch’i’ fo, veggio; e non m’inganna il vero
Mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
Che la strada d’onore
Mai non lassa seguir, chi troppo il crede;
E sento ad or ad or venirmi al core
Un leggiadro disdegno, aspro e severo,
Ch’ogni occulto pensero
Tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede:
Chè mortal cosa amar con tanta fede,
Quanta a Dio sol per debito conviensi,
Più si disdice a chi più pregio brama.
E questo ad alta voce anco richiama
La ragione sviata dietro ai sensi:
Ma perchè l’oda, e pensi
Tornare, il mal costume oltre la spigne,
Ed agli occhi dipigne
Quella che sol per farmi morir nacque,
Perch’a me troppo ed a sè stessa piacque.

 

Verso 1-2. Ovid.: «Quid faciam, video, nec me ignorantia veri Decipiet, sed amor.»* – Anzi. Ma. // 3-4. Il quale, se uno gli dà troppo orecchio, non lascia mai che questo tale segua la strada d’onore. Chi vale qui, come altrove, se uno. // 6. Leggiadro. Nobile. Virtuoso. Lodevole. // 7-8. Cioè, che mi fa arrossire. // 11. Pregio. Estimazione. Onore. Lode. // 12. Questo. Questo disdegno. // 14. Perchè. Benchè. L’oda. Suppliscasi: la ragione. // 15. Tornare. Tornare indietro. Il mal costume. La sua mala consuetudine. Il cattivo abito. // 17. Quella. Cioè Laura.

 

Nè so che spazio mi si desse il Cielo,
Quando novellamente io venni in terra
A soffrir l’aspra guerra
Che ’ncontra a me medesmo seppi ordire,
Nè posso ’l giorno che la vita serra
Antiveder per lo corporeo velo:
Ma varïarsi il pelo
Veggio, e dentro cangiarsi ogni desire.
Or ch’i’ mi credo al tempo del partire
Esser vicino o non molto da lunge,
Come chi ’l perder face accorto e saggio,
Vo ripensando ov’io lassai ’l vïaggio
Da la man destra, ch’a buon porto aggiunge;
E da l’un lato punge
Vergogna e duol, che ’ndietro mi rivolve;
Da l’altro non m’assolve
Un piacer per usanza in me sì forte,
Ch’a patteggiar n’ardisce con la morte.

 

Verso 1. Che spazio mi si desse. Quanto tempo da vivere mi assegnasse. // 4. Incontra. Contro. // 5-6. E l’ingombro corporeo m’impedisce di prevedere il giorno che debbe esser l’ultimo della mia vita. // 7. Varïarsi. Mutarsi di colore. // 9. Del partire. Cioè del morire. // 10. Da lunge. Lontano. // 11. Come chi dalle proprie perdite è fatto accorto e saggio. Ovvero, come quello che son fatto accorto e saggio dalle mie perdite. Face è detto per fa. // 12-13. Lassai. Lasciai. Il viaggio Da la man destra. Vuol dir la strada del buono e diritto vivere. Che. Il qual viaggio. Aggiunge. Giunge. // 14. Punge. Mi punge. // 15. Rivolve. Rivolge. // 16-18. Dall’altro lato non mi scioglie, cioè non mi pone in libertà, non mi lascia libero, un piacere, cioè una vaghezza, una voglia, una passione, il quale per antico abito ha in me tanta forza, che egli si ardisce anco a voler venire a patti colla morte.

 

Canzon, qui sono; ed ò ’l cor via più freddo
De la paura, che gelata neve,
Sentendomi perir senz’alcun dubbio;
Chè pur deliberando, ò vòlto al subbio
Gran parte omai de la mia tela breve:
Nè mai peso fu greve
Quanto quel ch’i sostegno in tale stato;
Chè con la morte a lato
Cerco del viver mio novo consiglio,
E veggio ’l meglio ed al peggior m’appiglio.

 

Verso 1. Qui. In tale stato. Via più. Vie più. // 2. De la. Dalla. Cioè Per la. Che. Dipende da via più freddo. // 3. Sentendomi perir. Vedendo, conoscendo, che io pero. // 4-5. Perocchè, non facendo altro che andar deliberando, ho già consumato una gran parte della mia vita. // 6. Fu greve. Fu tanto greve. // 7. Sostegno. Sostengo. // 8. A lato. Imminente. // 9. Del viver mio. Circa il tenore della mia vita. Consiglio. Partito. – *Ovid.: «Video meliora proboque, Deteriora sequor.»*

SONETTO CCVI.

Laura gli è sì severa, che ’l farebbe morire,

s’e’ non isperasse di renderla pietosa.

Aspro core e selvaggio, e cruda voglia
In dolce, umìle, angelica figura,
Se l’impreso rigor gran tempo dura,
Avran di me poco onorata spoglia:

Chè quando nasce e mor fior, erba e foglia
Quando è ’l dì chiaro e quando è notte oscura,
Piango ad ogni or. Ben ò di mia ventura,
Di Madonna e d’Amore onde mi doglia.

Vivo sol di speranza, rimembrando
Che poco umor già per continua prova
Consumar vidi marmi e pietre salde.

Non è sì duro cor che lagrimando,
Pregando, amando, talor non si smova:
Nè sì freddo voler che non si scalde.

 

Verso 1. Voglia. Volontà. Proposito. Disposizione d’animo. // 3. L’impreso rigor. Il rigore che Laura ha preso ad usarmi. // 4. Cioè: mi uccideranno, senza molto loro onore. // 5. Quando nasce e mor fior, erba e foglia. Cioè in ogni stagione. Mor vale muore. // 7-8. Ad ogni or. Sempre. Di continuo. Ben ò di mia ventura, Di Madonna e d’Amor onde mi doglia. Ben ho cagion di dolermi della mia fortuna, della mia donna e d’Amore. // 10-11. Accenna il detto, che poca acqua, a lungo andare, logora le pietre. – *Lucr.: «Nonne vides etiam guttas in saxa cadentes Humoris longo in spatio pertundere saxa?» E Ovid.: «Dura tamen molli saxa cavantur aqua.»* // 12. Non è sì duro cor. Non ci ha cuor sì duro. – *Sant’Agost.: «Nihil tam durum, atque ferreum, quam non amoris igne emolliatur.»* // 14. Scalde. Scaldi.

SONETTO CCVII.

Duolsi d’esser lontano da Laura e dal Colonna,

i due soli oggetti dell’amor suo.

Signor mio caro, ogni pensier mi tira
Devoto a veder voi, cui sempre veggio;
La mia fortuna (or che mi può far peggio?)
Mi tène a freno e mi travolve e gira.

Poi quel dolce desio ch’Amor mi spira
Menami a morte ch’i’ non me n’avveggio;
E mentre i miei duo lumi indarno cheggio,
Dovunque io son, dì e notte si sospira.

Carità di signore, amor di donna
Son le catene ove con molti affanni
Legato son, perch’io stesso mi strinsi.

Un Lauro verde, una gentil Colonna,
Quindici l’una, e l’altro diciott’anni
Portato ò in seno, e già mai non mi scinsi.

 

Al cardinal Colonna.

Verso 2. A veder voi. A venire a veder voi. Cui sempre veggio. Colla mente. // 4. Tène. Tiene. Travolve. Travolge. // 5. Poi. Oltre di ciò. Che. Accusativo. Spira. Inspira. 6. Che. In guisa che. // 7. I miei due lumi. Vuol dire il Colonna e Laura. Cheggio. Chiedo. Desidero. // 8. Si sospira. Cioè sospiro. // 9. Carità. Cioè amore, ma senza appassionamento. // 14. E già mai non mi scinsi. E mai non mi discinsi, non mi spogliai. Vuol dire: e in tutto questo spazio di tempo non ho mai deposto per alcun tratto l’amore e il pensiero del Colonna e di Laura.

 

Parte Seconda.

SONETTI E CANZONI IN MORTE DI MADONNA LAURA.

SONETTO I.

Elogio di Laura nell’atto di sfogare l’acerbità

del dolore per la morte di lei.

Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,
Oimè il leggiadro portamento altero,
Oimè ’l parlar ch’ogni aspro ingegno e fero
Faceva umìle; ed ogni uom vil, gagliardo;

Ed oimè il dolce riso ond’uscio ’l dardo
Di che morte, altro bene omai non spero;
Alma real, dignissima d’impero,
Se non fossi fra noi scesa sì tardo;

Per voi convèn ch’io arda e ’n voi respire:
Ch’i’ pur fui vostro; e se di voi son privo,
Via men d’ogni sventura altra mi dole.

Di speranza m’empieste e di desire,
Quand’io parti’ dal sommo piacer vivo;
Ma ’l vento ne portava le parole.

 

Verso 3. Ingegno. Natura. Indole. // 4. Gagliardo. Animoso. Generoso. Prode. // 5. Uscio. Uscì. Il dardo. Il colpo che m’innamorò. // 6. Del qual colpo non mi aspetto più altro bene se non la morte. // 8. Sì tardo. Sì tardi. Cioè in secolo sì corrotto. // 9. Convèn. Conviene. Respire. Respiri. // 11. D’ogni altra sventura mi duole assai meno. Cioè a dire: di ciò mi duole assai più che di qualunque altra sventura. Via men vale vie meno, cioè assai meno. // 13. Cioè: quando l’ultima volta io presi commiato da Laura ancor viva. // 14. Vuol dire: ma quella speranza e quel desire erano vani. Ne portava. Se ne portava. Portava via. Le parole. Di Laura e mie in quel nostro ultimo colloquio. – *Staz.: «Irrita ventosæ rapiebant verba procellæ.»*

CANZONE I.

La morte di Laura lo priva d’ogni conforto;

e non vivrà che per cantar le sue lodi.

Che debbo io far? che mi consigli Amore?
Tempo è ben di morire;
Ed ò tardato più ch’i’ non vorrei.
Madonna è morta, ed à seco ’l mio core,
E volendol seguire,
Interromper convèn questi anni rei:
Perchè mai veder lei
Di qua non spero; e l’aspettar m’è noia:
Poscia ch’ogni mia gioia,
Per lo suo dipartire, in pianto è vòlta,
Ogni dolcezza di mia vita è tolta.

 

Versi 5-6. E se io voglio andar dietro a esso mio cuore, conviene ch’io interrompa, cioè termini spontaneamente, questa mia vita misera. // 8. Di qua. In questo mondo. In terra. // 9. Poscia che. Posciachè. Perocchè. // 10. Per lo suo dipartire. Per la sua morte. Vòlta. Cangiata. // 11. Ogni dolcezza. E poscia che ogni dolcezza.

Amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio,
Quant’è ’l danno aspro e grave;
E so che del mio mal ti pesa e dole,
Anzi del nostro; perch’ad uno scoglio
Avem rotto la nave,
Ed in un punto n’è scurato il sole.
Qual ingegno a parole
Poria agguagliar il mio doglioso stato?
Ahi orbo mondo ingrato!
Gran cagione ài di dever pianger meco;
Chè quel ben ch’era in te, perduto ài seco,

 

Versi 1-2. Amore, tu vedi e conosci quanto acerbo e grave è il danno di questa morte, onde è ch’io mi lamento teco, come quello che hai pieno senso e conoscimento della causa del mio dolore. // 4. Ad uno scoglio. Ad un medesimo scoglio. // 5. Avem. Abbiamo tu ed io. // 6. In un punto. In uno stesso punto. N’è scurato. Si è oscurato ad ambedue noi. // 7-8. A parole Poria agguagliar. Potria pienamente esprimere con parole. // 9. Orbo. Orfano. Vedovo. Ovvero, Cieco. // 10. Dever. Dovere. // 11. Perocchè con lei, cioè perdendo Laura, hai perduto tutto il bene che avevi.

Caduta è la tua gloria, e tu nol vedi:
Nè degno eri, mentr’ella
Visse qua giù, d’aver sua conoscenza,
Nè d’esser tocco da’ suoi santi piedi;
Perchè cosa sì bella
Devea ’l ciel adornar di sua presenza.
Ma io, lasso, che senza
Lei, nè vita mortal nè me stesso amo,
Piangendo la richiamo:
Questo m’avanza di cotanta spene,
E questo solo ancor qui mi mantène.

 

Verso 6. Dante, Canz.: «E fella di qua giuso a sè venire Perchè vedea questa vita noiosa Non era degna di sì gentil cosa.»* – Devea. Dovea. // 10. Questo, cioè piangerla e richiamarla. [A.] // 11. Qui. In terra. Mi mantène. Mi sostenta.

Oïme, terra è fatto il suo bel viso,
Che solea far del cielo
E del ben di lassù fede fra noi.
L’invisibil sua forma è in paradiso,
Disciolta di quel velo
Che qui fece ombra al fior degli anni suoi,
Per rivestirsen poi
Un’altra volta, e mai più non spogliarsi;
Quand’alma e bella farsi
Tanto più la vedrem, quanto più vale
Sempiterna bellezza che mortale.

 

Verso 1. Fatto. Divenuto. // 2-3. Far fede. Far testimonianza. Mostrare un’immagine. // 4. L’invisibil sua forma. L’anima di Laura. // 6. Al fior degli anni suoi. Accenna che Laura non visse se non giovane. Cioè non giunse alla vecchiezza. // 7. Per. Si riferisce a disciolta. // 9-10. Alma e bella farsi Tanto più la vedrem. La vedremo farsi, cioè divenire, tanto più alma, cioè nobile, eccellente, e tanto più bella di prima.

 

Più che mai bella e più leggiadra donna
Tornami innanzi, come
Là dove più gradir sua vista sente.
Quest’è del viver mio l’una colonna.
L’altra è ’l suo chiaro nome,
Che sona nel mio cor sì dolcemente.
Ma tornandomi a mente
Che pur morta è la mia speranza, viva
Allor ch’ella fioriva,
Sa ben Amor qual io divento, e (spero)
Vedel colei ch’è or sì presso al vero.

 

Verso 1. In sembianza più bella o più leggiadra che mai. // 2-3. Tornami. Cioè Laura. Come Là dove più gradir sua vista sente. Come a colui che ella conosce aver più cara e più grata la sua vista. Poichè ella sa e vede che io fra tutti sono quello a cui la sua vista è più grata. // 4. Del viver mio l’una colonna. L’una de’ due sostegni della mia vita. // 8-9. Viva Allor ch’ella fioriva. La quale era viva quando Laura era in fiore, viveva. // 11. Vedel. Il vede. Al vero. Cioè a Dio.

Donne, voi che miraste sua beltate
E l’angelica vita
Con quel celeste portamento in terra,
Di me vi doglia e vincavi pietate,
Non di lei, ch’è salita
A tanta pace, e me à lasciato in guerra;
Tal che s’altri mi serra
Lungo tempo il cammin da seguitarla,
Quel ch’amor meco parla,
Sol mi ritèn ch’io non recida il nodo;
Ma e’ ragiona dentro in cotal modo:

 

Verso 3. Con. E. // 4-5. Di me vi doglia e vincavi pietate, Non di lei. Doletevi e fatevi pietose di me, non di lei. // 7. Altri. Cioè il destino, il cielo, la natura, o simile. // 9. Che. Accusativo. – Quello che Amore mi vien dicendo. [A.] // 10. Ritèn. Ritiene. Ch’io non recida il nodo. Ch’io non mi uccida. – Ma questo recidere il nodo verrebbe più a proposito, se il poeta avesse detto prima, non già che altri gli serra il cammino, ma che lo tiene legato o simili. [A.] // 11. E’. Cioè Amore. Dentro. Dentro di me.

 

Pon freno al gran dolor che ti trasporta;
Chè per soverchie voglie
Si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira;
Dov’è viva colei ch’altrui par morta;
E di sue belle spoglie
Seco sorride, e sol di te sospira;
E sua fama che spira
In molte parti ancor per la tua lingua,
Prega che non estingua;
Anzi la voce al suo nome rischiari,
Se gli occhi suoi ti fur dolci nè cari.

 

Verso 2. Voglie. Cioè desiderii terreni, passioni. // 6. Seco. Fra sè. // 7. Spira. Respira. Vive. // 9. Ti prega di non estinguere. // 11. . O. E.

 

Fuggi ’l sereno e ’l verde,

Non t’appressar ove sia riso o canto,
Canzon mia, no, ma pianto.
Non fa per te di star fra gente allegra,
Vedova sconsolata in veste negra.

 

Verso 4. Non fa per te. Non conviene a te. // 5. Dipende dal pronome te che è nel verso di sopra. – *Ovid.: «Infelix habitum temporis hujus habes.»*

SONETTO II.

Compiange sè stesso per la doppia perdita

e del suo Colonna e della sua Laura.

Rotta è l’alta Colonna e ’l verde Lauro
Che facean ombra al mio stanco pensero;
Perdut’ò quel che ritrovar non spero
Dal borea a l’austro, o dal mar indo al mauro.

Tolto m’ài, Morte, il mio doppio tesauro,
Che mi fea viver lieto e gire altero;
E ristorar nol può terra nè impero,
Nè gemma orïental nè forza d’auro.

Ma se consentimento è di destino,
Che poss’io più se no aver l’alma trista,
Umidi gli occhi sempre e ’l viso chino?

O nostra vita, ch’è sì bella in vista,
Com’ perde agevolmente in un mattino
Quel che ’n molt’anni a gran pena s’acquista!

 

Verso 1. L’alta Colonna. Vuoi dire il cardinal Colonna, amico suo, morto poco dopo Laura. // 2. Facean ombra. Cioè davano riposo, conforto. Pensero. Pensiero. // 7. Ristorar. Compensare. // 8. Forza d’auro. Maniera latina. Vis auri, cioè quantità, abbondanza, d’oro. // 9. Ma se questa è la volontà del destino. Cioè ch’io sia privato del mio doppio tesauro. // 10. Che poss’io più se no. Che altro posso io se non. // 12. In vista. Nell’apparenza. // 13. Com’ perde. Come perde. In un mattino. In un giorno. In un’ora.

CANZONE II.

Se Amore non sa nè può ridonarle la vita,

ei non teme più di cader ne’ lacci di lui.

Amor, se vuo’ chi i’ torni al giogo antico,
Come par che tu mostri, un’altra prova
Maravigliosa e nova,
Per domar me, convienti vincer pria:
Il mio amato tesoro in terra trova,
Che m’è nascosto, ond’io son sì mendico;
E ’l cor saggio pudico,
Ove suole albergar la vita mia:
E s’egli è ver che tua potenza sia
Nel ciel sì grande come si ragiona,
E ne l’abisso (perchè qui, fra noi
Quel che tu vali e puoi
Credo che ’l senta ogni gentil persona);
Ritogli a Morte quel ch’ella n’à tolto,
E ripon le tue insegne nel bel volto.

 

Verso 1. Vuo’. Vuoi. Al giogo antico. Cioè alla tua soggezione, ad amare un’altra volta. // 2. Prova. Impresa. // 9. Egli. Voce che ridonda. // 10. Come. Dipende dal . Si ragiona. Si dice. // 14. N’à tolto. Ci ha tolto. // 15. Ripon. Riponi. Imperativo. Le tue insegne. Vuol dir le bellezze, le grazie, gli allettamenti che già erano nel volto di Laura.

 

Riponi entro ’l bel viso il vivo lume,
Ch’era mia scorta; e la soave fiamma,
Ch’ancor, lasso, m’infiamma
Essendo spenta; or che fea dunque ardendo?
E’ non si vide mai cervo nè damma
Con tal desio cercar fonte nè fiume,
Qual io il dolce costume,
Ond’ò già molto amaro, e più n’attendo,
Se ben me stesso e mia vaghezza intendo:
Che mi fa vaneggiar sol del pensero
E gir in parte ove la strada manca,
E con la mente stanca
Cosa seguir che mai giugner non spero.
Or al tuo richiamar venir non degno,
Chè signoria non ài fuor del tuo regno.

 

Verso 4. Fea. Faceva. // 5. E’. Voce di ripieno. // 7. Qual. Cioè con qual desio. Io. Suppliscasi cercai o cercava. Il dolce costume. Vuol dir gli atti, il portamento, le parole, in breve la vista e il colloquio di Laura. // 9. Se conosco bene me stesso e la mia vaghezza, cioè la mia voglia, il mio desiderio. // 10. Che. La qual vaghezza. Sol del pensare. Cioè al solo pensare a Laura, senza più vederla nè udirla. // 11. Cioè correr col pensiero dietro a Laura che è morta. // 13. Cosa seguir. Seguir cosa. Giugner. Arrivare. Attivo. // 14. Non degno. Non mi degno. // 15. Fuor del tuo regno. Il qual regno consisteva nelle bellezze di Laura.

Fammi sentir di quell’aura gentile
Di fuor, siccome dentro ancor si sente;
La qual era possente,
Cantando, d’acquetar gli sdegni e l’ire;
Di serenar la tempestosa mente,
E sgombrar d’ogni nebbia oscura e vile;
Ed alzava ’l mio stile
Sovra di sè, dov’or non poria gire.
Agguaglia la speranza col desire;
E poi che l’alma è in sua ragion più forte,
Rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obbietto,
Senza ’l qual imperfetto
È lor oprar, e ’l mio viver è morte,
Indarno or sopra me tua forza adopre,
Mentre il mio primo amor terra ricopre.

 

Verso 1. Di quell’aura gentile. Vuol dir della voce di Laura. // 2. Di fuor. Dipende da sentir. Dentro. Dentro di me. // 3. Era possente. Avea forza, virtù. // 6. Sgombrar. Sgombrarla. // 8. Poria. Potria. // 9. Agguaglia la speranza col desire. Riducendo in vita colei nella quale era posta tutta la mia speranza. // 10-11. Rendi agli occhi e agli orecchi il lor proprio oggetto, ch’è la vista e l’udito di Laura: dico agli occhi e agli orecchi, e non dico all’anima, perchè, essendo ella di sua natura più forte che i sensi, non ha mestieri che tu le renda il proprio oggetto, cioè il pensiero di Laura, del quale ella non può esser privata. // 15. Il mio primo amor. Accusativo.

 

Fa’ ch’io riveggia il bel guardo, ch’un sole
Fu sopra ’l ghiaccio ond’io solea gir carco;
Fa’ ch’io ti trovi al varco
Onde senza tornar passò ’l mio core;
Prendi i dorati strali e prendi l’arco,
E facciamisi udir, sì come sòle,
Col suon de le parole
Ne le quali io ’mparai che cosa è amore;
Movi la lingua ov’erano a tutt’ore
Disposti gli ami ov’io fui preso, e l’esca
Ch’i’ bramo sempre; e i tuoi lacci nascondi
Fra i capei crespi e biondi,
Chè ’l mio voler altrove non s’invesca;
Spargi con le tue man le chiome al vento,
Ivi mi lega, e puo’ mi far contento.

 

Versi 3-4. Cioè fa’ ch’io ti rivegga in quegli occhi per li quali il mio cuore, rapito dalla loro vista, passò a stare in Laura, donde non è tornato poi mai. // 6. E facciamisi udir. Cioè l’arco. Sòle. Suole. // 13. Il mio voler. Cioè l’affetto, l’animo mio. Invesca. Invischia. // 14. Le chiome. Di Laura. // 15. Puo’ mi. Mi puoi.

Dal laccio d’òr non fia mai chi mi scioglia,
Negletto ad arte, e ’nnanellato ed irto;
Nè dall’ardente spirto
De la sua vista dolcemente acerba,
La qual dì e notte, più che lauro o mirto,
Tenea in me verde l’amorosa voglia,
Quando si veste e spoglia
Di fronde il bosco e la campagna d’erba.
Ma poi che Morte è stata sì superba
Che spezzò ’l nodo ond’io temea scampare;
Nè trovar puoi, quantunque gira il mondo,
Di che ordischi ’l secondo;
Che giova, Amor, tuo’ ingegni ritentare?
Passata è la stagion, perduto ài l’arme
Di ch’io tremava: omai che puoi tu farme?

 

Verso 1. Dal laccio d’òr. Intende dei capelli di Laura. Scioglia. Sciolga. // 2. Dipende da laccio. Irto. Scomposto, ovvero disteso. // 4. Vista. Aspetto. // 7-8. Cioè, in ogni tempo. // 10. Onde. Dal quale. // 11. Quantunque gira il mondo. In quanto è il giro del mondo. In tutto il circuito, lo spazio, del mondo. // 12. Il secondo. Un altro nodo simile a quello. // 13. Tuo’ ingegni. Le tue astuzie. I tuoi accorgimenti. // 15. Di che. Di cui. Farme. Farmi.

L’arme tue furon gli occhi onde l’accese
Saette uscivan d’invisibil foco,
E ragion temean poco,
Chè contra il Ciel non val difesa umana;
Il pensar e ’l tacer, il riso e ’l gioco,
L’abito onesto e ’l ragionar cortese,
Le parole che ’ntese
Avrian fatto gentil d’alma villana;
L’angelica sembianza, umile e piana,
Ch’or quinci or quindi udia tanto lodarsi;
E ’l sedere e lo star, che spesso altrui
Poser in dubbio a cui
Devesse il pregio di più laude darsi.
Con quest’arme vincevi ogni cor duro;
Or se’ tu disarmato, i’ son securo.

 

Verso 4. Contra ’l Ciel. O perchè Laura era cosa celeste, o perchè fosse destinato nel Cielo ch’egli dovesse amarla. [A.] – *Staz.: «Achilli Quid numina contra Tendere fas homini?»* // 5. Il pensar e ’l tacer. L’arme tue furono il pensare e il tacere di Laura. // 6. L’abito. Il portamento. // 8. Avrebbero fatta gentile un’anima che fosse stata villana. // 9. Piana. Dimessa. // 10. Or quinci or quindi. Or di qua or di là. // 11. Lo star. Cioè lo stare in piede. Altrui. La gente. Le persone. Accusativo. // 12. A cui. A qual de’ due. Cioè se al sedere o allo stare. // 13. Devesse. Dovesse. // 15. Se’. Sei.

Gli animi ch’al tuo regno il Cielo inchina
Leghi ora in uno ed ora in altro modo:
Ma me sol ad un nodo
Legar potei; chè ’l Ciel di più non volse.
Quell’uno è rotto; e ’n libertà non godo,
Ma piango, e grido: Ahi nobil pellegrina,
Qual sentenza divina
Me legò innanzi, e te prima disciolse?
Dio, che sì tosto al mondo ti ritolse,
Ne mostrò tanta e sì alta virtute
Solo per infiammar nostro desio.
Certo ormai non tem’io,
Amor, de la tua man nove ferute.
Indarno tendi l’arco, a vòto scocchi:
Sua virtù cadde al chiuder de’ begli occhi.

 

Verso 4. Potei. Potevi. Volse. Volle. // 5. Quell’uno. Suppliscasi nodo. // 6. Ahi nobil pellegrina. Si volge all’anima di Laura. // 8. Legò. Legò al corpo. Fece venire al mondo. Innanzi. Prima di te. Prima. Prima di me. Disciolse. Dal corpo. – *Cic. De Am.: «Mecum autem incommodius factum est quem fuit æquius, ut qui primus introieram in vitam sic prius exirem de vita.»* // 10. Ne. Ci. // 13. Ferute. Ferite. // 15. Sua virtù. La virtù del tuo arco. Cadde. Venne meno. Perì. Chiuder. Chiudersi.

Morte m’à sciolto, Amor, d’ogni tua legge
Quella che fu mia donna, al cielo è gita,
Lasciando trista e libera mia vita.

SONETTO III.

Tentò amore d’invescarlo di nuovo, ma la morte

ne ruppe ’l nodo, e lo rese libero.

L’ardente nodo ov’io fui d’ora in ora,
Contando anni ventuno interi, preso,
Morte disciolse: nè già mai tal peso
Provai; nè credo ch’uom di dolor mora.

Non volendomi Amor perdere ancora,
Ebbe un altro lacciuol fra l’erba teso,
E di nov’esca un altro foco acceso,
Tal ch’a gran pena indi scampato fora.

E se non fosse esperïenza molta
De’ primi affanni, i’ sarei preso ed arso
Tanto più quanto son men verde legno.

Morte m’à liberato un’altra volta,
E rotto ’l nodo, e ’l foco ha spento e sparso;
Contra la qual non val forza nè ingegno.

 

Verso 1. Ardente è qui epiteto inopportuno, od almeno ozioso. Non fa buona lega nè con preso nè con disciolse. Il poeta, per quel che si vede di poi, volle dire quel nodo ov’io fui preso, e tenuto ad ardere ventuno anni intieri. [A.] // 1-2. D’ora in ora, Contando anni ventuno interi, preso. Cioè, stretto per ispazio d’anni ventuno interi, senza interrompimento alcuno, a contarli tutti ora per ora. // 3. Tal peso. Altrettanto dolore. Dolore uguale. // 4. Nè credo ch’uom di dolor mora. Non essendo io morto di un dolor così grande come fu quello. // 5. Non volendomi Amor perdere ancora. Cioè non volendo ancora perdere la signoria di me. // 6-7. Parla di un nuovo amore in cui fu per incorrere dopo la morte di Laura. // 8. Fora. Sarei. // 11. Men verde legno. Cioè men giovane. // 13. E rotto. E ha rotto. Il nodo. Il nuovo lacciuolo teso da Amore, come è detto nel sesto verso. // 14. La qual. Cioè morte.

SONETTO IV.

Morta Laura, il passato, il presente, il futuro,

tutto gli è di tormento e di pena.

La vita fugge e non s’arresta un’ora,
E la morte vien dietro a gran giornate;
E le cose presenti e le passate
Mi danno guerra, e le future ancora;

E ’l rimembrar e l’aspettar m’accora
Or quinci or quindi sì, che ’n veritate,
Se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
I’ sarei già di questi pensier fora.

Tornami avanti s’alcun dolce mai
Ebbe ’l cor tristo; e poi da l’altra parte
Veggio al mio navigar turbati i venti:

Veggio fortuna in porto, e stanco omai
Il mio nocchier, e rotte arbore e sarte,
E i lumi bei che mirar soglio, spenti.

 

Verso 1. Un’ora; nè anche un’ora. [A.] // 7. Se non fosse che ec. [A.) // 8. Cioè: mi sarei già ucciso spontaneamente. Fora sta per fuori. // 9. Dolce. Nome sostantivo. – Se il mio cor tristo ebbe alcun dolce (intendi: Se nella travagliata mia vita ebbi pure una qualche felicità), mi torna avanti nella memoria e mi ci rappresenta. [A.] // 12. Fortuna. Tempesta. // 13. Il mio nocchier. Cioè la ragione. // 14. I lumi bei. Cioè, gli occhi di Laura. – Ma i Lumi continuano la metafora o allegoria del nocchiere e della fortuna; perchè, siccome nella tempesta i naviganti guardano alle stelle per loro salvezza, così egli nella traversia della vita soleva guardare agli occhi di Laura. [A.]

SONETTO V.

Invita la sua anima ad alzarsi a Dio,

ed abbandonar le vanità di quaggiù.

Che fai? che pensi? che pur dietro guardi,
Nel tempo che tornar non pote omai,
Anima sconsolata? che pur vai
Giugnendo legne al foco ove tu ardi?

Le soavi parole e i dolci sguardi,
Ch’ad un ad un descritti e dipinti ài,
Son levati da terra; ed è (ben sai)
Qui ricercargli intempestivo e tardi.

Deh non rinnovellar quel che n’ancide;
Non seguir più pensier vago fallace,
Ma saldo e certo ch’a buon fin ne guide.

Cerchiamo ’l ciel, se qui nulla ne piace;
Chè mal per noi quella beltà si vide,
Se viva e morta ne devea tôr pace.

 

Verso 1. Che pur. Perchè pure. // 2. Pote. Puote. Può. // 3. Che pur. Perchè pure. // 4. Giugnendo. Aggiungendo. – E vuol dire: Pensando sempre con tuo dolore e danno alla perduta Laura. [A.] // 7. Da terra. Da questo mondo. Da questa vita. // 8. Qui ricercargli. Il ricercarli qui in terra. // 9. N’ancide. Ci uccide. Uccide te e me. // 10. Vago. Errante. Instabile. // 11. Ne guide. Ci guidi. // 12. Se. Poichè. Qui. In terra. Ne. Ci. // 13. Quella beltà. Cioè Laura. // 14. Ne dovea tòr. Ci dovea togliere.

SONETTO VI.

Non può mai aver pace co’ suoi pensieri,
e la colpa è del cuore che li ricetta.

 

Datemi pace, o duri miei pensieri:
Non basta ben ch’Amor, Fortuna e Morte
Mi fanno guerra intorno e ’n su le porte,
Senza trovarmi dentro altri guerrieri?

E tu, mio cor, ancor se’ pur qual eri,
Disleale a me sol; che fere scorte
Vai ricettando, e sei fatto consorte
De’ miei nemici sì pronti e leggieri.

In te i secreti suoi messaggi Amore,
In te spiega Fortuna ogni sua pompa,
E Morte la memoria di quel colpo

Che l’avanzo di me convèn che rompa;
In te i vaghi pensier s’arman d’errore:
Per che d’ogni mio mal te solo incolpo.

 

Versi 2-4. Non basta che io, coma una rôcca assediata, sia combattuto dintorno, e fin sulle porte medesime, dall’amore, dalla fortuna e dalla morte, senza ch’io abbia a trovare anche dentro di me altri guerrieri che mi combattano, cioè a dir voi, o duri miei pensieri? // 6-7. Disleale. Infido. Chè. Perocchè. Fere scorte Vai ricettando. Cioè vai dando ricetto a genti del campo inimico. Fatto. Divenuto. Consorte. Confederato. Complice. // 8. Leggieri. Spediti, solleciti, a farmi male. // 9. I secreti suoi messaggi. Vuol dire i sentimenti, gli stimoli, le immaginazioni amorose, e cose tali. // 10. Ogni sua pompa. Cioè ogni suo tristo e crudele effetto. // 11. Di quel colpo. Intende di quel colpo che uccise Laura. // 12. L’avanzo di me. Quel che resta di me ora che, per la morte di Laura, la mia miglior parte è venuta meno. // 13. I vaghi pensier. I miei vaghi, cioè instabili, irrequieti, pensieri. // 14. Per che. Sicchè. Laonde.

SONETTO VII.

Rimproverato a torto da’ suoi sensi,

cerca d’acquetarli co’ pensieri del Cielo.

Occhi miei, oscurato è ’l nostro sole;
Anzi è salito al cielo, ed ivi splende;
Ivi ’l vedremo ancor, ivi n’attende,
E di nostro tardar forse li dole.

Orecchie mie, l’angeliche parole
Suonano in parte ov’è chi meglio intende.
Piè miei, vostra ragion là non si stende
Ov’è colei ch’esercitar vi sòle.

Dunque perchè mi date questa guerra?
Già di perder a voi cagion non fui
Vederla, udirla e ritrovarla in terra.

Morte biasmate; anzi laudate lui
Che lega e scioglie e ’n un punto apre e serra,
E dopo ’l pianto sa far lieto altrui.

 

Verso 3. N’attende. Ci attende. // 4. Li dole. Gli duole. // 5. L’angeliche parole. Di Laura. // 6. In parte. In un luogo. – E vuol dire in Cielo, in Paradiso. [A.] – Meglio. Meglio di voi e di me. // 7-8. Vostra ragion là non si stende Ov’è colei. Cioè: voi non avete facoltà di andar fin là dove è colei. Ch’esercitar vi sòle. Che suol farvi andare e correre attorno, cioè per cercarla. // 9. Parla in comune agli occhi, agli orecchi e a’ piedi. // 10-11. Non fui già io quello che feci perdere, che tolsi, a voi, occhi, la facoltà di vederla, a voi, orecchi, di udirla; a voi, piedi, di ritrovarla quaggiù in terra. // 12. Lui. Cioè Dio. // 14. Altrui. Gli uomini.

SONETTO VIII.

Perduto l’unico rimedio ai mali di questa vita,

desidera sol di morire.

 

Poi che la vista angelica serena,

Per subita partenza, in gran dolore
Lasciato à l’alma e ’n tenebroso orrore,
Cerco, parlando, d’allentar mia pena.

Giusto duol certo a lamentar mi mena:
Sassel chi n’è cagion, e sallo Amore;
Ch’altro rimedio non avea ’l mio core
Contra i fastidi onde la vita è piena.

Quest’un, Morte, m’à tolto la tua mano:
E tu che copri e guardi ed ài or teco,
Felice terra, quel bel viso umano;

Me dove lasci, sconsolato e cieco,
Poscia che ’l dolce ed amoroso e piano
Lume degli occhi miei non è più meco?

 

Verso 4. Allentar. Mitigare. // 5. Certo. Certamente. // 6. Sassel. Sel sa. Lo sa. // 7. Altro rimedio. Cioè altro rimedio che la vista, il colloquio, l’amore, il pensiero di Laura viva. // 8. Onde. Di cui. // 9. Quest’un. Quest’un rimedio. // 13. Piano. Umile. Mansueto. – *Salm.: «Lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum.»*

SONETTO IX.

Non ha più speranza di rivederla; e però

si conforta coll’immaginarsela in cielo.

S’amor novo consiglio non n’apporta,
Per forza converrà che il viver cange;
Tanta paura e duol l’alma trista ange,
Che ’l desir vive e la speranza è morta:

Onde si sbigottisce e si sconforta
Mia vita in tutto, e notte e giorno piange,
Stanca, senza governo in mar che frange,
E ’n dubbia via senza fidata scorta.

Immaginata guida la conduce;
Chè la vera è sotterra, anzi è nel cielo,
Onde più che mai chiara al cor traluce;

Agli occhi no, chè un doloroso velo
Contende lor la desïata luce,
E me fa sì per tempo cangiar pelo.

 

Verso 2. Che ’l viver cange. Ch’io cangi il vivere. Ch’io cangi la vita colla morte. Ch’io muoia. // 3. Ange. Affanna. Travaglia. // 6. In tutto. Del tutto. Affatto. // 7. Che frange. Che si frange. Agitato. Turbato. // 8. Fidata. Fida. Sicura. // 9. Immaginata guida. Cioè l’immagine, il pensiero, di Laura. // 10. La vera. La vera guida cioè Laura stessa. // 11. Onde. D’onde, da dove. [A.] // 13. Contende lor. Impedisce loro di vedere. Toglie loro. // 14. Sì per tempo. Sì presto. Cangiar pelo. Cioè incanutire.

SONETTO X.

Brama morir senza indugio, onde seguirla

coll’anima, come fa col pensiero.

Ne l’età sua più bella e più fiorita,
Quand’aver suole Amore in noi più forza,
Lasciando in terra la terrena scorza,
È Laura mia vital da me partita,

E viva e bella e nuda al ciel salita,
Indi mi signoreggia, indi mi sforza.
Deh perchè me del mio mortal non scorza
L’ultimo dì, ch’è primo a l’altra vita?

Chè come i miei pensier dietro a lei vanno,
Così leve, espedita e lieta l’alma
La segua, ed io sia fuor di tanto affanno.

Ciò che s’indugia è proprio per mio danno,
Per far me stesso a me più grave salma.
O, che bel morir era oggi è terz’anno!

 

Verso 2. Quando. Nella quale età. // 4. Mia vital. È come dire: vita mia. // 5. Nuda. Cioè spogliata del corpo. // 7-8. Perchè me del mio mortal non scorza L’ultimo dì? Perchè l’ultimo dì non mi scorza, cioè spoglia, del mio mortale, cioè della mia parte mortale, della mia carne? // 9. Chè. Sicchè. Di modo che. // 12. Ciò che s’indugia. Cioè il tempo che la morte indugia a venire. Proprio. Propriamente. Veramente. // 13. Per farmi più grave a me stesso. Salma. Vale soma, carico. – *Ovid.: «Me mihi ferre grave est.»* // 14. O che bel morir era. Oh che bel morire avrei fatto se fossi morto. Oggi è terz’anno. Oggi ha tre anni. Oggi si compie il terzo anno. Potrebbe anche significare: oggi entra, incomincia, il terz’anno; che sarebbe quanto dire: oggi ha due anni.

SONETTO XI.

Dovunque si trovi, gli par di vederla, e quasi

di sentirla parlare.

 

Se lamentare augelli, o verdi fronde
Mover soavemente a l’aura estiva,
O roco mormorar di lucide onde
S’ode d’una fiorita e fresca riva,

Là ’v’io seggia d’amor pensoso, e scriva,
Lei che ’l Ciel ne mostrò, terra n’asconde,
Veggio ed odo ed intendo, ch’ancor viva
Di sì lontano a’ sospir miei risponde.

Deh perchè innanzi tempo ti consume?
Mi dice con pietate: a che pur versi
Degli occhi tristi un doloroso fiume?

Di me non pianger tu: ch’e’ miei dì fersi,
Morendo, eterni; e ne l’eterno lume,
Quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi.

 

Verso 1. Lamentare. Lamentarsi. // 2. Mover. Muoversi. // 4. D’una. Da una. – *Virg. Geor.: «Ecce supercilio clivosi tramitis undam Elicit: illa cadens raucum per levia murmur saxa ciet.» // 5. Là ’v’io. Dove, in sulla qual riva, io. Seggia. Sieda. // 6. Che. Accusativo. Ne. Ci. // 9. Innanzi tempo. Prima del tempo. Consume. Consumi. // 12. E’ miei dì. I miei dì. Cioè la mia vita. Fersi. Si fecero. Divennero. // 13-14. E nell’eterno lume, Quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi. Ed apersi gli occhi nell’eterno lume quando mostrai di chiuderli, cioè quando parve che io li chiudessi.

SONETTO XII.

Rammenta in solitudine
gli antichi suoi lacci d’amore, e sprezza i novelli.

Mai non fu’ in parte ove sì chiar vedessi
Quel che veder vorrei, poi ch’io nol vidi;
Nè dove in tanta libertà mi stessi,
Nè ’mpiessi ’l ciel di sì amorosi stridi;

Nè giammai vidi valle aver sì spessi
Luoghi da sospirar riposti e fidi;
Nè credo già ch’Amor in Cipro avessi,
O in altra riva, sì soavi nidi.

L’acque parlan d’amore e l’ôra e i rami
E gli augelletti e i pesci e i fiori e l’erba,
Tutti insieme pregando ch’i’ sempre ami.

Ma tu, ben nata, che dal ciel mi chiami,
Per la memoria di tua morte acerba
Preghi ch’i’ sprezzi ’l mondo e suoi dolci ami.

 

Composto, a quel che pare, in Valchiusa.

Verso 1. Fu’. Fui. In parte. In luogo. Chiar. Chiaro. Vedessi. Colla immaginativa. // 2. Quel che veder vorrei. Cioè Laura. Poi che. Da che. Dipende, non dal mezzo verso precedente, ma dal verso di sopra. – Dunque: Da che io non vidi più Laura, a cagione dell’esser lei morta, non fui mai in parte, dove la vedessi colla imaginativa sì chiaro. [A.] // 6. Riposti. Nascosti. Segreti. // 7. Avessi. Avesse. // 8. Riva. È detto per paese in genere. // 9. Òra. Aura. // 11. Pregando. Pregandomi. // 14. Preghi. Mi preghi. – E suoi dolci ami; e le sue lusinghe. [A.]

SONETTO XIII.

Videla in Valchiusa sotto varie figure,

ed in atto di compassione verso di lui.

Quante fïate al mio dolce ricetto,
Fuggendo altrui, e, s’esser può, me stesso,
Vo con gli occhi bagnando l’erba e ’l petto,
Rompendo co’ sospir l’aere da presso!

Quante fïate sol, pien di sospetto,
Per luoghi ombrosi e foschi mi son messo,
Cercando col pensier l’alto diletto,
Che Morte à tolto, ond’io la chiamo spesso!

Or in forma di ninfa o d’altra diva,
Che del più chiaro fondo di Sorga esca,
E pongasi a seder in su la riva;

Or l’ò veduta su per l’erba fresca
Calcar i fior com’una donna viva,
Mostrando in vista che di me le ’ncresca.

 

Composto pure in Valchiusa.

Verso 1. Al mio dolce ricetto. Intende, credo io, di quel luogo già frequentato da Laura, di cui parla nella prima Parte, Canzone undecima, e altrove. // 2. Oraz.: «Patriæ quis exul se quoque fugit.»* // 4. L’aere da presso. L’aria vicina. // 7. L’alto diletto. Vuol dir Laura. // 8. La chiamo. Cioè chiamo, invoco, la morte. // 9. Or. Suppliscasi: l’ho veduta, parole che stanno più sotto nel duodecimo verso. // 12. Su. Particella che ridonda elegantemente. // 14. In vista. Nell’aspetto. Che di me le ’ncresca. Di aver compassione di me.

SONETTO XIV.

La ringrazia che di quando in quando

torni a racconsolarlo colla sua presenza.

Alma felice, che sovente torni
A consolar le mie notti dolenti
Con gli occhi tuoi, che Morte non à spenti,
Ma sovra ’l mortal modo fatti adorni;

Quanto gradisco ch’e’ miei tristi giorni
A rallegrar di tua vista consenti!
Così incomincio a ritrovar presenti
Le tue bellezze a’ suoi usati soggiorni.

Là ’ve cantando andai di te molt’anni,
Or, come vedi, vo di te piangendo;
Di te piangendo no, ma de’ miei danni.

Sol un riposo trovo in molti affanni;
Chè, quando torni, ti conosco e ’ntendo
A l’andar, a la voce, al volto, a’ panni.

 

Verso 4. Sovra ’l mortal modo. In modo più che mortale. Di bellezza superiore alla mortale. Fatti. Ha fatti. // 5. E’. I. – Tristi giorni, per trista vita. [A.] // 8. A’ suoi usati soggiorni. Cioè, in quei luoghi dove io ti solea veder viva. Suoi sta per loro, e si riferisce a bellezze. // 9. Là ’ve. Dove. Nei quali soggiorni.

SONETTO XV.

I pietosi apparimenti di Laura

gli danno un soccorso nel suo dolore.

Discolorato ài, Morte, il più bel volto
Che mai si vide, e i più begli occhi spenti;
Spirto più acceso di virtuti ardenti,
Del più leggiadro e più bel nodo ài sciolto.

In un momento ogni mio ben m’ài tolto:
Posto ài silenzio a’ più soavi accenti
Che mai s’udiro; e me pien di lamenti.
Quant’io veggio m’è noia e quant’io ascolto.

Ben torna a consolar tanto dolore
Madonna, ove pietà la riconduce:
Nè trovo in questa vita altro soccorso.

E se com’ella parla e come luce
Ridir potessi, accenderei d’amore,
Non dirò d’uom, un cor di tigre o d’orso.

 

Verso 2. Spenti. Hai spenti. // 5. Spirto più acceso. Lo spirito il più acceso. // 4. Del più leggiadro e più bel nodo. Cioè dal suo legame corporeo. // 7. Pien. Hai pieno, cioè empiuto. // 9. Ben. È ben vero che. // 12. Luce. Verbo. Splende. // 14. Un cuore, non dico d’uomo, ma eziandio di tigre o d’orso.

SONETTO XVI.

Gode di averla presente col pensiero:

ma trova poi scarso un tale conforto.

Sì breve è ’l tempo e ’l pensier sì veloce
Che mi rendon Madonna così morta,
Ch’al gran dolor la medicina è corta;
Pur, mentr’io veggio lei, nulla mi noce.

Amor, che m’à legato e tienmi in croce,
Trema quando la vede in su la porta
De l’alma, ove m’ancide ancor sì scorta,
Sì dolce in vista e sì soave in voce.

Come donna in suo albergo, altera vène,
Scacciando de l’oscuro e grave core
Con la fronte serena i pensier tristi.

L’alma, che tanta luce non sostène,
Sospira, e dice: o benedette l’ore
Del dì che questa via con gli occhi apristi!

 

Versi 1-4. Sì breve è quel tempo nel quale io, per virtù della immaginativa, riveggo la donna mia benchè morta, e quel pensiero che me la rappresenta dinanzi è così fugace, che questo sì fatto rimedio è scarso al mio gran dolore. Così sta per benchè, come in molti luoghi di molti scrittori antichi, e in alcuni altri dello stesso Petrarca. – Nulla mi noce. Non sento verun dolore od incomodo nè della persona nè dell’anima. [A.] // 6. Trema. Si scuote, si commuove tutto, per la dolcezza, la tenerezza, e simili. // 7. Ancide. Uccide. Scorta. Accorta. // 9. Come donna in suo albergo. Come una padrona verrebbe a un suo proprio albergo. Vène. Viene. // 10. De l’oscuro. Dall’oscuro. Core. Cuor mio. // 12. L’alma. L’alma mia. Tanta luce non sostène. Non può reggere a tanta luce. Sostène sta per sostiene. // 14. Questa via con gli occhi apristi. Mirando costui, cioè il Poeta, e introducendogli nel pensiero la tua sembianza, ti apristi la via di tornargli, come ora fai, nella immaginazione.

SONETTO XVII.

Scend’ella dal cielo per consigliarlo alla virtù,

e levar tosto l’anima a Dio.

Nè mai pietosa madre al caro figlio,
Nè donna accesa al suo sposo diletto
Diè con tanti sospir, con tal sospetto
In dubbio stato sì fedel consiglio;

Come a me quella che ’l mio grave esiglio
Mirando dal suo eterno alto ricetto,
Spesso a me torna con l’usato affetto;
E di doppia pietate ornata il ciglio,

Or di madre or d’amante: or teme or arde
D’onesto foco; e nel parlar mi mostra
Quel che ’n questo vïaggio fugga o segua,

Contando i casi de la vita nostra,
Pregando ch’a levar l’alma non tarde:
E sol quant’ella parla ò pace o tregua.

 

Verso 3. Sospetto. Cioè timor di male che potesse avvenire al figlio o allo sposo. // 5. Grave esiglio. Chiama il soggiorno su questa terra, dopo la morte di Laura. [A.] // 7. Usato. Consueto. Solito. // 11. In questo viaggio. In questa vita. Fugga o segua. Io debba fuggire o cercare. // 13. Pregando. Pregandomi. Levar. Innalzare a Dio. Non tarde. Io non tardi. // 14. Quanto. Mentre. Intanto che. Finchè.

SONETTO XVIII.

Torna pietosa a riconfortarlo co’ suoi consigli;

ed ei non può non piegarvisi.

Se quella aura soave de’ sospiri
Ch’i’ odo di colei che qui fu mia
Donna, or è in cielo, ed ancor par qui sia,
E viva e senta e vada ed ami e spiri,

Ritrar potessi; o che caldi desiri
Movrei parlando! sì gelosa e pia
Torna ov’io son, temendo non fra via
Mi stanchi, ’n dietro o da man manca giri.

Ir dritto alto m’insegna: ed io che ’ntendo
Le sue caste lusinghe e i giusti preghi
Col dolce mormorar pietoso e basso,

Secondo lei convèn mi regga e pieghi,
Per la dolcezza che del suo dir prendo,
Ch’avria vertù di far piangere un sasso.

 

Verso 3. Donna. Signora. Par qui sia. Par che sia qui, cioè in terra. // 5. Ritrar. Esprimere con parole. // 6. Movrei. Moverei. Cioè in chi mi ascoltasse. Gelosa. Paurosa del mio male. Pia. Pietosa. // 7-8. Non fra via Mi stanchi. Che io non mi stanchi per via. // 9. Leopardi poneva una virgola dopo dritto, e spiegava: M’insegna di andar diritto e all’alto. A noi piace la lezione del sig. Carrer che non ha quella virgola; e spieghiamo: ir drittamente all’alto, cioè tendere alle celesti cose senza voltarsi nè d’una parte nè d’altra. [L.] – Intendo. Odo. Ascolto. // 11. Col dolce. E il suo dolce. // 12. Secondo lei. A suo modo. Secondo gl’insegnamenti suoi. Convèn. Conviene, è forza, che. Mi regga e pieghi. Cioè mi governi e proceda. // 13. La dolcezza. Il piacere. Prendo. Ricevo. // 14. Avria vertù. Avrebbe forza. – *Cic. De Or.: «Lapides omnes fiere ac lamentari coegisset.»*

SONETTO XIX.

Morto Sennuccio, lo prega di far sapere a Laura

l’infelicità del suo stato.

Sennuccio mio, ben che doglioso e solo
M’abbi lasciato, i’ pur mi riconforto,
Perchè del corpo, ov’eri preso e morto,
Alteramente se’ levato a volo.

Or vedi insieme l’uno e l’altro polo,
Le stelle vaghe e lor vïaggio torto;
E vedi ’l veder nostro quanto è corto:
Onde col tuo gioir tempro ’l mio duolo.

Ma ben ti prego che ’n la terza spera
Guitton saluti e messer Cino e Dante,
Franceschin nostro, e tutta quella schiera.

A la mia donna puoi ben dire in quante
Lagrime i’ vivo; e son fatto una fera,
Membrando ’l suo bel viso e l’opre sante.

 

Verso 3. Del. Dal. Preso. Prigioniero. – Secondo la dottrina di Platone che il corpo sia carcere dell’anima. [A.] – Morto. Dà ad intendere che quel che si chiama vita, è più veramente una morte. // 4. Se’ levato. Ti sei levato, cioe alzato. // 6. Vaghe. Erranti. // 7. E vedi ec. Lucan.: «Vidit quanta sub nocte jaceret Nostra dies.»* // 3. Col tuo gioir. Col pensiero de’ tuoi godimenti. // 9. In la terza spera. Nella sfera dì Venere, pianeta degli amanti. // 11. Franceschin. Franceschino Del Bene.* – Quella schiera. Delle anime amorose. // 13. Fatto. Diventato. Una fera. Un animale salvatico. // 14. Membrando. Rimembrando. E l’opre. E le sue opere. – Intendi: son fatto simile a un animale salvatico, non già membrando (cioè a forza di rimembranze) il suo bel viso e le sante sue opere, ma bensì col fuggir la compagnia degli uomini per desiderio di vivere unicamente membrando ec. [A.]

SONETTO XX.

Mirando là dov’ella nacque e morì, va sfogando

co’ sospiri l’acerba sua pena.

I’ ò pien di sospir quest’aer tutto,
D’aspri colli mirando il dolce piano
Ove nacque colei ch’avendo in mano
Mio cor in sul fiorire e ’n sul far frutto,

È gita al cielo, ed àmmi a tal condutto
Col subito partir, che di lontano
Gli occhi miei stanchi lei cercando in vano,
Presso di sè non lassan loco asciutto.

Non è sterpo nè sasso in questi monti,
Non ramo o fronda verde in queste piagge,
Non fior in queste valli o foglia d’erba;

Stilla d’acqua non vien di queste fonti,
Nè fiere àn questi boschi sì selvagge,
Che non sappian quant’è mia pena acerba.

 

Verso 1. Pien. Empiuto. // 2. D’aspri colli. Da aspri colli. Dalle cime, dalle alture, di aspri colli. // 4. In sul fiorire e ’n sul far frutto. Cioè nella età giovanile e nella matura. // 5: Ed àmmi a tal condutto. E mi ha condotto a tale, cioè in tale stato. // 6. Subito. Repentino. Partir. Cioè morire. Suppliscasi suo. Che. Dipende, dalla voce tale. Di lontano. Cioè da questo mondo. // 8. Lassan. Lasciano. // 13. Fiere. Accusativo.

SONETTO XXI.

Adesso e’ conosce quant’ella era saggia

nel dimostrarsi severa verso di lui.

L’alma mia fiamma oltra le belle bella,
Ch’ebbe qui ’l Ciel sì amico e sì cortese,
Anzi tempo per me nel suo paese
È ritornata ed a la par sua stella

Or comincio a svegliarmi, e veggio ch’ella
Per lo migliore al mio desir contese,
E quelle voglie giovenili accese
Temprò con una vista dolce e fella.

Lei ne ringrazio e ’l suo alto consiglio,
Che col bel viso e co’ soavi sdegni
Fecemi, ardendo, pensar mia salute.

O leggiadre arti e lor effetti degni:
L’un con la lingua oprar, l’altra col ciglio,
Io gloria in lei ed ella in me virtute!

 

Verso 1. Oltre. Più che. Fra. // 2. Qui. In terra. // 3. Anzi tempo per me. Cioè troppo presto per me. Nel suo paese. Cioè nel cielo. // 4. A la par sua stella. Alla stella sua pari. Segue un’opinione dei Platonici. Vuol dire al pianeta di Venere. – *Cic. De univ.: «Qui recte et honeste curriculum vivendi a natura datum confecerit, ad illud astrum, quocum aptus fuerit, revertitur.»* // 6. Contese. Contrastò. Resistette. // 7. Quelle voglie. Quelle mie voglie. // 8. Una vista. Un aspetto. Dolce e fella. Or benigna or aspra. // 9. Consiglio. Provvedimento. // 11. Ardendo. Ardendo io. Bench’io ardessi d’amore. Mia salute. Alla mia salute. // 13-14. Questi effetti sono, che io acquistai gloria a lei, ed ella produsse virtù in me; l’uno, cioè io, colla lingua; l’altra, cioè Laura, cogli occhi.

SONETTO XXII.

Chiamava crudele quella che guidavalo alla virtù.

Si pente, e la ringrazia.

Come va ’l mondo! or mi diletta e piace
Quel che più mi dispiacque; or veggio e sento
Che per aver salute ebbi tormento,
E breve guerra per eterna pace.

O speranza, o desir sempre fallace,
E degli amanti più ben per un cento!
O quant’era ’l peggior farmi contento
Quella ch’or siede in cielo e ’n terra giace!

Ma ’l cieco Amore e la mia sorda mente
Mi travïavan sì, ch’andar per viva
Forza mi convenia dove morte era.

Benedetta colei ch’a miglior riva
Volse ’l mio corso, e l’empia voglia ardente,
Lusingando, affrenò, perch’io non pèra.

 

Verso 2. Quel che più mi dispiacque. Cioè il rigore usatomi da Laura in sua vita. // 6. E cento volte, a cento doppi, più fallace che mai, la speranza e il desiderio degli amanti! // 7. Quant’era ’l peggior. Quanto peggio sarebbe stato. Farmi contento. Se mi avesse fatto contento, cioè avesse soddisfatto, compiaciuto, a’ miei desiderii. // 10-11. Andar dove morte era. Cioè cercar quello che avrebbe dato morte all’anima mia. // 12. Riva. Termine. // 13. L’empia voglia. L’empia mia voglia.

SONETTO XXIII.

Tristo ’l dì e la notte, in sull’aurora
gli par di vederla, e gli si doppia la pena.

Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora
Con la fronte di rose e co’ crin d’oro,
Amor m’assale; ond’io mi discoloro,
E dico sospirando: ivi è Laura ora.

O felice Titon! tu sai ben l’ora
Da ricovrare il tuo caro tesoro;
Ma io che debbo far del dolce alloro?
Che se ’l vo’ riveder convèn ch’io mora.

I vostri dipartir non son sì duri:
Ch’almen di notte suol tornar colei
Che non à a schifo le tue bianche chiome:

Le mie notti fa triste e i giorni oscuri
Quella che n’à portato i penser miei
Nè di sè m’à lasciato altro che ’l nome.

 

Verso 4. Ivi. Cioè in cielo. // 6. Da ricovrare. Da ricuperare. Nella quale ricupererai. Il tuo caro tesoro. Cioè la tua donna, che è l’Aurora. // 7. Del dolce alloro. Vuol dir di Laura. // 8. Vo’. Voglio. Convèn. Conviene. // 9. I vostri dipartir. Le vostre separazioni. Cioè di te e dell’Aurora. // 13. N’à portato. Si ha portato seco. Penser. Pensieri. // 14. Virg.: «Hoc solum nomen quoniam de conjuge restat.»*

SONETTO XXIV.

Mette fine a parlare di quelle grazie

e di quelle bellezze che già non son più.

Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente,
E le braccia e le mani e i piedi e ’l viso
Che m’avean sì da me stesso diviso
E fatto singular da l’altra gente;

Le crespe chiome d’òr puro lucente,
E ’l lampeggiar dell’angelico riso
Che solean far in terra un paradiso,
Poca polvere son, che nulla sente.

Ed io pur vivo: onde mi doglio e sdegno,
Rimaso senza ’l lume ch’amai tanto,
In gran fortuna e ’n disarmato legno.

Or sia qui fine al mio amoroso canto:
Secca è la vena de l’usato ingegno,
E la cetera mia rivolta in pianto.

 

Verso 1. Di che. Di cui. // 3. . Sì fattamente. Da me stesso diviso. Rapito a me stesso. Tratto fuor di me stesso. // 11. In gran fortuna. In gran tempesta. // 13. Usato ingegno. Consueto ingegno. // 14. Giobbe: «Versa est in luctum cithara mea.»*

SONETTO XXV.

Tardi conosce quanto piacessero le sue rime

d’amore. Vorria più limarle, e nol può.

S’io avessi pensato che sì care
Fossin le voci de’ sospir miei in rima,
Fatte l’avrei dal sospirar mio prima
In numero più spesse, in stil più rare.

Morta colei che mi facea parlare,
E che si stava de’ pensier miei in cima,
Non posso (e non ò più sì dolce lima)
Rime aspre e fosche far soavi e chiare.

E certo ogni mio studio in quel tempo era
Pur di sfogare il doloroso core
In qualche modo, non d’acquistar fama.

Pianger cercai, non già del pianto onore.
Or vorrei ben piacer; ma quella altera,
Tacito, stanco, dopo sè mi chiama.

Versi 1-4. Se io avessi creduto che le voci de’ miei sospiri in rima, cioè queste mie rime amorose, fossero per essere nell’universale così gradite, io le avrei fatte insin da principio più spesse di numero e più rare di stile, cioè ne avrei scritta più quantità, e postovi più studio e più arte. // 10. Pur. Solamente. // 12. Non già del pianto onore. Non già di ritrarre onore e celebrità dal mio pianto. – *Proper.: «Nec tantum ingenio, quantum servire dolori.»* // 13. Quella altera. Cioè Laura. Altera sta per nobile, alta e simili. // 14. Dopo sè. Dietro a sè. A seguitarla.

SONETTO XXVI.

Morta Laura, ei perdette ogni bene,

e nulla più gli avanza, che sospirare.

Soleasi nel mio cor star bella e viva,
Com’alta donna in loco umile e basso:
Or son fatt’io, per l’ultimo suo passo,
Non pur mortal ma morto; ed ella è diva.

L’alma d’ogni suo ben spogliata e priva,
Amor de la sua luce ignudo e casso
Devrian de la pietà rompere un sasso:
Ma non è chi lor duol riconti o scriva;

Chè piangon dentro, ov’ogni orecchia è sorda,
Se non la mia, cui tanta doglia ingombra,
Ch’altro che sospirar, nulla m’avanza.

Veramente siam noi polvere ed ombra;
Veramente la voglia è cieca e ’ngorda;
Veramente fallace è la speranza.

Verso 3. Son fatt’io. Io son divenuto. Per l’ultimo suo passo. Per la sua morte. // 4. Non pur. Non solo. // 5. L’alma. L’alma mia. // 6. Casso. Cioè privo. // 7. Devrian. Dovriano. De la. Per la. // 8. Non è chi. Non ci ha niuno che. Riconti. Racconti. // 9-10. Chè. Perocchè. Dentro. Cioè dentro di me. Ov’ogni orecchia è sorda, Se non la mia, cui. Dove non possono essere uditi da alcuno, se non da me, il quale. // 11. Che non mi resta niente altro che sospirare, e però non posso nè raccontare nè scrivere il lor duolo. // 12. Oraz.: «Pulvis et umbra sumus.»* // 13. La voglia. L’appetito umano.

SONETTO XXVII.

S’egli non pensava che a lei, spera ch’or essa

volgerà lo sguardo verso di lui.

Soleano i miei pensier soavemente
Di lor obbietto ragionar insieme:
Pietà s’appressa, e del tardar si pente:
Forse or parla di noi o spera o teme.

Poi che l’ultimo giorno e l’ore estreme
Spogliàr di lei questa vita presente,
Nostro stato dal ciel vede, ode e sente:
Altra di lei non è rimaso speme.

O miracol gentile! o felice alma!
O beltà senza esempio altera e rara,
Che tosto è ritornata ond’ella uscio!

Ivi à del suo ben far corona e palma
Quella ch’al mondo sì famosa e chiara
Fe la sua gran virtute e ’l furor mio.

Verso 1. Soleano. Al tempo che Laura era in vita. // 3. E solevano dire: Laura è per muoversi a pietà, e si pente di essersi indugiata fino a ora ad usarla. // 6. Cioè privarono di lei questo mondo, la tolsero a questa vita. // 7. Nostro stato. Il mio stato. // 8. Altra. Altra che questa, cioè ch’ella veda, oda e senta il mio stato. Non è rimaso. Non mi è rimasta. Credo che il Poeta scrivesse: non n’è rimaso. // 11. Ond’ella uscio. Colà ond’ella uscì. Cioè al cielo. // 12. Del suo ben far corona e palma. Premio del suo bene operare, delle sue buone opere. // 13. Che. Accusativo. // 14. Fe. Fece. Furor. Insania amorosa. Amor veementissimo.

SONETTO XXVIII.

Doleasi a torto d’amarla; ed ora è pur contento

di morire infelice per lei.

I’ mi soglio accusare; ed or mi scuso,
Anzi mi pregio, e tengo assai più caro
De l’onesta prigion, del dolce amaro
Colpo ch’i’ portai già molt’anni chiuso.

Invide Parche, se repente il fuso
Troncaste ch’attorcea soave e chiaro
Stame al mio laccio, e quell’aurato e raro
Strale onde morte piacque oltra nostr’uso!

Chè non fu d’allegrezza a’ suoi dì mai,
Di libertà, di vita alma sì vaga,
Che non cangiasse ’l suo natural modo,

Togliendo anzi per lei sempre trar guai,
Che cantar per qualunque; e di tal piaga
Morir contenta, e vivere in tal nodo.

Verso 1. I’ mi soglio accusare. Io soglio dir male di me, e riprendermi della mia passione. // 2. E tengo. E mi tengo. Più caro. Più caro che non mi terrei altrimenti. // 3-4. De l’onesta prigion. Per l’onorata prigione ov’io fui. Del dolce amaro Colpo. Cioè della mia piaga amorosa. Chiuso. Celato. // 7-8. Al mio laccio. Al mio legame. Vuol dire a Laura. E quell’aurato e raro Strale. Vuol dir medesimamente Laura. Suppliscasi troncaste, cioè spezzaste. Onde morte piacque oltra nostr’uso. Vuol dire: in cui, fuor dell’uso naturale, la morte parve bella ed amabile. // 9-14. Mi scuso, dico, della mia passione amorosa, anzi me ne pregio, perocchè non ci fu mai anima così vaga, cioè cupida, a’ suoi dì, cioè al tempo ch’ella visse, di allegrezza, di libertà e di vita, che, conosciuta Laura, non avesse cangiato natura e costume, eleggendosi di sempre trar guai, cioè piangere e sospirare, per lei, piuttosto che cantare, cioè vivere in allegrezza, per qualunque altra; e di menar la vita in tal nodo, cioè nell’amor di Laura, e di questo amore morir volentieri.

SONETTO XXIX.

Farà immortale quella donna in cui l’Onestà

e la Bellezza si stavano in pace.

Due gran nemiche insieme eran aggiunte,
Bellezza ed Onestà, con pace tanta
Che mai rebellïon l’anima santa
Non sentì poi ch’a star seco fur giunte;

Ed or per morte son sparse e disgiunte:
L’una è nel ciel, che se ne gloria e vanta;
L’altra sotterra, ch’e’ begli occhi ammanta
Ond’uscîr già tante amorose punte.

L’atto soave, e ’l parlar saggio umìle,
Che movea d’alto loco, e ’l dolce sguardo,
Che piagava ’l mio core (ancor l’accenna),

Sono spariti: e s’al seguir son tardo,
Forse avverrà che ’l bel nome gentile
Consacrerò con questa stanca penna.

Verso 1. Erano. Si erano. Aggiunte. Congiunte. // 2. Con pace tanta. Con tanta concordia scambievole. – *Gioven.: «Rara est adeo concordia formæ, Atque pudicitiæ.»* // 3. Rebellïon. Accusativo. // 4. Poi che. Da che. Da poi che. // 6. L’una. Cioè Onestà. // 7. L’altra. Cioè Bellezza. Sotterra, che. Sotto terra, la quale. E’. I. Ammanta. Cuopre. // 8. Onde. Dai quali occhi. Punte. Saette. // 10. Che movea d’alto loco. Cioè che procedeva da alto intelletto. // 11. Ancor l’accenna. Il qual core porta ancora i segni di quelle piaghe. // 12. S’al seguir son tardo. Se io tarderò a seguirli. Cioè: se avrò ancora spazio di vita. // 14. Consacrerò. Renderò sacro e immortale.

SONETTO XXX.

Riandando la sua vita passata, si riscuote,

e conosce la propria miseria.

Quand’io mi volgo indietro a mirar gli anni
Ch’ànno, fuggendo, i miei pensieri sparsi,
E spento ’l fuoco ov’agghiacciando i’ arsi,
E finito il riposo pien d’affanni;

Rotta la fè degli amorosi inganni;
E sol due parti d’ogni mio ben farsi,
L’una nel cielo e l’altra in terra starsi;
E perduto il guadagno de’ miei danni;

I’ mi riscuoto, e trovomi sì nudo
Ch’i’ porto invidia ad ogni estrema sorte:
Tal cordoglio e paura ò di me stesso.

O mia stella, o fortuna, o fato, o morte,
O per me sempre dolce giorno e crudo,
Come m’avete in basso stato messo!

Verso 2. Ànno I miei pensieri sparsi. Hanno dissipato, sparse al vento, le mie cure e le mie speranze. // 5. Suppliscasi: quando io mi volgo indietro a mirare. Rotta la fè degli amorosi inganni. Cioè dileguate le mie illusioni amorose. // 7. L’una. Cioè l’anima di Laura. L’altra. Il corpo di Laura. // 8. Il guadagno de’ miei danni. Il frutto delle mie pene amorose. // 9. Mi riscuoto. Mi commuovo tutto. Sì nudo. Cioè d’ogni bene. // 10. Che ogni più misero stato mi par da anteporre al mio. // 11. Di. Cioè per. // 13. Vuol dire il giorno in cui fu preso dell’amor di Laura.

SONETTO XXXI.

Somma è la perdita di Laura, perchè rare

e somme erano le bellezze di lei.

Ov’è la fronte che con picciol cenno
Volgea ’l mio core in questa parte e ’n quella?
Ov’è ’l bel ciglio e l’una e l’altra stella
Ch’al corso del mio viver lume denno?

Ov’è ’l valor, la conoscenza e ’l senno,
L’accorta, onesta, umìl, dolce favella?
Ove son le bellezze accolte in ella
Che gran tempo di me lor voglia fenno?

Ov’è l’ombra gentil del viso umano,
Ch’ôra e riposo dava a l’alma stanca,
E là ’ve i miei pensier scritti eran tutti?

Ov’è colei che mia vita ebbe in mano?
Quanto al misero mondo e quanto manca
Agli occhi miei, che mai non fieno asciutti!

Verso 3. Stella. Cioè pupilla. // 4. Denno. Diedero. // 5. La conoscenza. L’intendimento. La scienza. Il sapere. // 7. Accolte. Raccolte. Adunate. // 8. Di me lor voglia fenno. Fecero di me quel che vollero, quel che a lor piacque. // 10. Òra. Aura. Cioè refrigerio. A l’alma. All’alma mia. // 11. E là ’ve. E dove, cioè nel qual viso. I miei pensier scritti eran tutti. Perchè tale era lo stato dell’animo mio, quale era quel viso, o sereno o turbato. // 13. Quanto al misero mondo. Suppliscasi manca. // 14. Fieno. Saranno.

SONETTO XXXII.

Invidia alla terra, al cielo, alla morte quel bene,

senza cui e’ non può vivere.

Quanta invidia io ti porto, avara terra,
Ch’abbracci quella cui veder m’è tolto,
E mi contendi l’aria del bel volto
Dove pace trovai d’ogni mia guerra!

Quanta ne porto al ciel, che chiude e serra
E sì cupidamente ha in sè raccolto
Lo spirto da le belle membra sciolto,
E per altrui sì rado si disserra!

Quanta invidia a quell’anime che ’n sorte
Ànn’or sua santa e dolce compagnia,
La qual io cercai sempre con tal brama!

Quanto a la dispietata e dura morte,
Ch’avendo spento in lei la vita mia,
Stassi ne’ suoi begli occhi e me non chiama!

Verso 3. Mi contendi. Mi contrasti. Mi togli. // 5. Quanta ne porto. Cioè quanta invidia porto. // 8. Per altrui. Per altre anime. Sì rado si disserra. Piccolo essendo il numero degli eletti. Rado vale rare volte. // 9. Quanta invidia. Suppliscasi porto.// 12. Quanto. Quanta invidia porto.

SONETTO XXXIII.

Rivede Valchiusa, che i suoi occhi riconoscono

quella stessa, ma non il suo cuore.

Valle che de’ lamenti miei se’ piena,
Fiume che spesso del mio pianger cresci,
Fere silvestre, vaghi augelli, e pesci
Che l’una e l’altra verde riva affrena;

Aria de’ miei sospir calda e serena,
Dolce sentier che sì amaro riesci,
Colle che mi piacesti, or mi rincresci,
Ov’ancor per usanza Amor mi mena;

Ben riconosco in voi l’usate forme,
Non, lasso, in me, che da sì lieta vita
Son fatto albergo d’infinita doglia.

Quinci vedea ’l mio bene; e per quest’orme
Torno a veder ond’al ciel nuda è gita,
Lasciando in terra la sua bella spoglia.

Verso 1. Se’. Sei. // 3-4. Fere silvestre. Fiere silvestri. Vaghi. Vagabondi. Pesci Che l’una e l’altra verde riva affrena. Pesci contenuti tra le due rive, cioè nelle acque, del fiume. // 5. De’. Cioè per li. // 8. Usanza. Assuefazione. Consuetudine. Abito fatto. // 10. Da. Cioè dopo. // 12. Quinci. Di qui. Vedea. Vedeva io. Per quest’orme. Cioè per questo sentiero calcato già in altri tempi da Laura e da me. // 13. Onde. Il luogo onde.

SONETTO XXXIV.

Levossi col pensiero al cielo. La vide, l’udì,

e, beato, là quasi rimase.

Levommi il mio pensier in parte ov’era
Quella ch’io cerco e non ritrovo in terra:
Ivi fra lor che ’l terzo cerchio serra,
La rividi più bella e meno altera.

Per man mi prese e disse: in questa spera
Sarai ancor meco, se ’l desir non erra:
I’ son colei che ti die’ tanta guerra,
E compie’ mia giornata innanzi sera.

Mio ben non cape in intelletto umano:
Te solo aspetto, e, quel che tanto amasti,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.

Deh perchè tacque ed allargò la mano?
Ch’al suon di detti sì pietosi e casti
Poco mancò ch’io non rimasi in cielo.

Verso 1. Levommi. Alzommi. In parte. A un luogo. Vuol dire il cielo. // 3. Fra lor che ’l terzo cerchio serra. Fra le anime che stanno nella sfera di Venere, che è la sfera degli amanti. // 5. Spera. Sfera. // 6. Ancor. Un’altra volta, come fosti già in terra. Uso della voce ancora proprio e familiare al nostro Poeta – *e a Dante e a tutti i trecentisti.* – Se ’l desir non erra. Se il mio desiderio non m’inganna. // 7. Die’. Diedi. Tanta guerra. Tanto travaglio. // 8. Cioè uscii di vita immaturamente. // 9. La mia felicità non può esser compresa da mente umana. // 11. E. E che. Laggiuso. Laggiù, in terra. Velo. Cioè corpo. // 13. Chè. Perocchè.

SONETTO XXXV.

Sfoga ’l suo dolore con tutti que’ che furono

testimoni della sua passata felicità.

Amor, che meco al buon tempo ti stavi
Fra queste rive a’ pensier nostri amiche,
E per saldar le ragion nostre antiche,
Meco e col fiume ragionando andavi;

Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
Valli chiuse, alti colli e piagge apriche,
Porto de l’amorose mie fatiche,
De le fortune mie tante e sì gravi;

O vaghi abitator de’ verdi boschi,
O ninfe, e voi che il fresco erboso fondo
Del liquido cristallo alberga e pasce;

I dì miei fur sì chiari, or son sì foschi
Come morte, che ’l fa. Così nel mondo
Sua ventura à ciascun dal dì che nasce.

Verso 1. Al buon tempo. Cioè, quando Laura viveva. // 2. Fra. In. // 3. Saldar le ragion nostre antiche. Pareggiare i nostri conti vecchi del dare e dell’avere, cioè delle tue promesse e de’ miei patimenti dall’una parte, e dall’altra dei contenti e dei beni da te provenutimi. // 8. Fortune. Tempeste. // 9. Intende degli uccelli. Vaghi sta per vagabondi. // 10. E voi. Vuol dire i pesci. Che. Accusativo. I quali. // 12-13. Sì foschi Come morte, che ’l fa. Così foschi come è fosca la morte, che è causa di ciò. // 14. Ventura. Sorte destinata. Accusativo. Dal dì. Insin dal dì.

SONETTO XXXVI.

S’ella non fosse morta sì giovane, egli avria

cantato più degnamente le lodi di lei.

Mentre che ’l cor dagli amorosi vermi
Fu consumato, e ’n fiamma amorosa arse,
Di vaga fera le vestigia sparse
Cercai per poggi solitari ed ermi.

Ed ebbi ardir, cantando, di dolermi
D’Amor, di lei, che sì dura m’apparse.
Ma l’ingegno e le rime erano scarse
In quella etate a’ pensier novi e ’nfermi.

Quel foco è morto, e ’l copre un picciol marmo
Che se col tempo fosse ito avanzando
Come già in altri, infino a la vecchiezza;

Di rime armato, ond’oggi mi disarmo,
Con stil canuto avrei fatto, parlando,
Romper le pietre e pianger di dolcezza.

Verso 1. Mentre che. Finchè. Il cor. Il mio cuore. Dagli amorosi vermi. Dalle pene dell’amore. Dalla passione amorosa. // 3. Fera. Fiera. Intende di Laura. // 4. Ermi. Romiti. // 6. M’apparse. Mi parve. Mi si dimostrò. // 8. Novi e ’nfermi. Giovanili e deboli. // 10. Avanzando. Crescendo. // 11. In altri. In altri amanti. // 12. Ond’oggi mi disarmo. Le quali oggi abbandono. // 13. Canuto. Senile. E vuol dir maturato e perfezionato dal tempo. – *Cic.: «Quum ipsa oratio jam nostra canesceret.»* // 14. Romper. Rompersi.

SONETTO XXXVII.

La prega che almen di lassù gli rivolga tranquillo

e pietoso lo sguardo.

Anima bella, da quel nodo sciolta
Che più bel mai non seppe ordir Natura,
Pon dal ciel mente a la mia vita oscura,
Da sì lieti pensieri a pianger volta.

La falsa opinïon dal cor s’è tolta
Che mi fece alcun tempo acerba e dura
Tua dolce vista: omai tutta secura
Volgi a me gli occhi, e i miei sospiri ascolta.

Mira ’l gran sasso donde Sorga nasce,
E vedra’ vi un che sol tra l’erbe e l’acque
Di tua memoria e di dolor si pasce.

Ove giace ’l tuo albergo e dove nacque
Il nostro amor, vo’ ch’abbandoni e lasce,
Per non veder ne’ tuoi quel ch’a te spiacque.

Verso 2. Che. Di cui. // 3. Pon dal ciel mente. Poni mente dal cielo. Cioè volgi dal cielo l’animo, il pensiero. // 5-7. La falsa opinïon dal cor s’è tolta Che mi fece ec. Si è dileguato dall’animo tuo quel falso sospetto circa all’onestà de’ miei desiderii, che un tempo ti fu cagione di mostrarmiti dura e sdegnosa. Tutta secura. Senza sospetto alcuno. // 10. Vedra’ vi. Vi vedrai. // 12-14. Voglio che tu abbandoni e lasci, cioè non voglio, non chieggo che tu miri, il luogo dove è la tua casa e dove nacque il nostro amore; acciocchè tu non abbi a veder ne’ tuoi (o cittadini o parenti) quel che in tua vita ti spiacque, cioè la poca nobiltà della patria, o forse la corruttela dei costumi, o altra cosa simile.

SONETTO XXXVIII.

Dolente, la cerca; e non trovandola, conchiude

esser ella dunque salita al cielo.

Quel Sol che mi mostrava il cammin destro
Di gire al ciel con glorïosi passi,
Tornando al sommo sole, in pochi sassi,
Chiuse ’l mio lume e ’l suo carcer terrestro:

Ond’io son fatto un animal silvestro,
Che co’ piè vaghi solitari e lassi
Porto ’l cor grave, e gli occhi umidi e bassi
Al mondo, ch’è per me un deserto alpestro.

Così vo ricercando ogni contrada
Ov’io la vidi; e sol tu che m’affligi,
Amor, vien meco, e mostrimi ond’io vada.

Lei non trov’io; ma suoi santi vestigi,
Tutti rivolti a la superna strada,
Veggio, lunge da’ laghi averni e stigi.

Verso 1. Quel Sol. Cioè Laura. Destro. Vero. Diritto. // 3. Tornando al sommo sole. Tornando a Dio. Cioè morendo. // 4. Carcer terrestro. Cioè corpo. Terrestro è detto per terrestre. // 5. Silvestro. Silvestre. // 6. Vaghi. Erranti. // 7. Grave. Carico, colmo, di tristezza. // 8. Al. Nel. Alpestro. Alpestre. // 11. Vien. Vieni. Ond’io vada. Per dove io debba andare. // 13. A la superna strada. Alla strada del cielo. // 14. Lunge da’ laghi averni e stigi. E lontani dalla via dell’inferno.

SONETTO XXXIX.

Ella era sì bella, ch’e’ si reputa indegno

di averla veduta, non che di lodarla.

Io pensava assai destro esser su l’ale,
Non per lor forza ma di chi le spiega,
Per gir, cantando, a quel bel nodo eguale
Onde Morte m’assolve, Amor mi lega.

Trovaimi a l’opra via più lento e frale
D’un picciol ramo cui gran fascio piega;
E dissi: a cader va chi troppo sale;
Nè si fa ben per uom quel che ’l Ciel nega.

Mai non poria volar penna d’ingegno,
Non che stil grave o lingua, ove Natura
Volò tessendo il mio dolce ritegno.

Seguilla Amor con sì mirabil cura
In adornarlo, ch’i’ non era degno
Pur de la vista; ma fu mia ventura.

Verso 1-4. Io mi credeva aver ingegno bastante (non per sua propria forza, ma per virtù di chi lo inspira, cioè di Amore o di Laura) a poter, cantando, andare eguale a quel bel nodo, cioè agguagliare, esprimere degnamente, quelle bellezze e quei pregi de’ cui nodi la Morte dall’un lato mi scioglie, dall’altro Amore mi lega. Assai nel primo verso vale abbastanza. // 5. A l’opra. Alla prova. Messomi all’opera. Via. Vie. Assai. // 6. Fascio. Peso. // 7. Claud.: «Tolluntur in altum Ut lapsu graviore ruant.»* // 8. Per. Da. – *Virg.: «Heu nihil invitis fas quemquam fidere Divis.»* // 9. Poria. Potria. Penna. Ala. // 10-11. Grave. Tardo. Ove Natura Volò tessendo il mio dolce ritegno. Fino a quel punto a cui si sollevò la Natura, fabbricando il mio dolce legame, che è Laura. // 12. Seguilla. Cioè seguì la Natura. // 13. In adornarlo. In adornare il mio dolce ritegno, cioè Laura. Dipende da seguilla. // 14. Pur de la vista. Nè pur di vederlo. Cioè di veder Laura. Ma fu mia ventura. E se io la vidi e l’amai, fu solo per mia fortuna, e non per mio merito.

SONETTO XL.

Tentò di pinger le bellezze di lei, ma non ardisce

di farlo delle virtù.

Quella per cui con Sorga ò cangiato Arno,
Con franca povertà serve ricchezze;
Volse in amaro sue sante dolcezze,
Ond’io già vissi, or me ne struggo e scarno.

Da poi più volte ò riprovato indarno
Al secol che verrà l’alte bellezze
Pinger cantando, acciò che l’ame e prezze;
Nè col mio stile il suo bel viso incarno.

Le lode mai non d’altra, e proprie sue,
Che ’n lei fur, come stelle in cielo, sparte,
Pur ardisco ombreggiar or una or due:

Ma poi ch’i’ giungo a la divina parte,
Ch’un chiaro e breve sole al mondo fue,
Ivi manca l’ardir, l’ingegno e l’arte.

Verso 1. Con Sorga ò cangiato Arno. Ho cangiato le rive d’Arno con quelle di Sorga. Cioè ho lasciato il soggiorno di Toscana per quel di Valchiusa. // 2. E ho cangiate le serve ricchezze, che io poteva acquistare alla corte, con una libera povertà. // 3. Volse. Cangiò. Cioè morendo. // 4. Onde. Delle quali. // 5. Da poi. Di poi. Riprovato. Ritentato. // 6. Al secol che verrà. Ai futuri. Alla posterità. L’alte bellezze. Di Laura. // 7. L’ame e prezze. Ami e pregi (cioè il secol che verrà) le dette bellezze. // 8. Incarno. Cioè arrivo a ben colorire, a figurare al vivo. // 9. Le lode. Le lodi. Cioè i pregi. Mai non d’altra. Che non furono mai proprie d’altra donna. // 10. Sparte. Sparse. // 11. Ombreggiar. Vuol dire disegnar grossamente, abbozzare. // 12. Poi che. Quando. A la divina parte. Vuol dire alle bellezze dell’animo di Laura. // 13. Breve. Perchè Laura ebbe vita corta. Fue. Fu. // 14. Manca. Mi manca. Mi vien meno.

SONETTO XLI.

Laura è un miracolo; e però gli è impossibile

descriverne l’eccellenze.

L’alto e novo miracol ch’a’ dì nostri
Apparve al mondo, e star seco non volse;
Che sol ne mostrò ’l Ciel, poi sel ritolse
Per adornarne i suoi stellanti chiostri;

Vuol ch’i’ dipinga a chi nol vide, e ’l mostri,
Amor, che ’n prima la mia lingua sciolse,
Poi mille volte indarno a l’opra volse
Ingegno, tempo, penne, carte e ’nchiostri.

Non sono al sommo ancor giunte le rime:
In me ’l conosco; e proval ben chiunque
È infin a qui, che d’amor parli o scriva.

Chi sa pensare il ver, tacito estime,
Ch’ogni stil vince, e poi sospire: adunque
Beati gli occhi che la vider viva!

Verso 1. L’alto e novo miracol. Cioè Laura. Accusativo, che dipende dal verbo dipinga del verso quinto. // 2. Star seco. Cioè restar nel mondo lungo tempo. Volse. Volle. // 3. Che. Accusativo. Sol. Solamente. Ne. Ci. – *Virg. di Marcello: «Ostendent terris hunc tantum fata.»* // 5. Vuol. Dipende da Amor, che sta nel verso seguente. Dipinga a chi nol vide, e ’l mostri. Dipinga e mostri a chi nol vide. // 9. Vuol dire: l’arte poetica non è ancora pervenuta a potere esprimere le cose somme, grandissime. // 10. E proval ben. E lo prova bene in sè, e ben lo conosce in sè per prova, come io lo conosco in me. // 11. Infin a qui. Fino a ora. // 12. Estime. Lo estimi. Immagini esso vero, cioè la bellezza e la perfezione di Laura.// 13. Chè. Perocchè. Ogni stil vince. Esso vero vince ogni facoltà di parole. Sospire. Sospiri. Cioè sospirando dica.

SONETTO XLII.

Primavera, lieta per tutti, il rattrista

nel ricordargli il grave suo danno.

Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena,
E i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia,
E garrir Progne e pianger Filomena,
E primavera candida e vermiglia.

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena,
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
L’aria e l’acqua e la terra è d’amor piena;
Ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me lasso, tornano i più gravi
Sospiri, che del cor profondo tragge
Quella ch’al ciel se ne portò le chiavi:

E cantare augelletti, e fiorir piagge,
E ’n belle donne oneste atti soavi,
Sono un deserto, e fere aspre e selvagge.

Verso 1. Rimena. Riconduce. – *Virg.: «Parturit almus ager, Zephyrique tepentibus auris, Laxant arva sinus.»* // 2. Chiama l’erbe e i fiori, famiglia di Zefiro, volendo significare che essi sono da lui quasi generati e allevati. // 3. E rimena il garrir della rondine e il piangere del rosignuolo. // 4. Candida e vermiglia. Ha riguardo al vario color dei fiori di primavera. // 6. Sua figlia. Venere, Dea della primavera, che è la stagione dell’amore. Altri intendono in questo verso la positura e l’aspetto reciproco dei pianeti di Giove e di Venere in tempo di primavera. // 8. Si riconsiglia. Riprende partito. il 9-10. Tornano i più gravi Sospiri. Perchè in primavera io presi ad amar Laura, e in primavera ella è morta. Del cor profondo. Dall’intimo del mio cuore. // 11. Ne. Cioè del mio cuore. // 14. Sono. Suppliscasi per me, parole che stanno di sopra nel verso nono. Fere. Fiere.

SONETTO XLIII.

Il pianto dell’usignuolo rammentagli quella

ch’e’ non credeva mai di perdere.

Quel rosignuol che sì soave piagne
Forse suoi figli o sua cara consorte,
Di dolcezza empie il cielo e le campagne
Con tante note sì pietose e scorte;

E tutta notte par che m’accompagne
E mi rammente la mia dura sorte:
Ch’altri che me non ò di cui mi lagne;
Chè ’n Dee non credev’io regnasse Morte.

O che lieve è ingannar chi s’assecura!
Que’ duo bei lumi, assai più che il Sol chiari,
Chi pensò mai veder far terra oscura?

Or conosch’io che mia fera ventura
Vuol che vivendo e lagrimando impari
Come nulla quaggiù diletta e dura.

Verso 1. Soave. Soavemente. – *Virg. Geor.: «Qualis populea mœrens Philomela sub umbra Amissos queritur fœtus, quos durus arator Observans nido implumes detraxit; et illa Flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen Integrat, et mæstis late loca questibus implet»* // 4. Pietose. Compassionevoli. Che muovono a pietà. Scorte. Accorte. Cioè artificiose. // 5. Accompagne. Accompagni. // 6. Rammente. Rammenti. // 7. Lagne. Lagni. // 9. O che lieve. O quanto lieve, cioè, facile. Chi s’assecura. Chi non ha sospetto alcuno. // 11. Pensò. Credette. Si aspettò. Far. Farsi. Divenire. // 12. Fera. Fiera. Crudele. Ventura. Fortuna. Sorte. // 13. Impari. Suppliscasi io.

SONETTO XLIV.

Nulla v’ha più che lo riconforti, se non desiderar

di morire per rivederla.

Nè per sereno ciel ir vaghe stelle,
Nè per tranquillo mar legni spalmati,
Nè per campagne cavalieri armati,
Nè per bei boschi allegre fere e snelle;

Nè d’aspettato ben fresche novelle,
Nè dir d’amore in stili alti ed ornati,
Nè tra chiare fontane e verdi prati
Dolce cantare oneste donne e belle;

Nè altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga;
Sì seco il seppe quella seppellire
Che sola agili occhi miei fu lume e speglio.

Noia m’è il viver sì gravosa e lunga,
Ch’i’ chiamo ’l fine per lo gran desire
Di riveder cui non veder fu meglio.

Verso 1-8. Guid. Caval.: «Beltà di donna e di piacente core; E cavalieri armati che sien genti; Cantar d’augelli e ragionar d’amore; Adorni legni in mar forte correnti; Aere sereno quando appar l’albore; E bianca neve scender senza venti; Rivera d’acqua e prato d’ogni fiore; Oro e argento, azzurro in ornamenti; ec.;»* // 9. M’aggiunga. Mi giunga. // 10. Sì. Talmente. Sì fattamente. // 11. Speglio. Specchio. // 13. Il fine. La morte. // 14. Cui. Quella cui. Non veder. Non veder mai. Non aver veduta mai. Fu. Cioè sarebbe stato.

SONETTO XLV.

Brama unirsi a colei, che, privandolo d’ogni bene,

gli tolse anche il cuore.

Passato è ’l tempo, omai, lasso, che tanto
Con refrigerio in mezzo ’l foco vissi:
Passato è quella di ch’io piansi e scrissi;
Ma lasciato m’à ben la penna e ’l pianto.

Passato è il viso sì leggiadro e santo;
Ma, passando, i dolci occhi al cor m’à fissi,
Al cor già mio, che seguendo, partissi,
Lei, ch’avvolto l’avea nel suo bel manto.

Ella ’l se ne portò sotterra e ’n cielo,
Ov’or trïonfa ornata de l’alloro
Che meritò la sua invitta onestate.

Così, disciolto dal mortal mio velo
Ch’a forza mi tien qui, foss’io con loro,
Fuor de’ sospir, fra l’anime beate!

 

Versi 1-2. Che. Nel quale. Durando il quale. Tanto Con refrigerio. Costrutto di maniera latina. Con tanto refrigerio. // 6. Al cor m’à fissi. // Cioè m’ha lasciati impressi nel cuore. // 7-8. Che seguendo, partissi, lei. Che partissi seguendo lei. // 12. Così. Voce di desiderio. // 13. Foss’io Con loro. Cioè con Laura e il cuor mio.

SONETTO XLVI.

Duolsi di non aver presagiti i suoi danni

nell’ultimo dì in ch’ei la vide.

Mente mia, che presaga de’ tuoi danni,
Al tempo lieto già pensosa e trista,
Sì intentamente ne l’amata vista
Requie cercavi de’ futuri affanni;

Agli atti, a le parole, al viso, ai panni,
A la nova pietà con dolor mista,
Potei ben dir, se del tutto eri avvista:
Quest’è l’ultimo dì de’ miei dolci anni.

Qual dolcezza fu quella, o miser’alma!
Come ardevamo in quel punto ch’i’ vidi
Gli occhi i quai non devea riveder mai!

Quando a lor, come a duo amici più fidi,
Partendo, in guardia la più nobil salma,
I miei cari pensieri e ’l cor lasciai.

 

Verso 1. Virg.: «Mens præsaga mali.»* // 6. A la nova pietà. Che apparia nel viso di Laura l’ultima volta che io la vidi. Nova vale insolita. // 7. Potei. Potevi. Eri. Ti eri. Ti fossi. // 11. Devea. Dovea. Persona prima. // 12. Più. I più. // 13. La più nobil salma. Il più nobil peso, cioè le più preziose robe ch’io avessi.

SONETTO XLVII.

Morte gliela rapì, quando senza sospetti

poteva intertenersi con esso lei.

Tutta la mia fiorita e verde etade
Passava; e ’ntepidir sentia già ’l foco
Ch’arse il mio cor; ed era giunto al loco
Ove scende la vita, ch’alfin cade.

Già incominciava a prender securtade
La mia cara nemica a poco a poco
De’ suoi sospetti; e rivolgeva in gioco
Mie pene acerbe sua dolce onestade.

Presso era ’l tempo dov’Amor si scontra
Con Castitate, ed agli amanti è dato
Sedersi insieme e dir che lor incontra.

Morte ebbe invidia al mio felice stato,
Anzi a la speme; e feglisi a l’incontra
A mezza via, come nemico armato.

Verso 2. Passava. Persona terza. Sentia. Persona prima. // 3-4. Al loco Ove scende la vita. A quel punto in cui la vita comincia a declinare. Ch’al fin cade. Che poi all’ultimo manca, si estingue. // 5. A prender securtade. A rassicurarsi. // 6. La mia cara nemica. Cioe Laura. // 7. De’ suoi sospetti. Dipende da securtade. – *E rivolgeva in gioco. E la sua onestà non più severa ma dolce si schermiva, scherzando, dalle troppo vive manifestazioni del mio amore.* // 9. Dove. Nel quale. Si scontra. Si riconcilia e s’accompagna. // 11. Che lor incontra. Quello che loro accade. Che cosa avvenga loro. I lor casi. // 13. Alla speme. Di esso felice stato che in verità non era per anco presente, ma sol vicino. Feglisi a l’incontra. Gli si fece incontro per impedirlo.

SONETTO XLVIII.

S’ella or vivesse, e’ potrebbe liberamente sospirare,

e ragionar seco lei.

Tempo era omai da trovar pace o tregua
Di tanta guerra; ed erane in via forse;
Se non ch’e’ lieti passi indietro torse
Chi le disagguaglianze nostre adegua.

Chè, come nebbia al vento si dilegua
Così sua vita subito trascorse
Quella che già co’ begli occhi mi scorse,
Ed or convèn che col penser la segua.

Poco aveva a ’ndugiar; chè gli anni e ’l pelo
Cangiavano i costumi; onde sospetto
Non fora il ragionar del mio mal seco.

Con che onesti sospiri le avrei detto
Le mie lunghe fatiche ch’or dal cielo
Vede, son certo e duolsene ancor meco!

Verso 2. Ed erano in via forse. E forse io ne era in via: Vuol dire: e forse io non era lontano dal trovar pace o tregua del mio travaglio. // 3. Se non che. Ma. E’ lieti passi. I miei lieti passi. Cioè quelli che mi menavano verso il conseguimento di detta pace o tregua. // 4. Chi. Quella che. Vuol dir la morte. Adegua. Agguaglia. – *Oraz.: «Pallida mors æquo Pulsat pede pauperum tabernas, Regumque turres.»* // 5. Chè. Perocchè. // 6. Sua vita. Accusativo, che dipende da trascorse. // 7. Scorse. Guidò. // 8. Convèn. Conviene. Penser. Pensiero. La segua. Suppliscasi io. Non potendo più esser guidato da’ suoi occhi, mi convien seguitarla solo col pensiero. // 9. Poco aveva a ’ndugiar. Bastava che la morte, oppur Laura, si fosse indugiata solo un poco. // 10. Cangiavano i costumi. Suppliscasi in noi, cioè in Laura e in me. Sospetto. Nome aggettivo. // 11. Non fora. Non sarebbe stato. // 13. Fatiche. Pene. Affanni. // 14. Vede. Ella vede.

SONETTO XLIX.

Perdette in un punto quella cara pace che doveva

essere frutto de’ suoi amori.

Tranquillo porto avea mostrato Amore
A la mia lunga e torbida tempesta
Fra gli anni de l’età matura onesta,
Che i vizi spoglia, e vertù veste e onore.

Già traluceva a ’begli occhi ’l mio core,
E l’alta fede non più lor molesta.
Ahi, Morte ria, come a schiantar se’ presta
Il frutto di molt’anni in sì poche ore!

Pur vivendo veniasi ove deposto
In quelle caste orecchie avrei, parlando,
De’ miei dolci pensier l’antica soma;

Ed ella avrebbe a me forse risposto
Qualche santa parola, sospirando,
Cangiati i volti e l’una e l’altra coma.

 

Verso 3. Fra gli anni. Negli anni. Dipende dal primo verso. // 4. Che si spoglia dei vizi e si veste di virtù e di onore. // 5. A’ begli occhi. Di Laura. // 6. E la ferma mia fedeltà, che già non era più molesta a quegli occhi. // 9. Pur vivendo veniasi ove. Solo che la vita ci fosse durata, noi giungevamo a un tempo nel quale. // 14. L’una e l’altra coma. La sua chioma e la mia.

SONETTO L.

Ha nel cuore sì viva l’immagin di Laura, che

ei la chiama quasi gli fosse presente.

Al cader d’una pianta, che si svelse
Come quella che ferro o vento sterpe,
Spargendo a terra le sue spoglie eccelse,
Mostrando al Sol la sua squallida sterpe;

Vidi un’altra, ch’Amor obbietto scelse,
Subbietto in me Calliope ed Euterpe;
Che ’l cor m’avvinse e proprio albergo felse,
Qual per tronco o per muro edera serpe.

Quel vivo Lauro, ove solean far nido
Gli alti pensieri e i miei sospiri ardenti,
Che dei bei rami mai non mossen fronda;

Al ciel traslato, in quel suo albergo fido
Lasciò radici, onde con gravi accenti
È ancor chi chiami, e non è chi risponda.

Verso 1. D’una pianta. Cioè di Laura viva. // 2. Che. Accusativo. Sterpe. Sterpi. Estirpi. Sradichi. // 3. Spoglie eccelse. Rami, frondi, foglie, che naturalmente stanno sollevate nell’aria. [A.] – *Virg.: «Consternunt tergum concusso stipite frondes.»* // 4. Sterpe. Stirpe. Radice. // Un’altra. Un’altra pianta, cioè Laura immaginata, la memoria di Laura. Che. Accusativo. Obbietto scelse. Scelse per nuovo oggetto che io avessi ad amare. // 6. E che le muse scelsero per soggetto delle mie rime. // 7. Felse. Sel fece. // 8. Qual. Come. Serpe. Verbo. Serpeggia. // 9. Quel vivo Lauro. Cioè la vera Laura. // 11. Vuol dire: che mai non piegarono l’animo di Laura a’ miei desiderii. Mossen sta per mossero. // 12. Traslato. Trasportato. In quel suo albergo fido. In quello che è detto nel settimo verso, cioè nel mio cuore. // 13. Radici. Cioè la memoria di sè. Onde. Per forza delle quali radici. Per la qual cosa. Gravi. Lamentevoli. Dolorosi. // l4. Vuol dire: io chiamo pur tuttavia la mia donna, ma ella non mi risponde.

SONETTO LI.

Tanto più s’innamora di Laura nel cielo,

quanto meno ei doveva amarla quaggiù.

I dì miei più leggier che nessun cervo,
Fuggîr com’ombra; e non vider più bene,
Ch’un batter d’occhio e poche ore serene,
Ch’amare e dolci ne la mente servo.

Misero mondo, instabile e protervo!
Del tutto è cieco chi ’n te pon sua spene:
Chè ’n te mi fu ’l cor, tolto; ed or sel tène
Tal ch’è già terra e non giunge osso a nervo,

Ma la forma miglior, che vive ancora,
E vivrà sempre su ne l’alto cielo,
Di sue bellezze ogni or più m’innamora.

E vo, sol in pensar, cangiando ’l pelo,
Qual ella è oggi e ’n qual parte dimora;
Qual a vedere il suo leggiadro velo.

Verso 1. Leggier. Veloci. – *Oraz.: «Ocyor cervis, et agente nimbos Ocyor Euro.»* // 2-3. Fuggîr. Fuggirono. [A.] – Più bene Ch’un batter d’occhio. Bene che durasse più d’un batter d’occhio. // 4. Delle quali serbo nella mente la ricordanza dolce ed amara. // 7. Tène. Tiene. // 8. Tal che. Una che. Non giunge osso a nervo. Non congiunge osso a nervo. Non ha osso che sia congiunto con nervo. // 9. La forma miglior. Cioè lo spirito di Laura. // 11. Ogni or. Ognora. Sempre. // 12. E vo cangiando il pelo, cioè invecchio, solo in pensare, cioè pensando solamente, sempre. // 14. Quale è a vedere, cioè quale è divenuto il suo corpo che già un tempo fu sì leggiadro.

SONETTO LII.

Rivede Valchiusa. Tutto gli parla di lei.

Pensa al passato, e se ne rattrista.

Sento l’aura mia antica, e i dolci colli
Veggio apparir onde ’l bel lume nacque
Che tenne gli occhi miei mentr’al Ciel piacque
Bramosi e lieti, or li tien tristi e molli.

O caduche speranze! o pensier folli!
Vedove l’erbe, e torbide son l’acque;
E vôto e freddo il nido in ch’ella giacque,
Nel qual io vivo, e morto giacer volli,

Sperando al fin da le soavi piante
E da’ begli occhi suoi, che ’l cor m’ànno arso,
Riposo alcun de le fatiche tante.

Ò servito a signor crudele e scarso;
Ch’arsi quanto il mio foco ebbi davante;
Or vo piangendo il suo cenere sparso.

Verso 2. Il bel lume. Vuol dire Laura. // 3. Mentre. Finchè. – *Virg.: «Dum fata Deusque sinebat.»* // 5. Cic.: «O spes fallaces, o cogitationes inanes meæ!»* // 6. L’erbe. Quest’erbe. L’acque. Queste acque. // 7. Il nido. Il luogo di cui si parla nella Canzone undecima della prima Parte. Suppliscasi è. In che. In cui. // 8. Volli. Desiderai. Veggasi la seconda stanza della Canzone detta di sopra: // 9. Da le soavi piante. Dai piedi di Laura, che ritornando colà premessero quel terreno sotto al quale io fossi sepolto. Veggasi la terza stanza della detta Canzone. // 12. A signor. Intende di Amore. Scarso. Avaro. Parco rimuneratore. // 13. Chè. Perocchè. Quanto. Fino a tanto che. Il mio foco. Cioè Laura. Davante. Presente. In vita.

SONETTO LIII.

La vista della casa di Laura gli ricorda

quant’ei fu felice, e quanto è misero,

È questo il nido in che la mia fenice
Mise l’aurate e le purpuree penne;
Che sotto le sue ali il mio cor tenne,
E parole e sospiri anco ne elice?

O del dolce mio mal prima radice,
Ov’è ’l bel viso onde quel lume venne,
Che vivo e lieto, ardendo, mi mantenne?
Sola eri in terra; or se’ nel Ciel felice.

E m’ài lasciato qui misero e solo,
Tal che pien di duol sempre al loco torno
Che per te consecrato onoro e colo;

Veggendo a’ colli oscura notte intorno;
Onde prendesti al Ciel l’ultimo volo,
E dove gli occhi tuoi solean far giorno,

Verso 1. In che. In cui. // 2. L’aurate e le purpuree penne. Vuol significare i colori e le bellezze dei capelli e delle guance di Laura. // 3. Che. Le qual fenice. // 4. Anco. Ancora. Anche oggi. Elice. Trae. // 7. Ardendo. Cioè ardendo io. // 8. Sola. Singolare. Senza pari. Se’. Sei. // 11. Per te. Da te. Dalla tua presenza. Consecrato. Fatto sacro. Colo. Venero. // 12. A’ colli. Dipende da intorno. // 13. Onde. Dai quali colli. Al ciel. Verso il cielo.

CANZONE III.

Allegoricamente descrive le virtù di lei,

e ne piange la morte immatura.

Standomi un giorno, solo, a la fenestra,
Onde cose vedea tante e sì nove
Ch’era sol di mirar quasi già stanco,
Una fera m’apparve da man destra
Con fronte umana da far arder Giove,
Cacciata da duo veltri, un nero, un bianco,
Che l’uno e l’altro fianco
De la fera gentil mordean sì forte,
Che ’n poco tempo la menaro al passo
Ove chiusa in un sasso
Vinse molta bellezza acerba morte;
E mi fe sospirar sua dura sorte.

 

Allegorie significative della vita e della morte di Laura.

Verso 2. Nove. Straordinarie. // 5. Fronte. Figura. Sembianza. Da. Tale, sì bella, da. Far arder. Innamorare. – *Ovid.: «Cogat amare Jovem.»* // 6. Cacciata. Inseguita. Dipende da fera. Da duo veltri, un nero, un bianco. Intendono per questi due cani il tempo, pigliando il can bianco pel giorno, e il nero per la notte. // 11. Molta bellezza. Accusativo. // 12. E la sua dura sorte mi fece sospirare.

Indi per alto mar vidi una nave
Con le sarte di seta e d’ôr la vela,
Tutta d’avorio e d’ebeno contesta;
E ’l mar tranquillo e l’aura era soave,
E ’l ciel qual è se nulla nube il vela;
Ella carca di ricca merce onesta.
Poi repente tempesta
Orïental turbò sì l’aere e l’onde,
Che la nave percosse ad uno scoglio.
O che grave cordoglio!
Breve ora oppresse e poco spazio asconde
L’alte ricchezze a nulle altre seconde.

 

Verso 3. Dipende da nave. Ebeno sta per ebano, Contesta per fabbricata. // 5. E ’l ciel. Suppliscasi era. Nulla. Nessuna. // 6. Ella. Ella era. Onesta. Onorata. Preziosa. // 8. . Talmente. // 11. Oppresse. Sommerse. // 12. A nulle altre. A nessune altre.

In un boschetto novo i rami santi
Fiorian d’un lauro giovenetto e schietto,
Ch’un degli arbor parea di paradiso;
E di sua ombra uscian sì dolci canti
Di vari augelli, e tanto altro diletto,
Che dal mondo m’avean tutto diviso.
E mirandol io fiso,
Cangiossi il cielo, intorno, e tinto in vista,
Folgorando ’l percosse, e da radice
Quella pianta felice
Subito svelse: onde mia vita è trista;
Chè simil ombra mai non si racquista.

 

Verso 1. Boschetto novo. Boschetto giovane. // 2. Schietto. Dritto e senza nodi. // 8. Tinto in vista. Cioè annerito, offuscato. // 10. Quella pianta felice. Accusativo. // 11. Subito. In un subito.

Chiara fontana in quel medesmo bosco
Sorgea d’un sasso, ed acque fresche e dolci
Spargea soavemente mormorando:
Al bel seggio riposto, ombroso e fosco,
Nè pastori appressavan nè bifolci,
Ma ninfe e muse, a quel tenor cantando.
Ivi m’assisi; e quando
Più dolcezza prendea di tal concento
E di tal vista, aprir vidi uno speco,
E portarsene seco
La fonte e ’l loco: ond’ancor doglia sento,
E sol de la memoria mi sgomento.

 

Verso 1. Ovid.: «Fons erat illimis nitidis argenteus undis, Quem neque pastores, neque pastæ monte capellæ Contigerant, aliudve pecus.»* // 2. Sorgea. Scaturiva. D’un. Da un. // 4. Seggio. Cioè luogo, sito. Riposto. Segreto. Nascosto. Ritirato. // 5. Appressavan. Si appressavano. // 6. A quel tenor. Al tenore del mormorar di quella fontana. // 8. Dolcezza. Piacere. Prendea. Riceveva. Sentiva. Persona prima. // 9. Aprir. Aprirsi. // 12. Sol de la memoria. A ricordarmene solamente.

Una strania fenice, ambedue l’ale
Di porpora vestita e ’l capo d’oro,
Vedendo per la selva, altera e sola,
Veder forma celeste ed immortale
Prima pensai fin ch’a lo svelto alloro
Giunse, ed al fonte che la terra invola.
Ogni cosa al fin vola:
Chè mirando le frondi a terra sparse
E ’l troncon rotto, e quel vivo umor secco,
Volse in sè stessa il becco
Quasi sdegnando; e ’n un punto disparse;
Onde ’l cor di pietate e d’amor m’arse.

 

Verso 1. Una strania fenice. Accusativo. Strania è detto per maravigliosa, singolare, ovvero per forestiera. // 3. Vedendo. Vedendo io. Altera e sola. Dipende da fenice. // 5. Pensai. Credetti. Mi parve. // 6. Che la terra invola. Ingoiato dalla terra, come è detto nella stanza di sopra. // 11. Sdegnando. Sdegnandosi.

Al fin vid’io per entro i fiori e l’erba
Pensosa ir sì leggiadra e bella donna,
Che mai nol penso ch’i’ non arda e treme:
Umile in sè, ma ’ncontr’Amor superba:
Ed avea in dosso sì candida gonna,
Sì testa, ch’oro e neve parea insieme:
Ma le parti supreme
Erano avvolte d’una nebbia oscura.
Punta poi nel tallon d’un picciol angue,
Come fior colto langue,
Lieta si dipartio, non che secura.
Ahi null’altro che pianto al mondo dura!

 

Verso 1. Per entro. Fra. // 6. Sì testa. Sì fittamente intessuta. // 7. Le parti supreme. Le parti superiori della detta donna. – *Virg. En. VI: «Sed nox atra caput tristi circumvolat umbra.»* // 9. D’un. Da un. – *Ovid.: «Occidit, in talum serpentis dente recepto.»* // 11. Non solo tranquilla e sicura, ma lieta, se ne morì. // 13. Dura. Verbo.

Canzon, tu puoi ben dire:
Queste sei visïoni al signor mio
Àn fatto un dolce di morir desio.

 

Verso 2. Al signor. Cioè all’autore. // 3. Fatto. Cagionato.

BALLATA.

Gli è mitigato il dolore di dover sopravvivere a lei,

perch’ella il conosce.

Amor, quando fioria
Mia spene e ’l guidardon d’ogni mia fede,
Tolta m’è quella ond’attendea mercede.

Ahi dispietata morte! ahi crudel vita!
L’una m’à posto in doglia,
E mie speranze acerbamente à spente:
L’altra mi tèn qua giù contra mia voglia;
E lei che se n’è gita
Seguir non posso, ch’ella nol consente:
Ma pur ogni or presente
Nel mezzo del mio cor Madonna siede,
E qual è la mia vita ella sel vede.

 

Versi 1-2. Quando fioria Mia spene e ’l guidardon d’ogni mia fede. In sul più bel fiore della mia speranza e del premio di tutta la mia fedeltà passata. Cioè in sull’appressarsi del tempo nel quale io avrei potuto senza sospetti, o senza pregiudizio della onestà, ragionar colla mia donna dell’amor mio, com’è detto nei Sonetti quarantesimosettimo, quarantesimottavo e quarantesimonono di questa seconda Parte. // 3. Onde. Dalla quale. Attendea. Persona prima. // 5. L’una. Cioè la morte. // 7. L’altra. La vita. Tèn. Tiene. // 8. Lei. Colei, cioè Laura. // 9. Ella. Cioè la vita. Consente. Permette. // 10. Ogni or. Ognora.

CANZONE IV.

Rammemora quelle grazie ch’e’ scorse in Laura

sin dal primo dì in ch’ei la vide.

Tacer non posso, e temo non adopre
Contrario effetto la mia lingua al core,
Che vorria far onore
A la sua donna che dal ciel n’ascolta.
Come poss’io se non m’insegni, Amore,
Con parole mortali agguagliar l’opre
Divine, e quel che copre
Alta umiltate in sè stessa raccolta?
Ne la bella prigione, ond’or è sciolta,
Poco era stata ancor l’alma gentile
Al tempo che di lei prima m’accorsi;
Onde subito corsi
(Ch’era de l’anno e di mia etade aprile)
A coglier fiori in quei prati d’intorno,
Sperando agli occhi suoi piacer sì adorno.

 

Verso 1. Non adopre. Che non faccia. // 2. Contrario effetto. Accusativo. Al core. A quello che vorrebbe il cuore. Dipende da contrario. // 3. Che. Il qual core. // 4. N’ascolta. Ci ascolta. // 7. Che. Accusativo. // 9. Ne la bella prigione. Vuol dir nel corpo. Onde. Dalla quale. // 11. Quando io la vidi la prima volta. // 14. Vuol dire a far versi amorosi, pigliando colei per soggetto.

Muri eran d’alabastro e tetto d’oro,
D’avorio uscio, e fenestre di zaffiro,
Onde ’l primo sospiro
Mi giunse al cor, e giugnerà l’estremo.
Indi i messi d’Amor armati usciro
Di saette e di foco: ond’io di loro,
Coronati d’alloro,
Pur com’or fosse, ripensando tremo.
D’un bel diamante quadro e mai non scemo
Vi si vedea nel mezzo un seggio altero,
Ove sola sedea la bella donna.
Dinanzi una colonna
Cristallina, ed ivi entro ogni pensero
Scritto, e fuor tralucea sì chiaramente,
Che mi fea lieto e sospirar sovente.

 

Versi 1-2. Descrive allegoricamente le membra, i capelli, i denti e gli occhi di Laura. // 3-4. Cioè quel corpo che fu cagione de’ miei primi sospiri amorosi, e sarà cagione altresì degli ultimi. – *Proper.: «Cyntia prima fuit, Cyntia finis erit.»* // 5. Indi. Di là. Cioè da tal corpo. // 6. Di saette e di foco. Dipende da armati. // 7. Allude al nome di Laura. // 8. Pur com’or fosse. Come se io li vedessi uscire appunto ora. // 9. Dipende dalle parole un seggio, che stanno nel verso appresso. // 10. Vi si vedea nel mezzo. Nel mezzo di quell’edifizio, che è figura del corpo di Laura. Un seggio. Vuol dire il cuore. Altero. Nobile. // 12-13. Dinanzi. Dinanzi a questo seggio vi si vedeva. Una colonna Cristallina. Vuol dire il viso di Laura. Ivi entro. Cioè in questa colonna. Suppliscasi si vedea. Pensero. Pensiero. // 14. Tralucea. Cioè ogni pensiero. // 15. Che spesso mi faceva lieto e spesso tristo. – Anselmo Faidit: «Que m’ fai langir e sospirar soven.» [T.]

A le pungenti, ardenti e lucide arme,
A la vittorïosa insegna verde,
Contra cu’ in campo perde
Giove ed Apollo e Polifemo e Marte;
Ov’è ’l pianto ognor fresco e si rinverde,
Giunto mi vidi: e non possendo aitarme,
Preso lasciai menarme
Ond’or non so d’uscir la via nè l’arte.
Ma sì com’uom talor che piange, e parte
Vede cosa che gli occhi e ’l cor alletta,
Così colei perch’io sono in prigione,
Standosi ad un balcone,
Che fu sola a’ suoi dì cosa perfetta,
Cominciai a mirar con tal desio,
Che me stesso e ’l mio mal posi in obblio.

 

Versi 1-2. Al veder quell’armi, cioè le saette e il fuoco, detti nel sesto verso della stanza qui dietro, e quella insegna verde, cioè l’alloro detto nel verso seguente della medesima stanza. // 3. Contra cui. Contro le quali armi e la quale insegna. // 4. Cioè qual si sia più potente, più saggio, più fiero, o più coraggioso uomo. // 5-6. Ov’è ’l pianto ognor fresco e si rinverde, Giunto mi vidi. Conobbi di esser giunto a termine che io non poteva schifar di cadere in un affanno amoroso che avrebbe avuto a esser continuo e insanabile. Rinverde è il medesimo che rinverdisce. Possendo. Potendo. Aitarme. Aiutarmi. // 7. Menarme. Menarmi. // 8. Onde. In luogo onde. In una prigione da cui. D’uscir la via nè l’arte. La via nè l’arte di uscire. // 9. Parte. Insieme. Al medesimo tempo. // 11. Colei. Accusativo, che dipende dalle parole cominciai a mirar del verso penultimo della stanza. Perch’io. Per la quale io. // 12. Standosi. Cioè standosi ella. Ad un balcone. Vuol dire: lontana da me, in luogo dove io non poteva altro che mirarla. // 13. Dipende dal pronome colei dell’undecimo verso.

I’ era in terra, e ’l cor in paradiso,
Dolcemente obbliando ogni altra cura;
E mia viva figura
Far sentia un marmo e ’mpier di maraviglia;
Quand’una donna assai pronta e secura,
Di tempo antica e giovene del viso,
Vedendomi sì fiso
A l’atto de la fronte e de le ciglia,
Meco, mi disse, meco ti consiglia,
Ch’i’ son d’altro poder che tu non credi;
E so far lieti e tristi in un momento,
Più leggiera che ’l vento;
E reggo e volvo quanto al mondo vedi.
Tien pur gli occhi, com’aquila, in quel sole;
Parte dà orecchi a queste mie parole.

 

Verso 1. E ’l cor. E il mio cuore era. // 3. Figura. Persona. // 4. Far. Farsi. Divenire. Sentia. Persona prima. Empier. Ed empiersi. // 5. Una donna. Per questa donna intendono, chi la Fortuna, chi la Natura. // 6. Giovene. Giovane. // 10. D’altro poder. Di ben maggior potere. // 13. Volvo. Volgo. Aggiro. // 14. In quel sole. Cioè in Laura. // 15. Parte. E insieme. E nel medesimo tempo. – *Intanto.*

Il dì che costei nacque, eran le stelle
Che producon fra voi felici effetti,
In luoghi alti ed eletti,
L’una vêr l’altra con amor converse:
Venere e ’l padre con benigni aspetti
Tenean le parti signorili e belle;
E le luci empie e felle
Quasi in tutto del ciel eran disperse.
Il Sol mai sì bel giorno non aperse:
L’aere e la terra s’allegrava, e l’acque
Per lo mar avean pace e per li fiumi.
Fra tanti amici lumi,
Una nube lontana mi dispiacque;
La qual temo che ’n pianto si risolve,
Se pietade altramente il ciel non volve.

 

Verso 4. Vêr. Verso. Converse. Rivolte. // 5. E ’l padre. E il padre di Venere. Vuol dire il pianeta di Giove. // 6. Cioè stavano nelle parti principali del cielo. // 7. Cioè le stelle e i pianeti di maligni influssi. // 8. In tutto. Del tutto. Disperse. Dileguate. // 11. Per lo mar. Cioè nel mare. Avean pace. Erano in calma, senza vento, senza tempesta. Per li fiumi. Cioè ne’ fiumi. // 12. Lumi. Astri. // 14. Risolve. Risolva. // 15. Volve. Volge.

Com’ella venne in questo viver bisso,
Ch’a dir il ver, non fu degno d’averla,
Cosa nova a vederla,
Già santissima e dolce, ancor acerba,
Parea chiusa in ôr fin candida perla:
Ed or carpone, or con tremante passo
Legno, acqua, terra o sasso
Verde facea, chiara, soave; e l’erba
Con le palme e coi piè fresca e superba
E fiorir co’ begli occhi le campagne,
Ed acquetar i venti e le tempeste
Con voci ancor non preste
Di lingua che dal latte si scompagne;
Chiaro mostrando al mondo sordo e cieco
Quanto lume del ciel fosse già seco.

 

Verso 1. Come. Poichè. // 3. Nova. Straordinaria. Disusata. // 4. Ancor acerba. Benchè ancor tenera e bambina. // 5. In òr fin. In oro fino. // 7. Legno, acqua, terra o sasso. Che ella toccasse. // 9. Fresca e superba. Facea fresca e superba. // 10. E fiorir. Suppliscasi facea. // 11. Acquetar. Acquetarsi. // 13. Che dal latte si scompagne. Cioè appena spoppata. Scompagne in vece di scompagni.

Poi che crescendo in tempo ed in virtute
Giunse a la terza sua fiorita etate,
Leggiadria nè beltate
Tanta non vide il Sol, credo, già mai.
Gli occhi pien di letizia e d’onestate,
E ’l parlar di dolcezza e di salute,
Tutte lingue son mute
A dir di lei quel che tu sol ne sai.
Sì chiaro à ’l volto di celesti rai,
Che vostra vista in lui non può fermarse:
E da quel suo bel carcere terreno
Di tal foco ài il cor pieno,
Ch’altro più dolcemente mai non arse.
Ma parmi che sua subita partita
Tosto ti fia cagion d’amara vita.

 

Verso 2. A la terza sua fiorita etate. Cioè alla gioventù. // 5. Pien. Eran pieni. // 6. Di dolcezza e di salute. Suppliscasi era pieno. // 7-8. Mute a dir. Inette a dire, a significar degnamente. // 9. Di. Cioè per. // 10. Fermarse. Fermarsi. // 11. Da. Per. A cagione di. Quel suo bel carcere terreno. Vuol dire il suo corpo. // 13. Altro. Altro cuore. // 14. Partita. Partenza. Cioè morte.

Detto questo, a la sua volubil rota
Si volse, in ch’ella fila il nostro stame;
Trista e certa indovina de’ miei danni:
Chè dopo non molt’anni,
Quella per ch’io ò di morir tal fame,
Canzon mia, spense Morte acerba e rea,
Che più bel corpo occider non potea.

 

Verso 1. Volubil. Girevole. // 2. In che. Nella qual ruota. Il nostro stame. Intende la nostra vita. // 3. De’ miei danni. Delle mie calamità future. // 5. Quella. Accusativo. Per che. Per cui. Per cagion della quale. Fame. Desiderio.

SONETTO LIV.

Potè ben Morte privarlo delle bellezze di Laura,

ma non della memoria di sue virtù.

Or ài fatto l’estremo di tua possa,
O crudel Morte, or ài ’l regno d’Amore
Impoverito, or di bellezza il fiore
E ’l lume ài spento, e chiuso in poca fossa;

Or ài spogliata nostra vita e scossa
D’ogni ornamento e del sovran suo onore:
Ma la fama e ’l valor, che mai non more,
Non è in tua forza: abbiti ignude l’ossa;

Chè l’altro à ’l Cielo, e di sua chiaritate,
Quasi d’un più bel Sol, s’allegra e gloria;
E fia al mondo de’ buon sempre in memoria.

Vinca ’l cor vostro in sua tanta vittoria,
Angel novo, lassù di me pietate,
Come vinse qui ’l mio vostra beltate.

 

Verso 5. Ora hai spogliata e scossa, cioè privata, la nostra vita. // 6. Sovran. Sommo. Primo. Maggiore. // 8. In tua forza. In tuo potere. In tua mano. // 9. L’altro. Il resto, cioè lo spirito di Laura. Accusativo. Sua. Cioè dello spirito di Laura. // 11. E fia al mondo de’ buon. Ed esso spirito di Laura sarà al mondo de’ buoni. // 12-14. O Laura, novello angelo, sia vinto, cioè sia preso, sia tocco, lassù in cielo il cuor vostro, in tanto suo trionfo, da alcuna pietà di me, siccome il cor mio fu vinto quaggiù in terra dalla vostra bellezza.

SONETTO LV.

S’acqueta nel suo dolore vedendola beata in cielo,

ed immortal sulla terra.

L’aura e l’odore e ’l refrigerio e l’ombra
Del dolce lauro, e sua vista fiorita,
Lume e riposo di mia stanca vita,
Tolto à colei che tutto ’l mondo sgombra.

Come a noi ’l Sol, se sua soror l’adombra,
Così, l’alta mia luce a me sparita,
Io cheggio a Morte incontr’a Morte aita;
Di sì scuri pensieri Amor m’ingombra.

Dormito ài, bella donna, un breve sonno:
Or se’ svegliata fra gli spirti eletti,
Ove nel suo fattor l’alma s’interna.

E, se mie rime alcuna cosa ponno,
Consacrata fra i nobili intelletti,
Fia del tuo nome qui memoria eterna.

 

Verso 2. Sua vista. La forma, l’aspetto d’esso lauro. // 4. Colei. Vuoi dir la morte. // 5. A noi ’l Sol. Suppliscasi sparisce. Sua soror. Sua sorella. Cioè la luna. // 6. Sparita. Essendo sparita. // 7. Cioè: chieggo di morire per esser libero dal cordoglio in cui vivo per la morte di Laura. // 11. Ove. In luogo ove. Colà dove. Nel cielo ove. Fra i quali spiriti. // 12. Ponno. Possono. – *Virg.: «Si quid mea carmina possunt, Nulla dies unquam memori vos existimet ævo.»*

SONETTO LVI.

Nell’ultimo dì in ch’ei la vide, tristo presagì

a sè stesso grandi sventure.

L’ultimo, lasso, de’ miei giorni allegri,
Che pochi ho visto in questo viver breve,
Giunto era; e fatto ’l cor tepida neve,
Forse presago de’ dì tristi e negri.

Qual à già i nervi e i polsi e i pensier egri
Cui domestica febbre assalir deve,
Tal mi sentia, non sapend’io che leve
Venisse ’l fin de’ miei ben non integri.

Gli occhi belli, ora in ciel chiari e felici
Del lume onde salute e vita piove,
Lasciando i miei qui miseri e mendici,

Dicean lor con faville oneste e nove:
Rimanetevi in pace, o cari amici,
Qui mai più no, ma rivedrenne altrove.

 

Verso 2. Che. Dei quali. // 3. E fatto ’l cor. E divenuto il mio cuore. Suppliscasi era. // 5. Qual. Come. Egri. Infermi. // 6. Cui. Quegli cui. Domestica febbre. Febbre consueta, cioè quotidiana o terzana o quartana. // 7-8. Mi sentia. Io mi sentiva. Leve venisse. Venisse spedito, sollecito. Cioè fosse vicino. Non integri. Non interi. Imperfetti. // 9-10. Chiari e felici Del lume onde. Fatti risplendenti e felici da quel lume da cui. // 12. Lor. Cioè agli occhi miei. // 14. Rivedrenne. Ci rivedremo.

SONETTO LVII.

Cieco non conobbe che gli sguardi di lei

in quel dì doveano essere gli ultimi.

O giorno, o ora, o ultimo momento,
O stelle congiurate a’ mpoverirme!
O fido sguardo, or che volei tu dirme,
Partend’io per non esser mai contento?

Or conosco i miei danni, or mi risento:
Ch’i’ credeva (ahi credenze vane e ’nfirme!)
Perder parte, non tutto, al dipartirme.
Quante speranze se ne porta il vento!

Chè già ’l contrario era ordinato in cielo;
Spegner l’almo mio lume ond’io vivea;
E scritto era in sua dolce amara vista.

Ma ’nnanzi agli occhi m’era posto un velo,
Che mi fea non veder quel ch’i’ vedea,
Per far mia vita subito più trista.

 

Verso 2. A ’mpoverirme. A impoverirmi. // 3. Sguardo, di Laura. Volei. Volevi. Dirme. Dirmi. // 4. Partend’io. Da te. Mai. Mai più. // 5. Mi risento. Ripiglio il sentimento, il senno. Ritorno in me stesso. // 6. Infirme. Inferme. // 7. Perder parte ec. Perder la vista di Laura per qualche tempo, non per sempre. [A.] – Al dipartirme. Al partirmi. // 8. Ovid.: «Heu mihi quam longe spem tulit aura meam.»* // 9. Ordinato. Stabilito. // 11. E scritto era. E ciò era altresì scritto. Sue. Del mio lume, cioè di Laura. Vista. Aspetto. // 12. M’era posto. Mi stava. // 13. Fea. Facea. // 14. Subito più trista. Tanto più trista quanto che la morte di Laura mi sarebbe riuscita improvvisa.

SONETTO LVIII.

E’ doveva antiveder il suo danno

all’insolito sfavillare degli occhi di lei.

Quel vago, dolce, caro, onesto sguardo
Dir parea: to’ di me quel che tu puoi;
Chè mai più qui non mi vedrai da poi
Ch’arai quinci ’l piè mosso a mover tardo.

Intelletto veloce più che pardo,
Pigro in antiveder i dolor tuoi,
Come non vedestu negli occhi suoi
Quel che vedi ora, ond’io mi struggo ed ardo!

Taciti, sfavillando oltra lor modo,
Dicean: o lumi amici, che gran tempo,
Con tal dolcezza feste di noi specchi,

Il Ciel n’aspetta: a voi parrà per tempo;
Ma chi ne strinse qui, dissolve il nodo:
E ’l vostro, per farv’ira, vuol che ’nvecchi.

 

Verso 2. To’. Togli. Cioè prendi. Quel. Cioè quel piacere. // 3. Qui. In terra. Da poi. Dopo. // 4. Arai. Avrai. Quinci. Di qua. Mover. Muoversi. // 5. Veloce. Che pur sei di tua natura veloce. // 7. Vedestu. Vedesti tu. // 8. Onde. Dipende da quel, che vuol dire la morte di Laura. // 9. Oltra lor modo. Più del loro usato. // 10. Dicean. Agli occhi miei. Lumi. Occhi. // 11. Feste di noi specchi. Vi faceste di noi, due specchi. // 12. Ne. Ci. Per tempo. Troppo presto. // 13. Vuol dire: ma colui che ci ha posti in terra, cioè Dio, ora ce ne ritoglie. // 14. E per farvi ira vuole che il vostro nodo invecchi, cioè che voi rimanghiate in vita lungo tempo.

CANZONE V.

Visse lieto, e non visse che per lei.

E’ doveva dunque saper morire a suo tempo.

Solea da la fontana di mia vita
Allontanarme, e cercar terre e mari,
Non mio voler, ma mia stella seguendo;
E sempre andai (tal Amor diemmi aita),
In quelli esilii, quanto e’ vide, amari,
Di memoria e di speme il cor pascendo.
Or lasso, alzo la mano, e l’arma rendo
A l’empia e vïolenta mia fortuna,
Che privo m’à di sì dolce speranza.
Sol memoria m’avanza;
E pasco ’l gran desir sol di quest’una:
Onde l’alma vien men, frale e digiuna.

 

Verso 1. Solea. Persona prima. Dalla fontana di mia vita. Da Laura. // 3. Mia stella. Il mio destino. // 4. Andai. Si riferisce alla voce pascendo, che sta due versi più sotto. Tal Amor diemmi aita. Tale aiuto mi diede Amore. // 7. Alzo la mano, e l’arme rendo. Cedo. Mi rendo per vinto. – *Cic.: «Cedo fortunæ, et manum attollo.»* // 8. Empia. Spietata. // 9. Di sì dolce speranza. Di quella detta di sopra nel sesto verso, cioè di riveder Laura. // 10. M’avanza. Mi resta. // 11. Sol di quest’una. Cioè della memoria sola. Dipende da pasco.

Come a corrier tra via, se ’l cibo manca,
Convèn per forza rallentar il corso,
Scemando la virtù che ’l fea gir presto;
Così, mancando a la mia vita stanca
Quel caro nutrimento, in che di morso
Diè chi ’l mondo fa nudo e ’l mio cor mesto,
Il dolce acerbo, e ’l bel piacer molesto
Mi si fa d’ora in ora: onde ’l cammino
Sì breve non fornir spero e pavento.
Nebbia o polvere al vento,
Fuggo per più non esser pellegrino.
E così vada, s’è pur mio destino.

 

Verso 1. Tra via. Per via. // 2. Convèn. Conviene. // 3. Scemando. Verbo neutro. Virtù. Forza. Fea. Facea. // 5-6. Quel caro nutrimento. Cioè la vista di Laura, o la speranza di essa vista. In che di morso Diè chi ’l mondo fa nudo e ’l mio cor mesto. In cui diede di morso quella che fa nudo il mondo (cioè privo del suo più bello ornamento, che era Laura), e mesto il cuor mio. Vuol dire: che mi fu tolto dalla morte. – *Dante, Purg. VII: «Quivi sto io co’ parvoli innocenti, Da’ denti morsi de la morte.»* // 7-9. Il dolce acerbo, e ’l bel piacer molesto Mi si fa d’ora in ora. Il dolce mi diviene acerbo, e il piacer noioso ogni giorno più. Onde ’l cammino Sì breve non fornir spero e pavento. Onde io dubito di non arrivare a compiere il corso naturale della vita umana, che è così breve; e questo mio dubbio da un lato è una speranza, perchè la vita m’è in odio, dall’altro è una paura, perocchè la morte è un passo pericoloso e terribile, ed io ho che temere assai del mio stato nella vita futura. // 10-11. Io fuggo, cioè corro, così rapidamente come si vede fuggir la nebbia o la polvere cacciata dal vento, per non esser più pellegrino, cioè verso il termine della mia peregrinazione terrena. // 12. E così vada. E così sia, cioè che io corra così prestamente al mio fine, e che io non compia il corso naturale della nostra vita.

Mai questa mortal vita a me non piacque
(Sassel Amor, con cui spesso ne parlo)
Se non per lei che fu ’l suo lume e ’l mio.
Poi che ’n terra morendo, al ciel rinacque
Quello spirto ond’io vissi, a seguitarlo
(Licito fosse) è ’l mio sommo desio.
Ma da dolermi ò ben sempre perch’io
Fui mal accorto a provveder mio stato,
Ch’Amor mostrommi sotto quel bel ciglio,
Per darmi altro consiglio:
Chè tal morì già tristo e sconsolato,
Cui poco innanzi era ’l morir beato.

 

Verso 2. Sassel. Sel sa. Lo sa. // 3. Suo. Cioè di questa mortal vita. // 6. Licito fosse. Maniera significativa di desiderio. Licito sta per lecito. È. È volto. // 8. A provveder mio stato. Cioè a prevedere la mia presente miseria, e ripararla. // 9. Che. Il quale stato. Accusativo. Sotto quel bel ciglio. Cioè negli occhi di Laura. Veggasi il Sonetto precedente. // 10. Cioè: per consigliarmi di lasciar la vita innanzi che mi avvenisse questa disavventura che poi mi è sopraggiunta. // 11-12. Perocchè non mancano di quelli che sono morti miseri e sconsolati, i quali, se fossero usciti del mondo un poco innanzi, avrebbero fatta una morte lieta.

Negli occhi ov’abitar solea ’l mio core,
Fin che mia dura sorte invidia n’ebbe,
Che di sì ricco albergo il pose in bando,
Di sua man propria avea descritto Amore,
Con lettre di pietà, quel ch’avverrebbe
Tosto del mio sì lungo ir desiando:
Bello e dolce morire era allor quando,
Morend’io, non moria mia vita insieme,
Anzi vivea di me l’ottima parte:
Or mie speranze sparte
À Morte, e poca terra il mio ben preme;
E vivo; e mai nol penso ch’i’ non treme.

 

Verso 5. Lettre. Lettere. // 10. Sparte. Sparse. Disperse. Annullate. // 12. Ch’i’ non treme. Senza tremare. Treme sta per tremi. – *Virg.: «Nunc vivo, nec adhuc homines, lucemque relinquo.»*

Se stato fosse il mio poco intelletto
Meco al bisogno, e non altra vaghezza
L’avesse, desviando, altrove volto,
Ne la fronte a Madonna avrei ben letto:
Al fin se’ giunto d’ogni tua dolcezza
Ed al principio del tuo amaro molto.
Questo intendendo, dolcemente sciolto
In sua presenza del mortal mio velo
E di questa noiosa e grave carne,
Potea innanzi lei andarne
A veder preparar sua sedia in cielo:
Or l’andrò dietro omai con altro pelo.

 

Verso 2. Meco. Dipende da stato fosse. Al bisogno. In quel bisogno. Allora che bisognava. Come voleva il bisogno. In quella occasione. Vaghezza. Voglia. // 3. Desviando. Disviandolo. // 6. Amaro. Nome sostantivo. // 12. L’andrò dietro. Le andrò dietro. Andrò dietro a lei. Con altro pelo. Cioè con pel canuto.

Canzon, s’uom trovi in suo amor viver queto
Di’: muor mentre se’ lieto:
Chè morte al tempo è non duol, ma refugio;
E chi ben può morir, non cerchi indugio.

 

Verso 1. S’uom trovi in suo amor viver queto. Se trovi alcuno che viva riposatamente amando. // 2. Muor. Muori. Imperativo. // 3. Al tempo. A suo tempo. A tempo opportuno. Refugio. Porto sicuro contro i mali che, vivendo, potrebbero sopravvenire. // 4. Ben può morir. Può morir bene, cioè in istato felice.

SESTINA.

Misero, tanto più brama la morte, quanto più sa

ch’ei fu contento e felice.

Mia benigna fortuna e ’l viver lieto,
I chiari giorni e le tranquille notti,
E i soavi sospiri, e ’l dolce stile
Che solea risonar in versi e ’n rime,
Vôlti subitamente in doglia e ’n pianto
Odiar vita mi fanno e bramar morte.

 

Verso 5. Vôlti. Convertiti. Cangiati.

 

Crudele, acerba, inesorabil Morte,
Cagion mi dài di mai non esser lieto,
Ma di menar tutta mia vita in pianto,
E i giorni oscuri e le dogliose notti.
I miei gravi sospir non vanno in rime,
E ’l mio duro martìr vince ogni stile.

 

Verso 5. Non vanno in rime. Non sono cose da porsi in rima, cose da poesia. // 6. Vince ogni stile. Non può esser dato ad intendere con parole.

Ov’è condotto il mio amoroso stile?
A parlar d’ira, a ragionar di morte.
U’ sono i versi, u’ son giunte le rime
Che gentil cor udia pensoso e lieto?
Ov’è ’l favoleggiar d’amor le notti?
Or non parl’io nè penso altro che pianto.

 

Verso 1. Ov’è condotto. A che è ridotto. // 3. U’ sono. Ove son giunti. // 4. Che. Accusativo. Gentil cor. Vuol dir Laura, ovvero generalmente le persone gentili. // 5. Il favoleggiar d’amor le notti. Il passar le notti in ragionamenti d’amore.

 

Già mi fu col desir sì dolce il pianto,
Che condìa di dolcezza ogni agro stile,
E vegghiar mi facea tutte le notti:
Or m’è ’l pianger amaro più che morte,
Non sperando mai ’l guardo onesto e lieto,
Alto soggetto a le mie basse rime.

 

Verso 5. Il guardo onesto e lieto. Di Laura.

Chiaro segno Amor pose a le mie rime
Dentro a’ begli occhi; ed or l’à posto in pianto,
Con dolor rimembrando il tempo lieto;
Ond’io vo col penser cangiando stile,
E ripregando te, pallida Morte,
Che mi sottragghi a sì penose notti.

 

Verso 1. Segno. Vuol dir soggetto. // 3. Rimembrando. Rimembrando io. // 4. Col penser cangiando stile. Cangiando lo stile come è in me cangiato il pensiero, cioè lo stato dell’animo, fatto tristo e dolente, di lieto che egli era.

Fuggito è ’l sonno a le mie crude notti,
E ’l suono usato a le mie roche rime,
Che non sanno trattar altro che morte;
Così è ’l mio cantar converso in pianto.
Non ha ’l regno d’Amor sì vario stile;
Ch’è tanto or tristo, quanto mai fu lieto.

 

Verso 2. Usato. Consueto. // 4. Converso. Mutato. // 5-6. Vuol dire: nessun seguace di Amore ebbe mai uno stile così vario e discorde da sè medesimo come è il mio, che tanto è doloroso e tristo al presente, quanto fu mai lieto in altro tempo.

Nessun visse già mai più di me lieto:
Nessun vive più tristo e giorni e notti:
E doppiando ’l dolor, doppia lo stile,
Che trae del cor sì lagrimose rime.
Vissi di speme; or vivo pur di pianto,
Nè contra Morte spero altro che Morte.

 

Verso 3. Doppiando. Raddoppiandosi. Doppia lo stile. Si raddoppia il mio stile, cioè il mio dire. Ha riguardo al raddoppiamento della presente Sestina, la quale ha dodici stanze, dove le altre ne hanno sei. // 4. Del cor. Dal mio cuore. // 5. Pur. Solamente.

Morte m’à morto; e sola può far Morte
Ch’i’ torni a riveder quel viso lieto,
Che piacer mi facea i sospiri e ’l pianto,
L’aura dolce e la pioggia a le mie notti;
Quando i pensieri eletti tessea in rime,
Amor alzando il mio debile stile.

 

Verso 1. Morto. Ucciso. // 4. L’aura dolce e la pioggia. Chiama aura dolce i suoi sospiri, e pioggia il suo pianto, detti nel verso di sopra. A le. Nelle. Dipende da piacer mi facea. // 5. Tessea. Io tessea.

Or avess’io un sì pietoso stile
Che Laura mia potesse tôrre a Morte,
Com’Euridice Orfeo sua senza rime:
Ch’i’ viverei ancor più che mai lieto.
S’esser non può, qualcuna d’este notti
Chiuda omai queste due fonti di pianto.

 

Verso 1. Avess’io. Forma desiderativa. Pietoso. Tenero. Atto a muover pietà. // 3. Com’Euridice Orfeo sua. Come Orfeo tolse a morte Euridice sua. // 5. S’esser non può. Se questo è impossibile. D’este. Di queste. // 6. Cioè ponga fine alla mia vita. Queste due fonti di pianto. Cioè questi occhi.

Amor, i’ ò molti e molt’anni pianto
Mio grave danno in doloroso stile;
Nè da te spero mai men fère notti;
E però mi son mosso a pregar Morte
Che mi tolla di qui, per farme lieto
Ov’è colei che io canto e piango in rime.

 

Verso 2. Mio grave danno. Cioè la morte di Laura. // 3. Fère. Fiere. Crudeli. Acerbe. il 5. Tolla. Tolga. Ovvero alzi. Di qui. Da questa terra. Farme. Farmi. // 6. Ove. Colà ove. Dipende dalle parole mi tolla.

Se sì alto pôn gir mie stanche rime,
Ch’aggiungan lei ch’è fuor d’ira e di pianto,
E fa ’l ciel or di sue bellezze lieto;
Ben riconoscerà ’l mutato stile,
Che già forse le piacque, anzi che Morte
Chiaro a lei giorno, a me fesse atre notti.

 

Verso 1. Pôn. Ponno. Possono. // 2. Ch’aggiungan lei. Che giungano fino a colei. Dipende da sì alto. // 4. Riconoscerà. Suppliscasi ella. Il mutato stile. Il mio stile mutato, per la sua morte, di lieto in doloroso. // 5. Anzi che. Prima che. // 6. Chiaro a lei giorno. Suppliscasi facesse. Fesse. Facesse.

 

O voi che sospirate a miglior notti,
Ch’ascoltate d’Amore o dite in rime,
Pregate non mi sia più sorda Morte,
Porto de le miserie e fin del pianto;
Muti una volta quel suo antico stile,
Ch’ogni uom attrista, e me può far sì lieto.

 

Verso 1. O amanti che sospirate in più liete notti, cioè in istato più felice del mio. Ovvero, che andate sospirando una sorte migliore di quel che è la vostra al presente. // 2. O dite. Suppliscasi d’amore. // 3. Non. Che non. // 5. Una volta. Per una volta. Per questa volta. Quel suo antico stile. Quel suo antico costume. Cioè di far tutti tristi.

 

Far mi può lieto in una o ’n poche notti:
E ’n aspro stile e ’n angosciose rime
Prego che ’l pianto mio finisca morte.

 

Verso 1. In una o ’n poche notti. Cioè uccidendomi con malattia di uno o pochi più giorni. Ovvero semplicemente, tra uno o pochi più giorni. // 3. Il pianto mio. Accusativo.

SONETTO LIX.

Invia sue rime al sepolcro di lei, perchè la preghino

di chiamarlo seco.

Ite, rime dolenti, al duro sasso
Che ’l mio caro tesoro in terra asconde;
Ivi chiamate chi dal ciel risponde,
Benchè ’l mortal sia in loco oscuro e basso.

Ditele ch’i’ son già di viver lasso,
Del navigar per queste orribili onde;
Ma ricogliendo le sue sparte fronde,
Dietro le vo pur così passo passo,

Sol di lei ragionando viva e morta,
Anzi pur viva, ed or fatta immortale,
Acciocchè ’l mondo la conosca ed ame.

Piacciale al mio passar esser accorta,
Ch’è presso omai; siami a l’incontro, e quale
Ella è nel cielo, a sè mi tiri e chiame.

 

Verso 3. Chi. Quella che. Cioè l’anima di Laura. // 4. Il mortal. Il suo mortale. Cioè la sua parte mortale, il suo corpo. // 7. Ricogliendo le sue sparte fronde. Cioè rammemorandomi le sue bellezze e virtù. Dice fronde per allusione alla pianta dell’alloro, ch’è allegoria di Laura. Sparte in vece di sparse. – *Secondo il Tassoni, il raccogliere le sparte fronde significa metter insieme le lodi di Laura sparte e divolgate, ovvero sparse in diverse rime, le quali il poeta andava mettendo insieme.* // 9. Viva e morta. Parte viva e parte morta. // 10. Pur. Solamente. Del tutto. Fatta. Divenuta. // 11. Dipende dalla parola ragionando del verso nono. // 12. Al mio passar esser accorta. Por mente quando io passerò di questa vita. // 13-14. Ch’è presso omai. Dipende dalle parole al mio passar. Siami a l’incontro. Vengami, facciamisi incontro. E quale Ella è nel cielo, a sè mi tiri e chiame. E mi tiri e chiami a sè, fatto tale, quale ella è nel cielo, cioè immortale e beato.

SONETTO LX.

Or ch’ella sa ch’ei fu onesto nell’amor suo

vorrà al fin consolarlo pietosa.

S’onesto amor può meritar mercede,
E se pietà ancor può quant’ella suole,
Mercede avrò, che più chiara che ’l sole
A Madonna ed al mondo è la mia fede.

Già di me paventosa, or sa, nol crede,
Che quello stesso ch’or per me si vôle,
Sempre si volse; e s’ella udia parole
O vedea ’l volto, or l’animo e ’l cor vede.

Ond’i’ spero che ’nfin dal ciel si doglia
De’ miei tanti sospiri: e così mostra,
Tornando a me sì piena di pietate.

E spero ch’al por giù di questa spoglia,
Venga per me con quella gente nostra,
Vera amica di Cristo e d’onestate.

 

Verso 2. Può. Ha tanta forza. // 5. Di me paventosa. Cioè sospettosa, dubbia, della onestà de’ miei desiderii. Sa, nol crede. Non solamente crede, ma sa. // 6-7. Quello stesso ch’or per me si vôle, Sempre si volse. I miei desiderii furono sempre così onesti come sono ora. Per vale da: volse sta per volle. // 11. Tornando a me. In sogno o in visione. // 12. Al por giù di questa spoglia. Al mio partir di questo corpo. Nell’ora della mia morte. Por giù vale deporre. // 13. Per me. Verso me. Incontro a me. Per condurmi in cielo. Con quella gente nostra. Vuol dir colle anime degli amanti onesti.

SONETTO LXI.

Videla in immagine quale spirito celeste.

E’ voleva seguitarla: ed ella sparì.

Vidi fra mille donne una già tale,
Ch’amorosa paura il cor m’assalse,
Mirandola in immagini non false
Agli spirti celesti in vista eguale.

Niente in lei terreno era o mortale,
Sì come a cui del ciel, non d’altro, calse.
L’alma, ch’arse per lei sì spesso ed alse,
Vaga d’ir seco, aperse ambedue l’ale.

Ma tropp’era alta al mio peso terrestre
E poco poi m’uscì ’n tutto di vista;
Di che pensando, ancor m’agghiaccio e torpo.

O belle ed alte e lucide fenestre
Onde colei che molta gente attrista
Trovò la via d’entrare in sì bel corpo!

 

Verso 1. Vidi già fra mille donne una donna tale. // 3. In immagini non false. Cioè, non per inganno della mia immaginativa, ma veramente. // 4. In vista. A vederla. In sembianza. // 6. Come quella che non altro ebbe a cuore che il cielo. // 7. L’alma. Cioè, l’anima mia. Alse. Agghiacciò. Patì freddo e gelo. // 8. Vaga. Bramosa. D’ir seco. Cioè di pareggiarla nelle virtù. // 9. Era. Cioè quella donna. Al. Rispetto al. // 10. Poco poi. Poco appresso. Indi a poco. M’uscì ’n tutto di vista. Morendo. // 11. Di che. Della qual cosa. Torpo. Irrigidisco. // 12. Intende degli occhi di Laura. // 13. Onde. Per le quali. Colei. Cioè la morte.

SONETTO LXII.

Gli sta sì fisa nel cuore e negli occhi,

ch’e’ giunge talvolta a crederla viva.

Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella
Ch’indi per Lete esser non può sbandita,
Qual io la vidi in su l’età fiorita,
Tutta accesa de’ raggi di sua stella.

Sì nel mio primo occorso onesta e bella
Veggiola in sè raccolta e sì romita.
Ch’i’ grido: ell’è ben dessa: ancora è in vita:
E ’n don le cheggio sua dolce favella.

Talor risponde e talor non fa motto.
I’, com’uom ch’erra e poi più dritto estima,
Dico alla mente mia: tu se ’ngannata:

Sai che ’n mille trecento quarantotto,
Il dì sesto d’aprile, in l’ora prima,
Del corpo uscio quell’anima beata.

 

Verso 2. Indi. Cioè dalla mia mente. Lete. Fiume dell’obblivione. // 3. Qual. Dipende dalle parole tornami a mente. // 4. Cioè tutta splendente dei raggi della stella di amore che è l’astro di Venere, creduto aver forza e signoria sopra le persone amorose. // 5. . Tanto. Nel mio primo occorso. Nel mio primo scontrarla colla immaginazione. Ovvero, quale io la vidi la prima volta in su l’età fiorita. // 8. Cheggio. Chiedo. Sua dolce favella. Qualche sua parola. Che mi faccia udir la sua voce. // 10. Più dritto estima. Più dirittamente, veramente, sanamente, giudica. Riconosce il vero. // 11. Se ’ngannata. T’inganni. // 12. Che ’n mille trecento quarantotto. Che nell’anno mille trecento quarantotto. // 13. In l’ora. Nell’ora. // 14. Uscio. Uscì.

SONETTO LXIII.

Natura, oltr’al costume, riunì in lei ogni bellezza,

ma fecela tosto sparire.

Questo nostro caduco e fragil bene,
Ch’è vento ed ombra ed à nome beltate,
Non fu già mai, se non in questa etate,
Tutto in un corpo; e ciò fu per mie pene.

Chè natura non vôl, nè si convène,
Per far ricco un, por gli altri in povertate:
Or versò in una ogni sua largitate:
Perdonimi qual è bella, o sì tène.

Non fu simil bellezza antica o nova;
Nè sarà, credo; ma fu sì coverta,
Ch’appena se n’accorse il mondo errante.

Tosto disparve; onde ’l cangiar mi giova
La poca vista a me dal cielo offerta
Sol per piacer a le sue luci sante.

 

Verso 4. Ciò. Che esso nella nostra età si trovasse tutto in un corpo. – *Senec. Ottav.: «Omnes in unam contulit laudes Deus, Talemque nasci fata voluerunt mihi.»* – 5. Chè. Perocchè. Si riferisce alle parole non fu già mai tutto in un corpo. Vôl. Vuole. // 7. Or. Ma questa volta. Versò. Cioè la Natura. In una. Cioè in Laura. Largitate. Liberalità. // 8. Qual. Qualunque donna. Si tène. Si tiene, cioè si reputa, bella. // 9-10. Non ci ebbe mai al mondo, o vogliasi ai tempi moderni o vogliasi in antico, e non ci avrà, credo, mai, una bellezza simile a questa (cioè alla bellezza di Laura): ma ella visse sì ritirata e nascosta. Coverta sta per coperta. // 12-14. Onde ’l cangiar mi giova ec. Onde, cioè per essere sparita dal mondo quella bellezza, io sono contento di venir perdendo per la età la debole e imperfetta vista che il Cielo mi avea conceduta, acciò solamente che io vedessi gli occhi di Laura, e procacciassi di piacer loro.

SONETTO LXIV.

Disingannato dall’amor suo di quaggiù,

rivolgesi ad amarla nel cielo.

O tempo, o ciel volubil, che fuggendo
Inganni i ciechi e miseri mortali;
O dì veloci più che vento e strali,
Or ab esperto vostre frodi intendo.

Ma scuso voi, e me stesso riprendo
Che natura a volar v’aperse l’ali;
A me diede occhi: ed io pur ne’ miei mali
Li tenni; onde vergogna e dolor prendo.

E sarebbe ora, ed è passata omai,
Da rivoltarli in più secura parte,
E poner fine agl’infiniti guai.

Nè dal tuo giogo, Amor, l’alma si parte,
Ma dal suo mal; con che studio, tu ’l sai:
Non a caso è virtute, anzi, è bell’arte.

 

Verso l. Volubil. Girevole. Rotante. // 2. I ciechi e miseri mortali. Che non si accorgono del vostro fuggir così ratto, e par che si aspettino di avere a viver sempre. // 4. Ab esperto. Per esperienza. Per prova. // 7-2. Pur ne’ miei mali Li tenni. Vuol dire: non attesi ad altro che a cose notevoli all’anima mia. Pur vale solamente. // 10. Vuol dire: di pensare agli affari della salute eterna. // 11. Poner. Porre. // 12. L’alma. L’alma mia. // 13-14. Ma solo si parte da Laura; e questo ancora, tu sai con che studio ella il fa, cioè sai che ella non si parte da Laura per alcuna propria diligenza o per alcuno sforzo, ma per necessità e per caso, cioè per esser colei partita dal mondo. Or la virtù non si acquista già per caso, ma per volontà e per disciplina.

SONETTO LXV.

Ben a ragione e’ teneasi felice in amarla,

se Dio se la tolse come cosa sua.

 

Quel che d’odore e di color vincea
L’odorifero e lucido orïente,
Frutti, fiori, erbe e frondi: onde ’l ponente
D’ogni rara eccellenzia il pregio avea;

Dolce mio lauro, ov’abitar solea
Ogni bellezza, ogni virtute ardente,
Vedeva a la sua ombra onestamente
Il mio Signor sedersi e la mia Dea.

Ancor io il nido di pensieri eletti
Posi in quell’alma pianta; e ’n foco e ’n gelo
Tremando, ardendo, assai felice fui.

Pieno era ’l mondo de’ suoi onor perfetti;
Allor che Dio, per adornarne il Cielo,
La si ritolse: e cosa era da lui.

 

Verso 1. Quel. Quel dolce mio lauro. Veggasi il verso quinto. // 2. Odorifero. Perchè i paesi orientali producono copia grande e squisite qualità di odori. Lucido. Perchè dalle parti dell’oriente viene il giorno. // 8. Frutti, fiori, erbe, e frondi. Cioè dell’oriente. Dipende da vincea. Il ponente. Essendo nata Laura in paese occidentale. // 4. Il pregio. Il maggiore, il primo, il principal vanto. // 8. Il mio signor. Amore. La mia Dea. Laura. // 14. La si ritolse. Se la riprese. Cosa era da lui. Era cosa da lui, cioè degna del cielo.

SONETTO LXVI.

Ei sol, che la piange, e ’l cielo, che la possiede,

la conobbero mentre visse.

Lasciato ài, Morte, senza sole il mondo
Oscuro e freddo, Amor cieco ed inerme,
Leggiadria ignuda, le bellezze inferme,
Me sconsolato ed a me grave pondo;

Cortesia in bando ed onestate in fondo
Dogliom’io sol, nè sol ò da dolerme;
Chè svelto ài di virtute il chiaro germe.
Spento il primo valor, qual fia il secondo?

Pianger l’aere e la terra e ’l mar devrebbe
L’uman legnaggio, che, senz’ella, è quasi
Senza fior prato, o senza gemma anello.

Non la conobbe il mondo mentre l’ebbe:
Conobbil’io, ch’a pianger qui rimasi,
E ’l Ciel, che del mio pianto or si fa bello.

 

Verso 4. Ed a me grave pondo. E grave peso a me stesso. – *Ovid.: «Me mihi ferre grave est.»* // 6. Nè sol. Nè solo io. Ò da dolerme. Ho cagion di dolermi. // 7. Chè. Perocchè. Svelto ài. Hai svelto. // 9. Pianger. Compiangere. Devrebbe. Dovrebbe. // 11. Dante, Purg. XXIII, 31: «Parean l’occhiaie anella senza gemme.»* // 14. E ’l Ciel. E conobbela il Cielo. Del mio pianto. Per la cagione del mio pianto, che è la morte di Laura, volata a far bello il cielo.

SONETTO LXVII.

Si scusa di non averla lodata com’ella merita,

perchè gli era impossibile.

Conobbi, quanto il Ciel gli occhi m’aperse,
Quanto studio ed Amor m’alzaron l’ali,
Cose nove e leggiadre, ma mortali,
Che ’n un soggetto ogni stella cosperse.

L’altre tante, sì strane e sì diverse
Forme altere, celesti ed immortali,
Perchè non furo a l’intelletto eguali,
La mia debile vista non sofferse.

Onde quant’io di lei parlai nè scrissi,
Ch’or per lodi anzi a Dio preghi mi rende,
Fu breve stilla d’infiniti abissi:

Chè stilo oltra l’ingegno non si stende;
E per aver uom gli occhi nel Sol fissi,
Tanto si vede men, quanto più splende.

 

Versi 1-2. Quanto. Per quanto. In quanto. // 4. Che. Accusativo. Le quali cose. In un soggetto ogni stella cosperse. Tutte le stelle, tutti i cieli, cosparsero, cioè congiuntamente sparsero, posero, in un soggetto solo, cioè in Laura. // 5-6. Vuol dir le bellezze spirituali ed immortali di Laura. // 7. All’intelletto eguali. Cioè atte ad esser comprese dal mio intendimento. // 9. . O. E. // 10. Che. Dipende da lei, che sta, nel verso antecedente. Per lodi anzi a Dio preghi mi rende. Mi contraccambia le lodi che io le porsi, pregando per me innanzi a Dio. // 11. Breve. Picciola. // 12. Perocchè lo stile, la penna, non può più di quello che portano le facoltà dell’ingegno. // 13. Per aver uom. Per quanto uno abbia, tenga. // 14. Splende. Cioè il sole. – *Dante Par. XXX: «Che, come sole il viso che più trema, Così lo rimembrar del dolce riso La mente mia da sè medesma scema.»*

SONETTO LXVIII.

La prega di consolarlo almen con la dolce

e cara vista della sua ombra.

Dolce mio caro e prezïoso pegno,
Che natura mi tolse e ’l Ciel mi guarda,
Deh come è tua pietà vêr me sì tarda,
O usato di mia vita sostegno?

Già suo’ tu far il mio sonno almen degno
De la tua vista, ed or sostien ch’i’ arda
Senz’alcun refrigerio: e chi ’l ritarda?
Pur là su non alberga ira nè sdegno;

Onde qua giuso un ben pietoso core
Talor si pasce degli altrui tormenti,
Sì ch’egli è vinto nel suo regno Amore.

Tu che dentro mi vedi, e ’l mio mal senti,
E sola puoi finir tanto dolore
Con la tua ombra acqueta i miei lamenti.

 

Verso 2. Guarda. Custodisce, serba. // 3. Vêr. Verso. // 4. Usato. Consueto. // 5. Suo’ tu far. Tu suoli fare. Tu facevi. // 6. Sostien. Sostieni. Soffri. Lasci. // 7. Chi ’l ritarda? Cioè: chi ritarda il mio refrigerio? // 9. Onde. Per le quali passioni d’ira e di sdegno. Qua giuso. Quaggiù in terra. Un ben pietoso core. Una donna amata, che sia pur d’animo pietoso. // 10. Altrui. Cioè dell’amante. – *Gioven.: «Ardeat ipsa licet, tormentis gaudet amatis.»* // 11. Egli. Voce di ripieno. Nel suo regno. Cioè nel cuor dell’amata, la quale resiste all’amore, per mostrarsi dura e sdegnosa all’amante. // 12. Senti. Conosci. // 14. Ombra. Cioè immagine che mi apparisca nel sonno.

SONETTO LXIX.

È rapito fuor di sè, contento e beato

di averla veduta, e sentita parlare.

Deh qual pietà, qual angel fu sì presto
A portar sopra ’l cielo il mio cordoglio?
Ch’ancor sento tornar pur come soglio
Madonna in quel suo atto dolce onesto

Ad acquetar il cor misero e mesto,
Piena sì d’umiltà, vôta d’orgoglio,
E ’n somma tal, ch’a morte i’ mi ritoglio,
E vivo, e ’l viver più non m’è molesto.

Beata s’è, che può beare altrui
Con la sua vista, ovver con le parole
Intellette da noi soli ambedui:

Fedel mio caro, assai di te mi dole;
Ma pur per nostro ben dura ti fui:
Dice, e cos’altre d’arrestar il Sole.

 

Verso 1. Deh. Interiezione di meraviglia. // 2. A portar sopra ’l cielo. Ad annunziare a Laura. Il mio cordoglio. Quello significato nel Sonetto antecedente, cioè dell’esser privo della visione di Laura in sogno. // 3. Chè. Poichè. Ancor. Di nuovo. Un’altra volta. Tornar. In sogno. // 5. Ad acquetar. Dipende dal verbo tornar, che sta nel terzo verso. Il cor. Il mio cuore. // 6. Piena sì. Sì piena. Vôta. Sì vota. // 7. Ritoglio. Ritolgo. // 9. Beata s’è. Beata si è. È beata. // 11. Intellette. Intese. Ambedui. Ambedue. // 13. Pur. Solo. // 14. Cos’altre. Altre cose. D’arrestar. Da arrestare. Tali, sì dolci, da arrestare.

SONETTO LXX.

Mentr’ei piange, essa accorre ad asciugargli

le lagrime, e lo riconforta.

Del cibo onde ’l Signor mio sempre abbonda,
Lagrime e doglia, il cor lasso nudrisco;
E spesso tremo e spesso impallidisco,
Pensando alla sua piaga aspra e profonda.

Ma chi nè prima, simil, nè seconda
Ebbe al suo tempo, al letto in ch’io languisco,
Vien tal ch’a pena a rimirar l’ardisco,
E pietosa s’asside in su la sponda.

Con quella man che tanto desiai,
M’asciuga gli occhi, e col suo dir m’apporta
Dolcezza ch’uom mortal non sentì mai.

Che val, dice, a saver, chi si sconforta?
Non pianger più; non m’ài tu pianto assai?
Ch’or fostu vivo com’io non son morta.

 

Verso 1. Onde. Di cui. Il Signor mio. Amore. // 2. Lagrime e doglia. Il qual cibo sono lagrime e doglia. // 4. Sua. Cioè del cuore. // 5. Chi. Quella che. Cioè Laura. Nè prima, simil. Nè prima, nè simile. – *Oraz.: ««Unde nil majus generatur ipso, Nec viget quidquam simile aut secundum.»* // 8. In su la sponda. Del letto. // 12. Che giova, dice, il sapere, la sapienza, se uno nell’avversità si sconforta, cioè si dà tutto in preda, si lascia trasportare, al dolore, e non sa confortarsi? // 13. Assai. Abbastanza. // 14. Chè. Perocchè. Fostu vivo com’io non son morta. Fossi tu veramente vivo, come io in verità non son morta. Cioè vivessi tu di quella vita vera e immortale che io vivo. Forma desiderativa.

SONETTO LXXI.

E’ morrebbe di dolore, s’ella talvolta nol consolasse

co’ suoi apparimenti.

Ripensando a quel, ch’oggi il cielo onora,
Soave sguardo, al chinar l’aurea testa,
Al volto, a quella angelica modesta
Voce, che m’addolciva ed or m’accora;

Gran maraviglia ò com’io viva ancora:
Nè vivrei già, se chi tra bella e onesta,
Qual fu più, lasciò in dubbio, non sì presta
Fosse al mio scampo là verso l’aurora.

O che dolci accoglienze e caste e pie!
E come intentamente ascolta e nota
La lunga istoria de le pene mie!

Poi che ’l dì chiaro par che la percota,
Tornasi al ciel, che sa tutte le vie,
Umida gli occhi e l’una e l’altra gota.

 

Versi 1-2. A quel, ch’oggi il cielo onora, Soave sguardo. A quel soave sguardo, ch’oggi onora il cielo. L’aurea testa. Dell’aurea, cioè bionda, testa. // 6-8. Chi tra bella e onesta, Qual fu più, lasciò in dubbio. Colei che lasciò in dubbio se fosse più bella o più onesta, se avesse più di bellezza o più di onestà. – *Dante: «La mia sorella che tra bella e buona Non so qual fosse più.»* – Non sì presta Fosse al mio scampo là verso l’aurora. Non fosse sì presta, cioè attenta, sollecita, a darmi soccorso, apparendomi in sogno là in sul far dell’aurora. // 9. Accoglienze. Cioè saluti e cose tali. Pie. Pietose. // 12. Poi che. Quando. // 13. Tutte le vie. Di andare al cielo. Ha riguardo alle virtù avute ed eccitate da Laura in sua vita. // 14. Virg.: «Et lacrimis oculos soffusa nitentes.»*

SONETTO LXXII.

Il dolore di averla perduta è sì forte,

che niente più varrà a mitigarglielo.

Fu forse un tempo dolce cosa amore
(Non perch’io sappia il quando); or è sì amara
Che nulla più. Ben sa ’l ver chi l’impara,
Com’ ò fatt’io con mio grave dolore.

Quella che fu del secol nostro onore,
Or è del ciel che tutto orna e rischiara;
Fe mia requie a’ suoi giorni e breve e rara,
Or m’à d’ogni riposo tratto fore.

Ogni mio ben crudel Morte m’à tolto;
Nè gran prosperità il mio stato avverso
Può consolar di quel bel spirto sciolto.

Piansi e cantai; non so più mutar verso,
Ma dì e notte il duol ne l’alma accolto
Per la lingua e per gli occhi sfogo e verso.

 

Verso 2. Non perch’io sappia il quando. Non già che io sappia quando ciò fosse. // 6. Or ò. Suppliscasi onore. Del ciel che tutto orna e rischiara. Intendono del terzo cielo, cioè del cielo di Venere. // 7. Fe. Fece. A’ suoi giorni. In sua vita. Mentre ella visse. // 8. Fore. Fuori. // 9. Crudel. Si riferisce a Morte. // 10-11. Nè la gran prosperità di quel bello spirito sciolto, cioè libero dai legami del corpo, può consolare il mio stato avverso. // 12. Fu già un tempo che io venni talvolta piangendo e talvolta cantando; ora io non so più mutar verso, cioè modo, stile: non so fare altro che lamentarmi. // 13. Accolto. Raccolto.

SONETTO LXXIII.

Pensando che Laura è in Cielo, si pente

del suo dolore eccessivo e si acqueta.

Spinse amor e dolor ov’ir non ebbe,
La mia lingua avviata a lamentarsi,
A dir di lei per ch’io cantai ed arsi,
Quel che, se fosse ver, torto sarebbe;

Ch’assai ’l mio stato rio quetar devrebbe
Quella beata, e ’l cor racconsolarsi
Vedendo tanto lei domesticarsi
Con colui che, vivendo, in cor sempr’ebbe.

E ben m’acquieto e me stesso consolo;
Nè vorrei rivederla in questo inferno;
Anzi voglio morire e viver solo:

Che più bella che mai, con l’occhio interno,
Con gli angeli la veggio alzata a volo
A’ pie del suo e mio Signore eterno.

 

Palinodia del precedente.

Verso 3. Per ch’io. Per la quale io. // 4. Quel. Cioè che la gran prosperità di quel bel spirto sciolto non può consolar il mio stato avverso, parole del Sonetto qui dietro. Torto. Ingiusto. Sconvenevole. Biasimevole. // 5. Assai. Abbastanza. Devrebbe. Dovrebbe. // 6. Quella beata. Cioè la beatitudine di colei. E ’l cor. E il mio cuore dovrebbe. // 8. Colui. Cioè Dio. Che. Accusativo. Il quale ella. // 9. E ben. E veramente. E in effetto. // 10. Rivederla in questo inferno. Rivederla viva in questa misera terra. // 11. Solo. Cioè senza lei.

SONETTO LXXIV.

Erge tutti i suoi pensieri al cielo, dove Laura

lo cerca, lo aspetta e lo invita.

Gli angeli eletti e l’anime beate
Cittadine del cielo, il primo giorno
Che Madonna passò, le furo intorno
Piene di maraviglia e di pietate.

Che luce è questa, qual nova beltate?
Dicean tra lor; perch’abito sì adorno
Dal mondo errante a quest’alto soggiorno
Non salì mai in tutta questa etate.

Ella, contenta aver cangiato albergo,
Si paragona pur coi più perfetti;
E parte ad or ad or si volge a tergo

Mirando s’io la seguo, e par ch’aspetti:
Ond’io voglie e pensier tutti al ciel ergo;
Perch’io l’odo pregar pur ch’i’ m’affretti.

 

Verso 3. Passò. Passò di questa vita. // 8. In tutta questa etate. In tutto questo secolo depravato. Da gran tempo in qua. // 9. Aver. Di avere. // 11. E parte. E parimente. E insieme.

SONETTO LXXV.

Chiede in premio dell’amor suo, ch’ella

gli ottenga di vederla ben presto.

Donna, che lieta col principio nostro
Ti stai, come tua vita alma richiede,
Assisa in alta e glorïosa sede,
E d’altro ornata che di perle o d’ostro;

O de le donne altero e raro mostro,
Or nel volto di lui, che tutto vede,
Vedi ’l mio amore e quella pura fede,
Per ch’io tante versai lagrime e ’nchiostro;

E senti che vêr te il mio core in terra
Tal fu qual ora è in cielo, e mai non volsi
Altro da te che ’l Sol degli occhi tuoi.

Dunque per ammendar la lunga guerra,
Per cui dal mondo a te sola mi volsi,
Prega ch’i’ venga tosto a star con voi.

 

Verso 1. Col principio nostro. Cioè con Dio. // 2. Come tua vita alma richiede. Come si conviene, come è dovuto, alla santa vita che tu menasti. // 5. Mostro. È detto per prodigio. // 6. Dante: «Or più nel volto di chi tutto vede.»* // 8. Per che. Per cui. // 9. Senti. Conosci. Vêr. Verso. In terra. Quando tu eri in terra. // 10. Qual ora è in cielo. Qual è ora che tu sei nel cielo. Volsi. Volli. // 12. Ammendar. Ricompensare. La lunga guerra. La lunga e travagliosa passione. // 14. Con voi. Con Dio e con te. Ovvero, con voi Beati.

SONETTO LXXVI.

Privo d’ogni conforto, spera ch’ella gl’impetri

di rivederla nel cielo.

Da’ più begli occhi e dal più chiaro viso
Che mai splendesse, e da’ più bei capelli,
Che facean l’oro e ’l Sol parer men belli;
Dal più dolce parlar e dolce riso;

Da le man, da le braccia che conquiso,
Senza moversi, avrian quai più rebelli
Fur d’Amor mai; da’ più bei piedi snelli;
Da la persona fatta in paradiso,

Prendean vita i miei spirti: or n’à diletto
Il Re celeste, i suo’ alati corrieri;
Ed io son qui rimaso ignudo e cieco.

Sol un conforto a le mie pene aspetto;
Ch’ella, che vede tutti i miei pensieri,
M’impetre grazia ch’i’ possa esser seco.

 

Verso 5. Conquiso. Cioè vinto, domo. // 6-7. Quai più ribelli Fur d’Amor mai. I più ribelli ad Amore, cioè i più alieni dall’Amore, che mai fossero al mondo. // 10. I suo’ alati corrieri. Gli angeli. // 14. Impetre. Impetri.

SONETTO LXXVII.

Spera e crede già vicino quel dì in ch’ella

a sè ’l chiami per volarsene a lei.

E’ mi par d’or in ora udire il messo
Che Madonna mi mande a sè chiamando:
Così dentro e di for mi vo cangiando,
E sono in non molt’anni sì dimesso,

Ch’a pena riconosco omai me stesso:
Tutto ’l viver usato ò messo in bando.
Sarei contento di sapere il quando:
Ma pur dovrebbe il tempo esser da presso.

O felice quel dì, che del terreno
Carcere uscendo, lasci rotta e sparta
Questa mia grave e frale e mortal gonna;

E da sì folte tenebre mi parta,
Volando tanto su nel bel sereno,
Ch’i’ veggia il mio Signore e la mia Donna!

 

Verso 1. E’. Voce di ripieno. // 2. Mande. Mandi. // 3. For. Fuori. // 4. Dimesso. Dismesso. Mutato. // 6. Usato. Consueto. // 7. Il quando. Cioè quando sarà che Laura mi chiami a sè. // 8. Devrebbe. Dovrebbe. Da presso. Vicino. // 10. Lasci. Io lasci. Sparta. Sparsa. Cioè distesa in terra. // 11. Gonna. Veste. Cioè carne. – *Cic. De Senect.: «O felicem et præclarum illum diem cum ad illud divinorum animorum concilium, cœtumque proficiscar et ex hac turba et colluvione discedam!»* // 13. Tanto su. Tanto in alto. Nel bel sereno. Nell’etere puro. Negli spazii del cielo.

SONETTO LXXVIII.

Le parla in sonno de’ suoi mali. Ella s’attrista.

Ei vinto dal dolore si sveglia.

L’aura mia sacra al mio stanco riposo
Spira sì spesso, ch’i’ prendo ardimento
Di dirle il mal ch’i’ ò sentito e sento;
Che vivend’ella, non sarei stato oso.

Io incomincio da quel guardo amoroso,
Che fu principio a sì lungo tormento;
Poi seguo, come misero e contento,
Di dì in dì, d’ora in ora, Amor m’à roso.

Ella si tace, e di pietà dipinta
Fiso mira pur me; parte sospira
E di lagrime oneste il viso adorna:

Onde l’anima mia dal dolor vinta,
Mentre piangendo allor seco s’adira,
Sciolta dal sonno a sè stessa ritorna.

 

Versi 1-2. L’aura mia sacra al mio stanco riposo Spira sì spesso. Vuol dir che Laura gli apparisce sì frequentemente nel sonno. Stanco vale travagliato, affannoso, inquieto. // 4. Non sarei stato oso. Non avrei ardito. Cioè di dirle il mal ch’i’ ò sentito per lei. // 7. Poi seguo, come. Poi seguito dicendo come. // 10. Pur. Solo. Parte. Insieme. A un medesimo tempo. Eziandio. // 12. Dal dolor. Di veder Laura a piangere. // 13. Seco. Seco medesimo. S’adira. Di essere stata cagione a Laura di farla piangere.

SONETTO LXXIX.

Brama la morte che Cristo sostenne per lui,

e che Laura pure in quello sostenne.

Ogni giorno mi par più di mill’anni,
Ch’i’ segua la mia fida e cara duce,
Che mi condusse al mondo, or mi conduce
Per miglior via a vita senza affanni.

E non mi posson ritener gl’inganni
Del mondo, ch’il conosco: e tanta luce
Dentr’al mio core infin dal ciel traluce,
Ch’i’ ’ncomincio a contar il tempo e i danni.

Nè minacce temer debbo di Morte,
Chè ’l Re sofferse con più grave pena,
Per farme a seguitar costante e forte;

Ed or novellamente in ogni vena
Intrò di lei che m’era data in sorte;
E non turbò la sua fronte serena.

 

Verso 2. Duce. Guida. Vuol dir Laura. // 3. Mi condusse. Mi guidò. Mi fu scorta. // 6. Chè. Perocchè. // 8. Il tempo. Che ho male o inutilmente speso. E i danni. Che ho fatti all’anima mia. // 10. Che. La quale. Accusativo. Il Re. Cristo. // 11. Farme. Farmi. Seguitar. Seguitarlo. // 12. Ed or. E che ora. Novellamente. Testè. Poco addietro. Non ha molto. // 13. Intrò. Entrò. Di lei. Cioè di Laura. // 14. Non turbò. Essa morte. Sua. Cioè di Laura.

SONETTO LXXX.

Dacch’ella morì, ei non ebbe più vita. Disprezza

dunque ed affronta la Morte.

Non può far Morte il dolce viso amaro;
Ma ’l dolce viso dolce può far Morte.
Che bisogna a morir ben altre scorte?
Quella mi scorge ond’ogni bene imparo.

E quei che del suo sangue non fu avaro,
Che col piè ruppe le tartaree porte,
Col suo morir par che mi riconforte,
Dunque vien, Morte; il tuo venir m’è caro.

E non tardar, ch’egli è ben tempo omai;
E se non fosse, e’ fu ’l tempo in quel punto
Che Madonna passò di questa vita.

D’allor innanzi un dì non vissi mai:
Seco fu’ in via, e seco al fin son giunto;
E mia giornata ho co’ suoi piè fornita.

 

Verso 1. Il dolce viso. Di Laura. // 3. Che bisogno c’è, che bisogno ho io, d’altre scorte, cioè d’altre guide, di altri esempii ed aiuti, a ben morire? // 4. Scorge. Guida. Onde. Dalla quale. // 7. Riconforte. Riconforti. // 8. Vien. Vieni. Imperativo. // 10. E se non fosse ancor tempo, a ogni modo io sono già morto in quel punto. // 12. Un dì non vissi mai. Non vissi pure un giorno. // 13. Fu’ in via. Cioè vissi. Al fin. Cioè al termine della vita.

CANZONE VI.

Gli riapparisce: e cerca, più che mai pietosa,

di consolarlo ed acquetarlo.

Quando il soave mio fido conforto,
Per dar riposo alla mia vita stanca,
Ponsi del letto in su la sponda manca
Con quel suo dolce ragionare accorto;
Tutto di pièta e di paura smorto,
Dico: onde vien tu ora, o felice alma?
Un ramoscel di palma
Ed un di lauro trae del suo bel seno;
E dice: dal sereno
Ciel empireo e di quelle sante parti
Mi mossi, e vengo sol per consolarti.

 

Verso 1. Il soave mio fido conforto. Cioè Laura. // 3. Ponsi. Si pone. Cioè apparendomi in sogno. Del letto. Del mio letto. // 5. Pièta. Pietà. // 6. Vien. Vieni. // 10. Di. Da.

In atto ed in parole la ringrazio
Umilemente, e poi domando: or donde
Sai tu il mio stato? Ed ella: le triste onde
Del pianto, di che mai tu non se’ sazio,
Con l’aura de’ sospir, per tanto spazio
Passano al cielo e turban la mia pace.
Sì forte ti dispiace
Che di questa miseria sia partita,
E giunta a miglior vita?
Che piacer ti devria, se tu m’amasti
Quanto in sembianti e ne’ tuo’ dir mostrasti.

 

Verso 2. Or donde. Ma da che, da che cosa, come. // 5. Per tanto spazio. Cioè varcando tutto lo spazio che è tra la terra e il cielo. // 7. Sì forte. Tanto. // 8. Sia. Io sia. // 10. Che. La qual cosa. Devria. Dovria. // 11. In sembianti. In quel che appariva. Ne’ tuo’ dir. Ne’ tuoi detti. Nelle tue parole.

Rispondo: io non piango altro che me stesso,
Che son rimaso in tenebre e ’n martìre,
Certo sempre del tuo al ciel salire
Come di cosa ch’uom vede da presso.
Come Dio e Natura avrebben messo
In un cor giovenil tanta virtute,
Se l’eterna salute
Non fosse destinata al suo ben fare?
O de l’anime rare,
Ch’altamente vivesti qui fra noi,
E che subito al ciel volasti poi!

 

Verso 3. Del tuo al ciel salire. Che tu sei salita al cielo. // 4. Come uno è certo di cosa ch’ei vegga da vicino. // 5. Avrebben. Avrebbero. // 9. O anima del numero delle rare. O anima rara. // 10. Altamente. Nobilmente. Virtuosamente. Santamente.

Ma io che debbo altro che pianger sempre,
Misero e sol, che senza te son nulla?
Ch’or foss’io spento al latte ed a la culla,
Per non provar de l’amorose tempre!
Ed ella: a che pur piangi e ti distempre?
Quant’era meglio alzar da terra l’ali;
E le cose mortali
E queste dolci tue fallaci ciance
Librar con giusta lance;
E seguir me, s’è ver che tanto m’ami,
Cogliendo omai qualcun di questi rami!

 

Verso 1. Che debbo altro che. Che altro debbo se non. Che debbo fare, altro che. // 3. Cioè fossi morto nella infanzia, subito nato. Forma desiderativa. – *Proper.: «Atque utinam primis animam me ponere cunis, Jussisset quævis de tribus una soror.»* // 4. De l’amorose tempre. Cioè lo stato amoroso. // 5. Ti distempre. Ti distempri. Ti struggi. // 9. Librar. Pesare. Lance. Bilancia. // 11. Cogliendo. Dipende dalle parole seguir me. Di questi rami. Di quelli detti nei versi settimo e ottavo della prima Stanza.

I’ volea dimandar, rispond’io allora,
Che voglion importar quelle due frondi.
Ed ella: tu medesmo ti rispondi,
Tu la cui penna tanto l’una onora.
Palma è vittoria; ed io, giovene ancora,
Vinsi ’l mondo e me stessa: il lauro segna
Trionfo, ond’io son degna,
Mercè di quel Signor che mi diè forza.
Or tu, s’altri ti sforza,
A lui ti volgi, a lui chiedi soccorso;
Sì che siam seco al fine del tuo corso.

 

Verso 2. Importar. Significare. Quelle due frondi. Cioè quei due rami. // 3. Ti rispondi. Imperativo. // 4. L’una. L’una di queste due frondi. Cioè il lauro. // 5. Giovene. Giovane. // 6. Segna. Significa. Dinota. // 7. Onde. Di che. Della qual cosa. // 9. Altri. Cioè il mondo, le passioni o simili. Ti sforza. Ti fa forza. // 11. Sì che. Acciocchè. Del tuo corso. Della tua vita.

Son questi capei biondi e l’aureo nodo,
Dico io, ch’ancor mi stringe, e quei begli occhi
Che fur mio Sol? Non errar con gli sciocchi,
Nè parlar, dice, o creder a lor modo.
Spirito ignudo sono; e ’n ciel mi godo:
Quel che tu cerchi, è terra già molt’anni:
Ma per trarti d’affanni,
M’è dato a parer tale. Ed ancor quella
Sarò, più che mai bella,
A te più cara, sì selvaggia e pia,
Salvando insieme tua salute e mia.

 

Verso 5. Mi. Voce che ridonda. // 6. Quel che tu cerchi. Cioè il mio corpo. Già molt’anni. Gia da più anni. // 8-11. M’è dato a parer. Mi è conceduto di parere. Tale. Cioè vestita di corpo. Ed ancora, cioè un’altra volta (e vuol dire, dopo la risurrezione della carne), sarò quella sì selvaggia e pia, cioè quella donna sì dura ad un tempo e sì pietosa, ch’io fui già per salvare la tua salute e la mia; e sarò più bella e a te più cara che mai.

I’ piango; ed ella il volto
Con le sue man m’asciuga; e poi sospira
Dolcemente; e s’adira
Con parole che i sassi romper ponno:
E dopo questo, si parte ella e ’l sonno.

 

Verso 4. Ponno. Possono. // 5. Ovid.: «Postea discedunt pariter, somnusque Deusque.» E Dante: «Poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro.»*

CANZONE VII.

Amore accusato forma, nel discolparsi,

il più splendido elogio di Laura.

Quell’antiquo mio dolce empio signore
Fatto citar dinanzi a la reina
Che la parte divina
Tien di nostra natura e ’n cima sede,
Ivi, com’oro che nel foco affina,
Mi rappresento carco di dolore,
Di paura e d’orrore,
Quasi uom che teme morte e ragion chiede;
E ’ncomincio: Madonna, il manco piede
Giovenetto pos’io nel costui regno:
Ond’altro ch’ira e sdegno
Non ebbi mai; e tanti e sì diversi
Tormenti ivi soffersi.
Ch’al fine vinta fu quella infinita
Mia pazienza, e ’n odio ebbi la vita.

 

Verso 1. Cioè Amore. Antiquo. Antico. Empio. Spietato. // 2. Fatto citar. Essendo da me stato fatto citare. A la reina. Vuol dir la Ragione. // 4. In cima. Di nostra natura. Sede. Siede. // 5. Ivi. Cioè innanzi alla Ragione. Affina. Si affina. // 6. Mi rappresento. Mi appresento. Comparisco. // 8. Ragion. Giustizia. // 10. Pos’io. Posi io. Nel costui regno. Nel regno di costui. – E dice il manco piede, per dinotare che fu un passo infelice, un traviamento. [A.] // 11. Onde. Dalla qual cosa. Per la qual cosa. Ovvero, dal quale, cioè da costui. // 13. Ivi. Nel regno di costui.

Così ’l mio tempo in fin qui trapassato
È in fiamma e ’n pene; e quante utili oneste
Vie sprezzai, quante feste,
Per servir questo lusinghier crudele!
E qual ingegno à sì parole preste
Che stringer possa ’l mio infelice stato,
E le mie d’esto ingrato
Tante e sì gravi e sì giuste querele?
Oh poco mèl, molto aloè con fele!
In quanto amaro à la mia vita avvezza
Con sua falsa dolcezza,
La qual m’attrasse a l’amorosa schiera!
Che, s’i’ non m’inganno, era
Disposto a sollevarmi alto da terra:
E’ mi tolse di pace e pose in guerra.

 

Verso 1. Infin qui. Fino a ora. // 3. Vie. Cioè occupazioni, studi. Quante feste. Quanti godimenti. // 5. À sì parole preste. Ha parole sì apparecchiate, sì spedite. // 6. Stringer. Dir pienamente con brevità. // 7. D’esto. Di questo. // 9. Fèle. Fiele. – *Giov.: «Plus aloes quam mellis habet.»* // 10. Amaro. Nome sostantivo. Avvezza. Avvezzata. // 13. Era. Io era. // 14. Virg.: «Me quoque Tollere humum, victorque virum volitare per ora.»* – Disposto. Atto. Idoneo. [A.] // 15. E pose. E mi pose.

Questi m’à fatto men amare Dio
Ch’i’ non devea, e men curar me stesso:
Per una donna ò messo
Egualmente in non cale ogni pensero.
Di ciò m’è stato consiglier sol esso,
Sempre aguzzando il giovenil desio
A l’empia cote ond’io
Sperai riposo al suo giogo aspro e fero.
Misero! a che quel chiaro ingegno altero,
E l’altre doti a me date dal Cielo?
Chè vo cangiando ’l pelo,
Nè cangiar posso l’ostinata voglia:
Così in tutto mi spoglia
Di libertà questo crudel ch’i’ accuso,
Ch’amaro viver m’à volto in dolce uso.

 

Verso 2. Che. Dipenda da men. Devea. Dovea. // 3-4. Ò messo Egualmente in non cale. // Ho trascurato ad un modo. Pensero. Pensiero. // 6. Il giovenil desio. Suppliscasi mio. // 7. A l’empia cote. Vuol dir la speranza. – *Oraz. Car. lib. II, od. VIII: «Ferus et Cupido Semper ardentes acuens sagittas Cote cruenta.»* // 8. Al suo giogo. Al travaglio, del travaglio, cagionatami dalla sua tirannide. // 9. A che. Suppliscasi: mi sono giovati e mi giovano. Altero. Alto. Nobile. Egregio. // 11. Chè. Poichè. Cangiando ’l pelo. Cioè invecchiando. // 13. In tutto. Del tutto. // 15. Volto. Convertito. Uso. Abito. Consuetudine. Assuefazione.

Cercar m’à fatto deserti paesi,
Fiere e ladri rapaci, ispidi dumi,
Dure genti e costumi,
Ed ogni error ch’e’ pellegrini intrica;
Monti, valli, paludi e mari e fiumi;
Mille lacciuoli in ogni parte tesi;
E ’l verno in strani mesi,
Con pericol presente e con fatica:
Nè costui nè quell’altra mia nemica
Ch’i’ fuggia, mi lasciavan sol un punto:
Onde, s’i’ non son giunto
Anzi tempo da morte acerba e dura,
Pietà celeste à cura
Di mia salute; non questo tiranno,
Che del mio duol si pasce e del mio danno.

 

Verso 4. E’. I. // 6. Mille lacciuoli. Cioè mille insidie, mille pericoli. Dipende da cercar. // 7. E mi ha fatto cercare il verno in mesi insoliti. Cioè m’ha condotto in paesi dove il tempo del verno si stende più che fra noi. // 9. Quell’altra mia nemica. Laura. // 10. Sol un punto. Un solo momento. // 11. Non son giunto. Non sono stato giunto, cioè sopraggiunto. // 12. Anzi tempo. Prima del tempo.

Poi che suo fui, non ebbi ora tranquilla,
Nè spero aver; e le mie notti il sonno
Sbandiro, e più non ponno
Per erbe o per incanti a sè ritrarlo.
Per inganni o per forza è fatto donno
Sovra miei spirti; e non sonò poi squilla,
Ov’io sia in qualche villa,
Ch’i’ non l’udissi: ei sa che ’l vero parlo:
Chè legno vecchio mai non rose tarlo
Come questi ’l mio core, in che s’annida,
E di morte lo sfida.
Quinci nascon le lacrime e i martìri,
Le parole e i sospiri,
Di ch’io mi vo stancando, e forse altrui.
Giudica tu, che me conosci e lui.

 

Verso 3. Ponno. Possono. // 5. È fatto. Si è fatto. È divenuto. Suppliscasi costui, cioè Amore. Donno. Signore. // 6. Poi. Cioè poichè egli fu fatto donno sovra miei spirti. Squilla. Campana. Segno delle ore. // 7. Ov’io sia. Dove che, dovunque, io mi trovassi. Qualche. Qualunque. Villa. Terra. Città. // 8. Ch’i’ non l’udissi. Vuol dire che esso, da che Amore si fu insignorito dell’animo suo, passava tutte le notti vegliando. Ei. Cioè Amore. // 9. Legno vecchio. Accusativo. // 10. Come questi ’l mio core. Suppliscasi rose e tuttavia rode. In che. In cui. // 11. Di morte. A morte. // 12. Quinci. Di qui. Da ciò. // 14. Di che. Di cui. Con cui. Mi vo stancando, e forse altrui. Vo stancando me stesso, e forse anco gli altri. // 15. Tu. Tu, o Ragione.

Il mio avversario con agre rampogne
Comincia: o donna, intendi l’altra parte,
Che ’l vero, onde si parte
Quest’ingrato, dirà senza difetto.
Questi in sua prima età fu dato a l’arte
Da vender parolette, anzi menzogne:
Nè par che si vergogne,
Tolto da quella noia al mio diletto,
Lamentarsi di me, che puro e netto
Contra al desio, che spesso il suo mal vòle,
Lui tenni, ond’or si dòle,
In dolce vita, ch’ei miseria chiama,
Salito in qualche fama
Solo per me, che ’l suo intelletto alzai
Ov’alzato per sè non fora mai.

 

Verso 1. Il mio avversario. Amore. // 2. Intendi. Ascolta. L’altra parte. Cioè l’accusato, che sono io. // 3. Che. La qual parte. Onde si parte. Dal quale si allontana. – Dirà senza difetto. Cioè tutto intiero senza tacerne punto punto. [A.] // 5-6. A l’arte Da vender parolette, anzi menzogne. Vuol dire: all’arte degli avvocati. // 7. Vergogne. Vergogni. // 8. Tolto. Essendo stato tolto, cioè trasferito. // 9. Lamentarsi. Di lamentarsi. Dipende dalle parole si vergogne. Puro e netto. Si riferisce al pronome lui, che sta nel secondo verso dopo questo. // 10. Suo. Proprio. Vole. Vuole. // 12. In dolce vita. Dipende da tenni. // 15. Non fora. Non si sarebbe.

Ei sa che ’l grande Atride e l’alto Achille
Ed Annibàl al terren vostro amaro,
E di tutti il più chiaro
Un altro e di virtute e di fortuna,
Com’a ciascun le sue stelle ordinaro,
Lasciai cader in vile amor d’ancille:
Ed a costui di mille
Donne elette eccellenti n’elessi una
Qual non si vedrà mai sotto la luna,
Benchè Lucrezia ritornasse a Roma;
E sì dolce idïoma
Le diedi ed un cantar tanto soave,
Che pensier basso o grave
Non potè mai durar dinanzi a lei.
Questi fur con costui gl’inganni miei.

 

Verso 1. Oraz.: «Prius insolentem Serva Briseis niveo colore Movit Achillem, ec. Arsit Atrides medio in triumpho Virgine rapta.»* // 2. Al terren vostro. All’Italia. Amaro. Dipende da Annibal. // 3-4. E un altro più chiaro di tutti per virtù e per fortuna. Intende di Scipione Affricano il maggiore. // 6. Ancille. Ancelle. // 9. Qual. Cioè tale, che una simile a lei. // 10. Benchè. Se anche. Quando pure. // 11. Sì dolce idioma. Un dire, un favellar, sì dolce. // 13. Grave. Molesto. Spiacevole.

Questo fu il fel, questi gli sdegni e l’ire,
Più dolci assai che di null’altra il tutto.
Di buon seme mal frutto
Mieto; e tal merito à chi ’ngrato serve.
Sì l’avea sotto l’ali mie condutto,
Ch’a donne e cavalier piacea ’l suo dire;
E sì alto salire
Il feci, che tra’ caldi ingegni ferve
Il suo nome, e de’ suoi detti conserve
Si fanno con diletto in alcun loco;
Ch’or saria forse un roco

Mormorador di corti, un uom del vulgo:
I’ l’esalto e divulgo
Per quel ch’egli ’mparò ne la mia scola
E da colei che fu nel mondo sola.

 

Verso 1. Fèl. Fiele. // 2. Che di null’altra il tutto. Che l’intiero godimento di qualunque altra donna. Null’altra sta per niun’altra. // 4. Merito. Premio. Chi ’ngrato serve. Chi fa bene a un ingrato. // 5. Cioè: io l’aveva sì fattamente educato. // 8. Ferve. Vuol dire: è famoso. // 9-10. De’ suoi detti conserve Si fanno. Cioè si raccolgono e serbansi a memoria o in iscritture i suoi detti. // 13. E divulgo. E lo rendo famoso. // 14. Per quel. Per mezzo, per virtù, di quello. // 15. Sola. Senza pari.

E per dir a l’estremo il gran servigio,
Da mill’atti inonesti l’ò ritratto;
Chè mai per alcun patto
A lui piacer non poteo cosa vile;
Giovene schivo e vergognoso in atto
Ed in pensier, poi che fatt’era uom ligio
Di lei, ch’alto vestigio
L’impresse al core, e fecel suo simìle.
Quanto à del pellegrino e del gentile,
Da lei tène e da me, di cui si biasma.
Mai notturno fantasma
D’error non fu sì pien, com’ei vêr noi;
Ch’è in grazia, da poi
Che ne conobbe, a Dio ed a la gente
Di ciò il superbo si lamenta e pente.

 

Verso 1. E per dire in somma il gran benefizio che gli ho fatto. // 2. Atti. Azioni. // 3. Patto. Modo. // 4. Poteo. Potè. // 6. Poi che fatt’era. Divenuto che fu. Ligio. Devoto. // 7-8. Alto vestigio L’impresse al core. Cioè gli si stampò profondamente nel cuore. // 9-10. Quanto egli ha di raro e di gentile, tutto lo ha da quella donna e da me, dei quali si biasima, cioè si querela. Tène sta per tiene. // 12. Com’ei vêr noi. Come egli è pieno di errore verso noi, cioè nel giudizio che fa di noi. // 13-14. Che solo da poi che ci ha conosciuti, è in grazia, cioè accetto e gradito, a Dio ed agli uomini. // 15. E pente. E si duole. E gliene dispiace.

Ancora (e questo è quel che tutto avanza)
Da volar sopra ’l ciel gli avea dat’ali
Per le cose mortali,
Che son scala al Fattor, chi ben l’estima.
Che mirando ei ben fiso quante e quali
Eran virtuti in quella sua speranza,
D’una in altra sembianza
Potea levarsi a l’alta cagion prima:
Ed ei l’à detto alcuna volta in rima.
Or m’à posto in obblio con quella donna
Ch’i’ li die’ per colonna
De la sua frale vita. A questo, un strido
Lagrimoso alzo, e grido:
Ben me la diè, ma tosto la ritolse.
Risponde: io no, ma chi per sè la volse.

 

Verso 1. Ancor. Di più. Oltracciò. E questo è quel che tutto avanza. E questo è il più. E questa è la cosa principale. // 2-4. Io gli aveva date ali da volare al cielo, innalzandosi per via delle cose mortali, che, a ben giudicarle, sono scala da salire al creatore. // 5-6. Chè. Perocchè. Quante e quali Eran virtuti. Quante e quali virtù si trovavano. In quella sua speranza. In Laura. // 7-8. Poteva, salendo su per le cose visibili, da una ad un’altra, innalzarsi fino a Dio. // 10. Ora egli si è dimenticato di me e di quella donna. // 11. Li die’. Gli diedi. // 12. A questo. Qui. // 14. Ben. Vero è che. // 15. Chi per sè la volse. Chi la volle per sè. Cioè Dio.

Al fin ambo conversi al giusto seggio,
Io con tremanti, ei con voci alte e crude,
Ciascun per sè conchiude:
Nobile donna, tua sentenza attendo.
Ella allor sorridendo:
Piacemi aver vostre questioni udite;
Ma più tempo bisogna a tanta lite.

 

Verso 1. Conversi. Rivolti. Al giusto seggio. Al tribunale della Ragione. // 2. Con tremanti. Suppliscasi voci. // 3. Ciascun. Ciascuno de’ due. Per sè. Per la sua parte. Dalla sua parte. Conchiude. Conchiude dicendo. // 7. A tanta lite. A sciorre, a decidere, tanta lite, cioè lite sì difficile o di tanto momento. – *Cino: «A sì gran piato Conven più tempo a dar sentenzia vera.»*

SONETTO LXXXI.

La sua grave età e i saggi consigli di lei

lo fanno rientrare in sè stesso.

Dicemi spesso il mio fidato speglio,
L’animo stanco e la cangiata scorza
E la scemata mia destrezza e forza:
Non ti nasconder più; tu se’ pur veglio.

Obbedir a Natura in tutto è il meglio;
Ch’a contender con lei il tempo ne sforza.
Subito allor, com’acqua il foco ammorza,
D’un lungo e grave sonno mi risveglio:

E veggio ben che ’l nostro viver vola,
E ch’esser non si può più d’una volta;
E ’n mezzo ’l cor mi sona una parola

Di lei ch’è or dal suo bel nodo sciolta,
Ma ne’ suoi giorni al mondo fu sì sola,
Ch’a tutte, s’i’ non erro, fama à tolta.

 

Verso 1. Fidato. Fido. Speglio. Specchio. // 2. Scorza. Cioè corpo. // 4. Non ti nasconder più. A te stesso. Non dissimular più il vero a te medesimo. // 5. In tutto. Onninamente. Dipende dalle parole è il meglio, non da obbedir. // 6. Che il tempo ci toglie le forze, ne sforza, da poter contrastare a lei, cioè alla Natura. // 10. Esser. Cioè al mondo. Vivere. – *Sil. Ital.: «Nec nasci bis posse datur.»* // 11. Una parola. Intende di qualche documento o ricordo morale datogli da Laura. // 12. Dal suo bel nodo. Cioè dai lacci del corpo. // 13. Ne’ suoi giorni. Mentre visse. Sola. Singolare. Senza pari. – *Var. del Cod. Bolognese: Di lei ch’è or da le sue membra sciolta. Ma nel suo tempo ec.*

SONETTO LXXXII.

Ha sì fiso in Laura il pensiero,

che gli par d’esser in cielo, e di parlar seco lei.

Volo con l’ali de’ pensieri al Cielo
Sì spesse volte, che quasi un di loro
Esser mi par ch’ànno ivi il suo tesoro,
Lasciando in terra lo squarciato velo.

Talor mi trema il cor d’un dolce gelo,
Udendo lei per ch’io mi discoloro,
Dirmi: amico, or t’amo io ed or t’onoro,
Perch’ài costumi varïati e ’l pelo.

Menami al suo Signor: allor m’inchino,
Pregando umilemente che consenta
Ch’i’ stia a veder e l’uno e l’altro volto.

Risponde: egli è ben fermo il tuo destino;
E per tardar ancor vent’anni o trenta,
Parrà a te troppo, e non fia però molto.

 

Verso 2. Di loro. Di coloro. // 2. Il suo tesoro. Il lor tesoro, che è Dio. // 4. Lasciando. Cioè avendo lasciato. Lo squarciato velo. Cioè il loro corpo morto. // 6. Perch’io. Per cagion della quale io. // 8. Perchè hai variati, cioè cangiati, i costumi e il pelo. // 9. Menami. Mi mena. Persona terza. Al suo Signor. Dinanzi a Dio. // 10. Pregando. Pregando lui, cioè Dio. Consenta. Permetta. Conceda. // 11. Stia. Cioè mi fermi, rimanga, in cielo. L’uno e l’altro volto. Cioè il volto di Dio e quel di Laura. // 12. Egli. Voce che soprabbonda. Fermo. Fermato. Stabilito. Il tuo destino. Cioè che tu venga a star quassù in cielo. // 13. E per tardar. E se questo tuo destino, cioè l’adempimento di esso, tarderà. // 14. Parrà. Suppliscasi questo spazio di tempo, questa tardanza, o cosa simile.

SONETTO LXXXIII.

Sciolto da’ lacci d’Amore,

infastidito e stanco di sua vita, ritornasi a Dio.

Morte à spento quel Sol ch’abbagliar suolmi
E ’n tenebre son gli occhi interi e saldi;
Terra è quella ond’io ebbi e freddi e caldi:
Spenti son i miei lauri, or querce ed olmi:

Di ch’io veggio ’l mio ben; e parte duolmi.
Non è chi faccia e paventosi e baldi
I miei pensier, nè chi gli agghiacci e scaldi,
Nè chi gli empia di speme e di duol colmi.

Fuor di man di colui che punge e molce,
Che già fece di me sì lungo strazio,
Mi trovo in libertate amara e dolce:

Ed al Signor ch’i’ adoro e ch’i’ ringrazio
Che pur col ciglio il ciel governa, e folce,
Torno stanco di viver, non che sazio.

 

Verso 1. Abbagliar suolmi. Mi suole abbagliare. Vuol dire, m’abbagliava. // 2. Gli occhi interi e saldi. Gli occhi puri e costanti. Cioè gli occhi di Laura. // 3. E freddi e caldi. Nomi sostantivi. // 4. Or querce ed olmi. Cioè divenuti querce ed olmi, alberi rozzi. // 5. Di ch’io veggio ’l mio ben. Della qual cosa io veggo il mio bene, cioè veggo l’utile spirituale che ne segue. Parte. Insieme. Al medesimo tempo. Duolmi. Me ne duole. // 6. Non è. Non ci ha. E paventosi e baldi. Or paurosi ora arditi. // 8. Colmi. Li colmi. // 9. Di colui. Cioè d’Amore. // 12. Al Signor. Vuol dire a Dio. // 13. Pur. Solo. Semplicemente. Folce. Regge. Sostiene. // 14. Stanco di viver, non che sazio. Non pur sazio ma stanco di vivere.

SONETTO LXXXIV.

Conosce i suoi falli; se ne duole; e prega Dio

di salvarlo dall’eterna pena.

Tennemi Amor anni ventuno ardendo
Lieto nel foco, e nel duol pien di speme;
Poi che Madonna e ’l mio cor seco insieme
Saliro al ciel, dieci altri anni piangendo.

Omai son stanco, e mia vita riprendo
Di tanto error, che di virtute il seme
À quasi spento; e le mie parti estreme,
Alto Dio, a te devotamente rendo,

Pentito e tristo de’ miei sì spesi anni;
Che spender si deveano in miglior uso,
In cercar pace ed in fuggir affanni.

Signor, che ’n questo carcer m’ài rinchiuso,
Trammene salvo dagli eterni danni;
Ch’i’ conosco ’l mio fallo, e non lo scuso.

 

Verso 3. Seco insieme. Insieme con lei. // 4. Dieci altri anni piangendo. Suppliscasi: tennemi Amore. // 5. Riprendo. Sgrido. Biasimo. // 7. À quasi spento. Suppliscasi in me. Le mie parti estreme. L’ultima parte della mia vita. // 9. Sì spesi. Così spesi. // 10. Deveano. Doveano. // 12. In questo carcer. Cioè in questo corpo.

SONETTO LXXXV.

Si umilia dinanzi a Dio, e, piangendo,

ne implora la grazia al punto di morte.

I’ vo piangendo i miei passati tempi
I quai posi in amar cosa mortale,
Senza levarmi a volo, avend’io l’ale
Per dar forse di me non bassi esempi.

Tu, che vedi i miei mali indegni ed empi,
Re del cielo, invisibile, immortale,
Soccorri a l’alma disvïata e frale,
E ’l suo difetto di tua grazia adempi:

Sì che, s’io vissi in guerra ed in tempesta,
Mora in pace ed in porto; e se la stanza
Fu vana, almen sia la partita onesta.

A quel poco di viver che m’avanza
Ed al morir degni esser tua man presta.
Tu sai ben che ’n altrui non ò speranza.

 

Verso 2. Posi. Spesi. // 3-4. Avend’io l’ale Per dar forse di me non bassi esempi. Bench’io avessi indole e disposizioni tali da poter forse fare opere non ignobili. // 7. A l’alma. All’alma mia. // 8. E supplisci il suo difetto colla tua grazia. // 9. Senec.: «Si in freto viximus, moriamur in portu.»* // 10. La stanza. Cioè la mia dimora in terra. // 11. Vana. Senza utilità. La partita. La mia partenza dal mondo. Cioè la morte. Onesta. Onorevole. // 13. Al morir. Al morir mio. Alla mia morte. Degni. Si degni. Esser…. presta. Esser pronta. Cioè porgere aiuto. // 14. In altrui. In altri che in te.

SONETTO LXXXVI.

Ei deve la propria salvezza alla virtuosa

condotta di Laura verso di lui.

Dolci durezze e placide repulse,
Piene di casto amore e di pietate;
Leggiadri sdegni, che le mie infiammate
Voglie tempraro (or me n’accorgo) e ’nsulse;

Gentil parlar, in cui chiaro refulse
Con somma cortesia somma onestate;
Fior di virtù, fontana di beltate,
Ch’ogni basso pensier del cor m’avulse;

Divino sguardo, da far l’uom felice,
Or fiero in affrenar la mente ardita
A quel che giustamente si disdice,

Or presto a confortar mia frale vita;
Questo bel varïar fu la radice
Di mia salute, che altramente era ita.

 

Verso 4. Insulse. Stolte. // 5. Chiaro. Avverbio. Refulse. Risplendette. // 8. Del. Dal. Avulse. Svelse. // 9. Da. Tale da. // 10. La mente. La mia mente. // 11. A quel. A far quello. Verso quello. Dipende da ardita. Si disdice. Sconviene. Sta male. // 12. Presto. Pronto. Sollecito. // 13. La radice. Il principio. La causa. // 14. Ita. Spacciata. Perduta.

SONETTO LXXXVII.

Era sì piena di grazie, che, in sua morte,

partirsi del mondo Cortesia ed Amore.

Spirto felice, che sì dolcemente
Volgei quegli occhi più chiari che ’l sole,
E formavi i sospiri e le parole
Vive ch’ancor mi sonan ne la mente,

Già ti vid’io d’onesto foco ardente
Mover i piè fra l’erbe e le viole,
Non come donna ma com’angel sôle,
Di quella ch’or m’è più che mai presente;

La qual tu poi, tornando al tuo Fattore,
Lasciasti in terra, e quel soave velo
Che per alto destin ti venne in sorte.

Nel tuo partir partì del mondo Amore
E Cortesia, e ’l Sol cadde del cielo,
E dolce incominciò farsi la Morte.

 

Verso 2. Volgei. Volgevi. // 5. D’onesto foco ardente. Si riferisce al pronome io. // 7. Sôle. Suole. Vuol dire in atto e in sembianza non umana ma angelica. // 8. Di quella. Dipende dalle parole del sesto verso, mover i piè. – Cioè: Gia ti vidi io mover i piè di Quella ec. [A.] // 10. E quel soave velo. Cioè quel bel corpo. Suppliscasi: lasciasti in terra. // 11. Ti venne. Ti toccò. // 12-13. Del. Dal. // 14. Farsi. A farsi. A divenire. – *Dante, Canz.: «Morte, assai dolce ti tegno. Tu dê’ omai esser cosa gentile, Poi che tu se’ ne la mia donna stata.»*

SONETTO LXXXVIII.

Rivolgesi ad Amore perchè lo aiuti a cantare

degnamente lo lodi di Laura.

Deh porgi mano a l’affannato ingegno,
Amor, ed a lo stile stanco e frale,
Per dir di quella ch’è fatta immortale
E cittadina del celeste regno.

Dammi, Signor, che ’l mio dir giunga al segno
De le sue lode, ove per sè non sale;
Se vertù, se beltà non ebbe eguale
Il mondo, che d’aver lei non fu degno.

Risponde: quanto ’l Cielo ed io possiamo
E i buon consigli e il conversar onesto,
Tutto fu in lei di che noi Morte à privi.

Forma par non fu mai dal dì ch’Adamo
Aperse gli occhi in prima: e basti or questo.
Piangendo il dico; e tu piangendo scrivi.

 

Verso 1. A l’affannato ingegno. Suppliscasi mio. // 3. Fatta. Divenuta. // 5-6. Al segno De le sue lode. Cioè a pareggiare i suoi pregi. Lode sta per lodi. Ove per sè non sale. Al qual segno egli, cioè il mio dire, non sale, cioè non può salire, non arriva da per sè stesso. // 7-8. Se il mondo, che non fu degno di aver lei, non ebbe mai virtù nè beltà uguale alla sua. // 9-10. Risponde Amore: quante doti e qualità eccellenti possiamo dare il Cielo ed io, e quante si acquistano per buoni consigli, cioè per buona educazione, per senno e cose tali, e per conversazione onesta. // 11. Di che. Delle quali cose. Privi. Privati. // 12. Forma par. Bellezza uguale. Non fu mai. Non fu mai al mondo. // 14. Scrivi. Imperativo.

SONETTO LXXXIX.

Il mesto canto d’un augelletto gli rammenta

i propri e più gravi affanni.

Vago augelletto che cantando vai,
O ver piangendo il tuo tempo passato,
Vedendoti la notte e ’l verno a lato,
E ’l dì dopo le spalle e i mesi gai,

Se come i tuoi gravosi affanni sai,
Così sapessi il mio simile stato,
Verresti in grembo a questo sconsolato
A partir seco i dolorosi guai.

I’ non so se le parti sarian pari;
Chè quella cui tu piangi è forse in vita,
Di ch’a me Morte e ’l Ciel son tanto avari:

Ma la stagione e l’ora men gradita,
Col membrar de’ dolci anni e degli amari,
A parlar teco con pietà m’invita.

 

Versi 3-4. Cioè veggendo sopravvenir la notte e il verno, e veggendoti dietro le spalle, cioè trapassato, il giorno e la bella stagione. Gai. Vale lieti. // 8. Partir. Dividere. Guai. Lamenti. // 9. Le parti. Cioè la mia condizione e la tua. // 10. Quella. Cioè la tua compagna. // 11. Di che. Della qual cosa. Vuol dire: laddove quella ch’io piango, è morta. // 12-13. Ma la presente stagione ed ora poco grata, cioè la stagione del verno e l’ora della sera, e insieme la rimembranza degli anni miei dolci e di quelli amari.

SONETTO XC.

La morte di Laura lo consiglia a meditare

seriamente su la vita avvenire.

La bella donna che cotanto amavi,
Subitamente s’è da noi partita,
E, per quel ch’io ne speri, al ciel salita;
Sì furon gli atti suoi dolci soavi.

Tempo è da ricovrare ambe le chiavi
Del tuo cor, ch’ella possedeva in vita,
E seguir lei per via dritta e spedita;
Peso terren non sia più che t’aggravi.

Poi che se’ sgombro de la maggior salma,
L’altre puoi giuso agevolmente porre,
Salendo quasi un pellegrino scarco.

Ben vedi omai sì come a morte corre
Ogni cosa creata, e quanto a l’alma
Bisogna ir leve al periglioso varco.

 

A un amico, in morte di donna amata da quello.

Verso 2. Subitamente. In modo subitaneo. In un subito. Repentinamente. [A.] // 3. Per quel ch’io ne speri. Secondo che io ne spero. Al ciel salita. Suppliscasi è. // 4. . Tanto. Talmente. // 5. Ricovrare. Ricuperare. – Ambo le chiavi del sì e del no, del volere e del non volere; solita figura. Ricovrare ambo le chiavi. Significa dunque ripigliare il dominio di sè medesimo, rifarsi libero e padrone della volontà propria. [A.] // 7. E seguir lei. E da seguir lei, andando verso il cielo. Spedita. Libera. Senza impedimenti. Senza intoppi. // 8. Peso terren. Cioè cura terrena, mondana. // 9. Sgombro. Libero. Scarico. De la maggior salma. Del maggior peso. Della cura maggiore. Cioè della tua passione amorosa, del giogo d’amore. // 10. L’altre. L’altre salme. Giuso agevolmente porre. Por giù, cioè depor, facilmente. // 11. Salendo. Verso il cielo. Quasi. Come. // 12. Sì come. Che. // 14. Leve. Lieve. Leggera. Cioè scarica di cure mondane. Al periglioso varco. A quel della morte.

CANZONE VIII.

Pentito, invoca Maria, e la scongiura a voler

soccorrerlo in vita ed in morte.

Vergine bella, che di Sol vestita,
Coronata di stelle, al sommo Sole
Piacesti sì, che ’n te sua luce ascose;
Amor mi spinge a dir di te parole:
Ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
E di colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose
Chi la chiamò con fede.
Vergine, s’a mercede
Miseria estrema de l’umane cose
Già mai ti volse, al mio prego t’inchina;
Soccorri a la mia guerra;
Bench’i’ sia terra, e tu del ciel regina.

 

Alla Vergine Maria.

I Versi 1-2. Cantic.: «Pulcherrima inter mulieres.» Apocaliss.: «Amictu sole et luna sub pedibus ejus, et in capite ejus corona stellarum.»* – Al sommo Sole. Cioè a Dio. // 3. In te sua luce ascose. Prendendo carne nel tuo grembo. // 5. Tu’ aita. Aiuto tuo. // 6. E di colui. E senz’aita di colui. Cioè di Cristo. – Amando. Per amore del genere umano. [A.] // 7. Invoco lei che. Invoco quella che. Invoco una che. Vuol dire: invoco te, che sei una che. // 8. Chi. Se uno. Se alcuno. Chiamò. Invocò. // 9-11. S’a mercede Miseria estrema de l’umane cose Già mai ti volse. Se mai alcuna estrema infelicità umana ti mosse a pietà. – Al mio prego. Alla mia preghiera. – *T’inchina. David: «Inclina aurem tuam.»* // 13. E tu. E tu sii.

Vergine saggia, e del bel numer una
De le beate vergini prudenti,
Anzi la prima e con più chiara lampa;
O saldo scudo de l’afflitte genti
Contra ’ colpi di Morte e di Fortuna,
Sotto ’l qual si trionfa, non pur scampa:
O refrigerio al cieco ardor ch’avvampa
Qui fra’ mortali sciocchi:
Vergine, que’ begli occhi,
Che vider tristi la spietata stampa
Ne’ dolci membri del tuo caro figlio,
Volgi al mio dubbio stato,
Che sconsigliato a te vien per consiglio.

 

Verso 1. E del bel numer una. E una del bel numero. // 2. Accenna la parabola evangelica delle cinque vergini sagge e delle altrettante stolte. // 3. La prima. La principale di loro. E con più chiara lampa. E quella che ha più chiara lampada o lucerna. // 6. Sotto il quale scudo, non solo si scampa, cioè si sta o si viene in salvo, ma si trionfa. // 7. Al cieco ardor. Dell’amore. Avvampa. Arde. // 10. Stampa. Vuol dir segni stampati, piaghe. // 13. Sconsigliato. Non avendo consiglio. Per. Per avere.

Vergine pura, d’ogni parte intera,
Del tuo parto gentil figliuola e madre,
Ch’allumi questa vita e l’altra adorni;
Per te il tuo figlio e quel del sommo Padre,
O fenestra del ciel lucente, altera,
Venne a salvarne in su gli estremi giorni;
E fra tutt’i terreni altri soggiorni
Sola tu fosti eletta,
Vergine benedetta,
Che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni.
Fammi, che puoi, de la sua grazia degno,
Senza fine o beata,
Già coronata nel superno regno.

 

Verso 1. D’ogni parte. Da ogni parte. Del tutto. Intera. Perfetta, ovvero immacolata. // 2. Parto. Figlio. – *Dante Par.: «Vergine madre e figlia del tuo figlio.»* // 3. Allumi. Illumini. L’altra. L’altra vita. // 4-6. Per te, o finestra del cielo, per te come per finestra del cielo, il figliuol tuo e del divin Padre, venne a salvarci nell’ultima età del mondo. Gli antichi scrittori cristiani dividevano la durazione del mondo in sei età, l’ultima delle quali stabilivano dalla venuta di Cristo al Giudizio finale. – *Virg.: «Ultima Cumæi venit jam carminis ætas.»* // 10. Torni. Volgi. – *Anticlaudian.: «Crimina matris Ista lavit, matremque facit sua nata renasci.»* // 11. Che puoi. Che ben lo puoi. Sua. Cioè del tuo figlio. // 12. O beata senza fine.

 

Vergine santa, d’ogni grazia piena,
Che per vera ed altissima umiltate
Salisti al ciel, onde miei preghi ascolti;
Tu partoristi il fonte di pietate,
E di giustizia il Sol, che rasserena
Il secol pien d’errori oscuri e folti:
Tre dolci e cari nomi à’ in te raccolti,
Madre, figliuola e sposa;
Vergine glorïosa,
Donna del Re che nostri lacci à sciolti,
E fatto ’l mondo libero e felice;
Ne le cui sante piaghe,
Prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.

 

Verso 7. À’. Hai. // 10. Donna. Signora. – *Cantic.: «Sponsa mea, amica mea.» Che i nostri lacci ec. «Laqueus contritus est, et nos liberati sumus.»* // 11. E fatto. E che ha fatto. // 13. Ch’appaghe il cor. Che tu appaghi il mio cuore.

 

Vergine sola al mondo, senza esempio;
Che ’l Ciel di tue bellezze innamorasti;
Cui nè prima fu, simil, nè seconda;
Santi pensieri, atti pietosi e casti
Al vero Dio sacrato e vivo tempio
Fecero in tua virginità feconda.
Per te può la mia vita esser gioconda,
S’a’ tuoi preghi, o Maria,
Vergine dolce e pia,
Ove ’l fallo abbondò la grazia abbonda.
Con le ginocchia de la mente inchine
Prego che sia mia scorta,
E la mia torta via drizzi a buon fine.

 

Verso 1. Cel. Sedul.: «Sola sine exemplo placuisti fœmina Cristo.»* // 3. A cui niuna fu prima, cioè superiore di eccellenza, nè simile, nè seconda. Che non avesti nè prima nè simile nè seconda. Veggasi il quinto e sesto verso del Sonetto settantesimo di questa seconda Parte. – *Cel. Sedul.: «Nec primam similem visa est, nec habere secundam.»* // 4. Ripetasi cui, e prendasi per accusativo. Atti. Cioè, azioni, opere. Pietosi. Pii. // 5. Dipende da fecero, che sta nel verso seguente. Al. Del. Sacrato. Sacro. // 8. S’a’ tuoi preghi. Se per li tuoi preghi. // 9. Pia. Pietosa. // 10. Ove. Cioè in me ove. La grazia. La grazia divina. – *San Paolo: «Ubi superabundavit peccatum, superabundet et gratia.»* // 11. Un moderno crede che il Poeta scrivesse: con le ginocchia e con la mente. Certo, scrivendo così, avrebbe scritto meglio. Ma veggiamo (come mi ha fatto notare in Bologna il conte Marchetti, dall’amicizia del quale mi tengo molto onorato) che nel suo testamento esso Poeta adoperò la medesima non lodevole traslazione che qui si legge, dicendo flexis animæ genibus; benchè fosse sano del corpo, e però avesse potuto piegare anche le ginocchia effettive se avesse voluto. Inchine. Chinate. Piegate. // 12. Che sia. Che tu sii. Scorta. Guida. // 13. Via. Cioè viaggio, cammino.

 

Vergine chiara e stabile in eterno,
Di questo tempestoso mare stella,
D’ogni fedel nocchier fidata guida;
Pon mente in che terribile procella
I’ mi ritrovo, sol, senza governo,
Ed ò già da vicin l’ultime strida.
Ma pur in te l’anima mia si fida;
Peccatrice, i’ nol nego,
Vergine; ma ti prego
Che ’l tuo nemico del mio mal non rida:
Ricorditi che fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,
Umana carne al tuo virginal chiostro.

 

Verso 1. Stabile In eterno. «Turris fortitudinis.»* // 2. Di questo tempestoso mare. Cioè della vita umana. – *«Ave maris stella.»* // 3. Fidata. Fida. // 4. Pon mente. Mira. Attendi. // 6. Ed ho già vicino il naufragio, la perdizione. // 10. Il tuo nemico. Il diavolo. – *Sant’Agost.: «Ne sibi risum exhibeant de me inimici mei.»* // 11-13. Sovvengati che i nostri peccati fecero che Dio, per salvarci, prese carne umana nel tuo chiostro, cioè utero, verginale.

 

Vergine, quante lagrime ò già sparte,
Quante lusinghe e quanti preghi indarno,
Pur per mia pena e per mio grave danno!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
Cercando or questa ed or quell’altra parte,
Non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m’ànno
Tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra ed alma,
Non tardar, ch’i’ son forse a l’ultim’anno.
I dì miei, più correnti che saetta,
Fra miserie e peccati
Sonsen andati, e sol Morte n’aspetta.

 

Verso 1. Sparte. Sparse. // 3. Pur. Solo. Non per altro che. // 5. Cioè andando or qua or là, da un paese a un altro. // 11. Correnti. Fugaci. Veloci. // 13. Sonsen. Se ne sono. N’aspetta. Ci aspetta. Cioè m’aspetta.

 

Vergine, tale è terra e posto à in doglia
Lo mio cor che vivendo in pianto il tenne;
E di mille miei mali un non sapea;
E per saperlo, pur quel che n’avvenne
Fora avvenuto; ch’ogni altra sua voglia
Era a me morte ed a lei fama rea.
Or tu, Donna del ciel, tu nostra Dea
(Se dir lice e conviensi),
Vergine d’alti sensi,
Tu vedi il tutto; e quel che non potea
Far altri, è nulla a la tua gran virtute,
Por fine al mio dolore;
Che a te onore ed a me fa salute.

 

Verso 1-13. Vergine; è divenuta terra e mi ha lasciato il cuore in affanno una che vivendo lo tenne similmente in pianto; e che dei mali che io sosteneva per lei non sapeva appena uno di mille; e quando più ne avesse saputo, non sarebbe però stata verso di me altra da quel che ella fu; chè il trattarmi ella altrimenti, non sarebbe potuto essere senza morte dell’anima mia nè senza infamia sua propria. Or tu, Signora del cielo, tu nostra dea, se egli è lecito e conveniente di così chiamarti, Vergine d’alto sentimento, tu vedi ogni cosa; e quello che colei non poteva fare, io dico il por fine al doler mio, egli è come nulla a rispetto della tua gran potenza; e questo atto, in cambio di far nocumento o disonore ad alcuno, sarà di onore a te, a me di salute.

 

Vergine, in cui ò tutta mia speranza
Che possi e vogli al gran bisogno aitarme,
Non mi lasciare in su l’estremo passo:
Non guardar me, ma chi degnò crearme;
No ’l mio valor, ma l’alta sua sembianza
Ch’è in me, ti mova a curar d’uom sì basso.
Medusa e l’error mio m’àn fatto un sasso
D’umor vano stillante;
Vergine, tu di sante
Lagrime e pie adempi ’l mio cor lasso;
Ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
Senza terrestro limo,
Come fu ’l primo non d’insania vôto.

 

Verso 2. Al gran bisogno. Nel mio gran bisogno. Aitarme. Aiutarmi. – *Lucan.: «Et toto solus in orbe est, Qui velit ac possit victis præstare salutem.»* // 3. In su l’estremo passo. Vicino all’estremo della vita. // 4. Crearme. Crearmi. // 5. L’alta sua sembianza. Cioè l’immagine, la similitudine, di chi degnò crearme. // 6. Curar. Aver cura. // 7. Medusa. Vuol dir Laura. // 8. Stillante d’umor vano. Cioè di lagrime stolte. // 10. Adempi. Empi. Riempi. // 1. Chè. Sicchè. Acciocchè. // 12. Cioè senza affetto mondano. Terrestro per terrestre. // 13. Come il primo, cioè il primo mio pianto, non fu vôto d’insania, cioè di follia.

Vergine umana e nemica d’orgoglio,
Del comune principio amor t’induca;
Miserere d’un cor contrito, umìle:
Che se poca mortal terra caduca
Amar con sì mirabil fede soglio,
Che devrò far di te, cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero e vile
Per le tue man resurgo,
Vergine, i’ sacro e purgo
Al tuo nome e pensieri e ’ngegno e stile,
La lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado;
E prendi in grado i cangiati desiri.

 

Verso 2. Del comune principio. Del nostro comune creatore. – *E il Tassoni interpreta: riguarda al tuo natural principio ed all’origine che tu avesti comune e meco e con tutti gli altri uomini.* – T’induca. Ad esaudire la mia preghiera. // 3. Miserere. Abbi misericordia. // 4. Poca mortal terra caduca. Cioè un corpo umano. // 6. Devrò. Dovrò. // 8. Resurgo. Risorgo. // 12. Guidami alla miglior via. // 13. Prendi in grado. Aggradisci. I cangiati desiri. L’aver io cangiato desiderii, volgendomi dalle cose di quaggiù alle celesti.

 

Il dì s’appressa, e non pote esser lunge;
Sì corre il tempo e vola,
Vergine unica e sola;
E ’l cor or coscïenza or morte punge.
Raccomandami al tuo Figliuol, verace
Uomo e verace Dio,
Ch’accolga il mio spirto ultimo in pace.

 

Verso 1. Il dì. L’ultimo mio dì. Pote. Puote. Può. // 2. . Si fattamente. // 4. E ’l cor. E il mio cuore. // 7. Spirto. Respiro.

 

Parte Terza.

TRIONFI IN VITA E IN MORTE DI MADONNA LAURA.

ARGOMENTO GENERALE DE’ TRIONFI.

Lo scopo del Poeta nel comporre questi Trionfi è quello stesso ch’egli ebbe nel Canzoniere, cioè di ritornare di quando in quando col pensiero or al principio, or al progresso, ed or al fine del suo innamoramento, pigliando poi frequente occasione di tributar lodi ed onori all’unico e sublime oggetto dell’amor suo.

Onde giungere a quello scopo, immaginò di descrivere l’uomo ne’ varii suoi stati e prender quindi ben naturale argomento di parlar di sè stesso e della sua Laura.

L’uomo nel primiero suo stato di giovinezza è vinto dagli appetiti, che possono tutti comprendersi sotto il vocabolo generico di amore, o di amor di sè stesso.

Ma, fatto senno, vedendo egli la disconvenienza di tale suo stato, colla ragione e col consiglio lotta contro quegli appetiti, e li vince col mezzo della castità tenendosi cioè lontano dal sodisfargli.

Tra questi combattimenti e queste vittorie sopraggiunge la morte, che, rendendo eguali i vinti e i vincitori, li toglie tutti dal mondo.

Ma non perciò ella ha tanta forza di disperdere anche la memoria di quell’uomo, che colle sue illustri ed onorate azioni cerca di sopravvivere alla stessa sua morte. E vive egli infatti per una lunga serie di secoli colla sua fama.

Se non che il tempo giunge a cancellar anche ogni memoria di quest’uomo, il quale infine non trova di poter esser sicuro di viver sempre, se non godendo in Dio e con Dio della sua beata eternità.

Quindi l’Amore trionfa dell’uomo; la Castità trionfa di Amore; la Morte trionfa di ambedue; la Fama trionfa della Morte; il Tempo trionfa della Fama; e l’Eternità trionfa del Tempo.

TRIONFO D’AMORE.

«Trionfar volse quel che ’l vulgo adora:
E vidi a qual servaggio ed a qual morte
Ed a che strazio va chi s’innamora.»

Trionfo d’amore, Cap. IV.

CAPITOLO I.

In questo primo capitolo riferisce un sogno, in cui vide Amore trionfante, e parte de’ prigioni di lui; introducendo un amico a significargliene i nomi.

 

Nel tempo che rinnova i miei sospiri
Per la dolce memoria di quel giorno
Che fu principio a sì lunghi martìri,

Scaldava il Sol già l’uno e l’altro corno
Del Tauro, e la fanciulla di Titone
Correa gelata al suo antico soggiorno.

Amor gli sdegni e ’l pianto e la stagione
Ricondotto m’aveano al chiuso loco
Ov’ogni fascio il cor lasso ripone.

Ivi fra l’erbe, già del pianger fioco,
Vinto dal sonno, vidi una Gran luce,
E dentro assai dolor con breve gioco.

Vidi un vittorïoso e sommo duce,
Pur com’un di color che ’n Campidoglio
Trïonfal carro a gran gloria conduce.

Io che gioir di tal vista non soglio,
Per lo secol noioso in ch’io mi trovo,
Vôto d’ogni valor, pien d’ogni orgoglio;

L’abito altero, inusitato e novo
Mirai alzando gli occhi gravi e stanchi:
Ch’altro diletto che ’mparar, non provo.

 

Questi Trionfi non sono altro che Visioni rappresentative dei casi di Laura e di esso Poeta, secondo che nell’uno e nell’altra in diversi tempi trionfarono, cioè signoreggiarono, l’Amore, la Castità, la Morte, lo studio della Fama, il pensiero della fiacchezza e vanità delle fatiche e delle opere umane incontro alla potenza del Tempo, e in ultimo la religione della Divinità. Delle cose istoriche o favolose, toccate dal Poeta in questi Trionfi, non mi fermerò ad esporre distintamente se non le più pellegrine, voglio dir quelle delle quali io giudicherò che si abbia o poca o niuna notizia comunemente.

Verso 1. Cioè nel tempo di primavera. // 3. A sì lunghi martìri. Cioè alla mia passione amorosa. // 5. Del Tauro. Segno celeste. La fanciulla di Titone. La giovane donna di Titone. L’Aurora. // 6. Cioè: trascorreva il cielo. Vuol dir che era l’ora del mattino: e dica gelata, avendo riguardo al fresco che si prova in sul far del giorno. // 8. Al chiuso loco. Vuol dire a Valchiusa. // 9. Ov’ogni ec. Dove il cuore sente quella felicità e quel sollievo da’ suoi affanni, che non prova in nessun altro luogo. [A.] – Fascio. Carico. Peso. Il cor. Il mio cuore. // 10. Fra l’erbe. Dipende dalle parole vinto dal sonno, che stanno nel verso appresso. // 12. Dentro. Dentro a questa luce. Assai dolor. Molto dolore. Con breve gioco. Con poco piacere. // 13. Un vittorioso e sommo duce. Cioè Amore. // 14. Pur come. Appunto come. Propriamente come. Nè più nè meno come. Che. Accusativo. // 15. A. Con. Conduce. Suol condurre. Conduceva. // 16. Gioir. Godere. Di tal vista. Di sì fatti spettacoli di trionfi. // 19. L’abito. Vuol dire universalmente la forma di quello spettacolo. // 20. Gravi. Gravati.

Quattro destrier via più che neve bianchi;
Sopra un carro di foco un garzon crudo
Con arco in mano e con saette a’ fianchi.

Contra le qua’ non val elmo nè scudo:
Sopra gli omeri avea sol due grand’ali
Di color mille, e tutto l’altro ignudo:

D’intorno innumerabili mortali,
Parte presi in battaglia e parte uccisi,
Parte feriti di pungenti strali.

Vago d’udir novelle, oltra mi misi
Tanto ch’io fui ne l’esser di quegli uno
Ch’anzi tempo à di vita Amor divisi.

Allor mi strinsi a rimirar s’alcuno
Riconoscessi ne la folta schiera
Del re sempre di lacrime digiuno.

Nessun vi riconobbi: e s’alcun v’era
Di mia notizia, avea cangiato vista
Per morte, o per prigion crudele e fera.

 

Verso 22. Quattro destrier. Suppliscasi mirai o vidi o cosa tale. Via più. Vie più. – Molto più. [A.] // 25. Le qua’. Le quali. // 27. E tutto l’altro. E tutto il resto del corpo. Suppliscasi avea. // 31. Vago. Desideroso. Cupido. // 32. Ne l’esser di quegli uno. Uno dell’essere, cioè della condizione di quelli. // 33. Anzi tempo. Prima del tempo. Di. Da. Dalla. // 34. Mi strinsi. Mi avvicinai. Mi accostai. [A] // 36. Cioè d’Amore. Digiuno. Sitibondo. Avido. Insaziabile. // 33. Notizia. Conoscenza. Vista. Aspetto.

Un’ombra alquanto men che l’altre trista
Mi si fe incontro, e mi chiamò per nome,
Dicendo: questo per amar s’acquista.

Ond’io, maravigliando, dissi: or come
Conosci me, ch’io te non riconosca?
Ed ei: questo m’avvien per l’aspre some

De’ legami ch’io porto; e l’aria fosca,
Contende agli occhi tuoi: ma vero amico
Ti sono; e teco nacqui in terra tosca.

Le sue parole e ’l ragionar antico
Scoperson quel che ’l viso mi celava:
E così n’ascendemmo in luogo aprico;

E cominciò: gran tempo è ch’io pensava
Vederti qui fra noi; chè da’ primi anni
Tal presagio di te tua vista dava.

 

Verso 42. Questo per amar s’acquista. Questo, cioè lo stato in cui tu ci vedi, è il frutto dell’amore. Questo è quel che si guadagna ad amare. // 44. Ch’io te non riconosca. Senza che io riconosca te. // 45. Questo. Che tu non mi riconoschi. // 47. Contende agli occhi tuoi. Cioè: ti vieta di potermi riconoscere. // 48. Tosca. Toscana. // 49. Antico. Già noto a me in altro tempo, ovvero da gran tempo. – *Il Tassoni vuol intendere ch’ei parlasse latino, confortando la sua opinione col verso che seguita poco dopo: Ed egli al suon del ragionar latino. Ma latino diceasi nel trecento tutto ciò che si riferisce all’Italia. L’Italiano è detto latino dall’Alighieri in più luoghi (v. Inf. XXII, 65, XXIX, 88 e 91, Purg. VII, 16 ec.); Terra latina l’Italia. (Inferno XXVII, 27). Onde io sono d’avviso che qui il ragionare antico, sia da intendersi il parlare anticato, come sarebbe stato quello di Guitton d’Arezzo, di Cino da Pistoia e d’altri poeti anteriori di tempo al Petrarca.* // 50. Scoperson. Mi scopersero. Il mi che viene appresso, serve a due verbi. Quel che ’l viso mi celava. Cioè: chi egli si fosse. Non si trova detto poi mai dal Poeta il nome di questo amico, e non è facile indovinarlo. // 51. Ne. Particella riempitiva. Aprico. Cioè alto ed aperto, da poter bene scorgere tutta quella gente. // 52. Pensava. Credeva. Mi aspettava. // 53. Qui fra noi. Cioè servo di Amore. Da’ primi anni. Infino da’ tuoi primi anni. // 54. Tal presagio. Accusativo.

 

E’ fu ben ver; ma gli amorosi affanni
Mi spaventâr sì ch’io lasciai l’impresa;
Ma squarciati ne porto il petto e i panni:

Così diss’io; ed ei, quand’ebbe intesa
La mia risposta, sorridendo disse:
O figliuol mio, qual per te fiamma è accesa!

Io non l’intesi allor; ma or sì fisse
Sue parole mi trovo ne la testa,
Che mai più saldo in marmo non si scrisse.

E per la nova età, ch’ardita e presta
Fa la mente e la lingua, il dimandai:
Dimmi, per cortesia, che gente è questa?

Di qui a poco tempo tu ’l saprai
Per te stesso, rispose, e serai d’elli;
Tal per te nodo fassi; e tu nol sai.

E prima cangerai volto e capelli,
Che ’l nodo di ch’io parlo si discioglia
Dal collo e da’ tuo’ piedi ancor ribelli.

 

Verso 55. Risponde il Poeta. // 56. L’impresa. Vuol dir la sequela di Amore. // 63. Che mai non si scrisse, non fu scritta parola alcuna più saldamente in marmo. // 64-65. E per quell’ardire e quella prestezza di mente e di lingua che suole essere in giovani come io era, lo interrogai. // 64-69. Chi dovesse mostrare i vari usi del per potrebbe citar questi versi; dov’essa trovasi quattro volte, e presta quattro differenti uffici. [A.] // 68. Per te stesso. Da te stesso. Per propria esperienza. Serai d’elli. Sarai di loro, uno del loro numero. // 69. Fassi. Si fa. Si prepara. // 70. Cangerai. Per vecchiezza. // 71. Che. Dipende dalla voce prima del verso addietro. // 72. Dal collo. Dal tuo collo. Ancor ribelli. Fin qui ribelli ad Amore.

Ma per impir la tua giovenil voglia,
Dirò di noi, e prima del maggiore,
Che così vita e libertà ne spoglia.

Quest’è colui che ’l mondo chiama Amore;
Amaro, come vedi, e vedrai meglio
Quando fia tuo, come nostro signore;

Mansueto fanciullo, e fiero veglio;
Ben sa ch’il prova; e fiati cosa piana
Anzi mill’anni; e ’nfin ad or ti sveglio.

Ei nacque d’ozio e di lascivia umana;
Nudrito di pensier dolci e soavi;
Fatto signor e dio da gente vana.

Qual è morto da lui, qual con più gravi
Leggi mena sua vita aspra ed acerba,
Sotto mille catene e mille chiavi.

Quel che ’n sì signorile e sì superba
Vista vien prima, è Cesar, che ’n Egitto
Cleopatra legò tra’ fiori e l’erba.

 

Verso 73. Ma per soddisfare al tuo giovanile desiderio, cioè di saper che gente sia questa. Impir per empir. // 74. Prima. Primieramente. Del maggiore. Del nostro principe. Cioè di Amore. // 75. Vita e libertà, ne spoglia. Ci spoglia di vita e di libertà. – Il verbo spogliare è usato qui come in quei versi dall’Alighieri: «Tu ne vestisti Queste misere carni, e tu le spoglia.» [A.] // 76. Che. Accusativo. // 78. Quando egli sarà signore di te come è già signore di noi. // 79. Cioè, dolce in principio, ed acerbo in progresso e in fine. Veglio. Vecchio. – *Cod. Bol.: Giovincel mansueto.* // 80. Ben sa. Ben lo sa. E fiati cosa piana. E ciò ti sarà manifesto. Fiati vale ti fia. // 81. Anzi mill’anni. Prima di mille anni. Avanti che sieno passati mille anni. Modo di dire, che vale di qui a non molto. Infin ad or. Infin da ora. Ti sveglio. Ti ammonisco, ti avviso, acciocchè ti abbi l’occhio, ti tenga in guardia. // 82. Senec. Ottav.: «Amor est juventa, gignitur luxu, otio, Nutritur inter læta fortunæ bona.» Parve il contrario ad Ovid.: «Qui non vult esse desidiosus, amet.»* // 85. Qual. Chi. Alcuno. Morto. Ucciso. // 89. Vista. Aspetto. Prima. Avanti agli altri. Che. Accusativo. // 90. Legò tra’ fiori e l’erba. Fece servo con lusinghe e piaceri.

 

Or di lui si trionfa: ed è ben dritto,
Se vinse il mondo ed altri à vinto lui,
Che del suo vincitor si glorie il vitto.

L’altro è ’l suo figlio: e pur amò costui
Più giustamente: egli è Cesar Augusto;
Che Livia sua, pregando, tolse altrui.

Nerone è ’l terzo, dispietato e ’ngiusto:
Vedilo andar pien d’ira e di disdegno:
Femmina ’l vinse; e par tanto robusto.

Vedi ’l buon Marco d’ogni laude degno,
Pien di filosofia la lingua e ’l petto:
Pur Faüstina il fa qui stare a segno.

Que’ duo pien di paura e di sospetto,
L’un è Dionisio e l’altro è Alessandro:
Ma quel di suo temere à degno effetto.

L’altro è colui che pianse sotto Antandro
La morte di Creusa, e ’l suo amor tolse
A quel che ’l suo figliuol tolse ad Evandro.

 

Verso 91. Di lui si trionfa. Cioè: Amore trionfa di lui. È ben dritto. È ben ragione, ragionevole, giusto. // 92. Altri. Cioè Amore. // 93. Che il vinto, cioè il mondo, si glorii del suo vincitore, cioè si rallegri della rotta di costui. // 96. Altrui. Al marito Tiberio Nerone. // 99. Femmina ec. Poppea. [A.] // 100. Marco. Marco Aurelio. // 102. Il fa qui star a segno. Cioè: lo tien soggetto. – *Per verità Marc’Aurelio fu piuttosto allucinato dalla moglie, che fatto star a segno, la qual frase par che dinoti una forza fisica o morale adoperata a infrenarne una minore, ma non meno presuntuosa. [A.] // 103. Pien. Pieni. // 104. Dionisio. Tiranno di Siracusa. Alessandro. Tiranno di Fera in Tessaglia. // 105. Qual. Intende di Alessandro, ucciso per opera della moglie, stanca de’ colui sospetti. // 106. Colui. Vuol dire Enea. Antandro. Città della Misia appiè del monte Ida. // 107. Il suo amor. Lavinia. Il pronome suo si riferisce a Turno, accennato nel verso seguente. // 108. A quel. Cioè a Turno. Che ’l suo figliuol tolse ad Evandro. Cioè che uccise Pallante, figliuolo d’Evandro.

Udito ài ragionar d’un che non volse
Consentire al furor de la matrigna,
E da’ suoi preghi per fuggir si sciolse:

Ma quella intenzïon casta e benigna
L’uccise; sì l’amore in odio torse
Fedra amante terribile e maligna.

Ed ella ne morio; vendetta forse
D’Ippolito, di Teseo e d’Adrianna,
Ch’amando, come vedi, a morte corse.

Tal biasma altrui che sè stesso condanna;
Chè chi prende diletto di far frode,
Non si de’ lamentar s’altri l’inganna.

Vedi ’l famoso, con tante sue lode,
Preso menar fra due sorelle morte:
L’una di lui, ed ei de l’altra gode.

Colui ch’è seco, è quel possente e forte
Ercole, ch’Amor prese; e l’altro è Achille,
Ch’ebbe in suo amor assai dogliosa sorte.

 

Verso 109. D’un. Cioè d’Ippolito. Volse. Volle. // 110. Al furor. All’amor forsennato e furioso. De la matrigna. Cioè di Fedra. // 111. Per fuggir si sciolse. Si liberò fuggendo. // 112. Quella. Quella sua. Intenzion. Deliberazione di non consentire alla matrigna e di fuggirsene. // 113. . Sì fattamente. L’amore. Accusativo. Torse. Cangiò. // 115. Morio. Morì. Vendetta. In vendetta. A vendetta. // 116. D’Adrianna. D’Arianna, abbandonata già da Teseo, per amor di Fedra. // 117. Come vedi. Poichè ella è qui fra noi. // 118. Alcuni, biasimando altrui, vengono a condannar sè stessi. // 119. Di far frode. Come fece Teseo ad Arianna. // 120. De’. Dee. Debbe. S’altri l’inganna. Come accadde a Teseo, ingannato da Fedra. // 121. Il famoso. Cioè Teseo. Con. Non ostante. Lode. Lodi. Cioè virtù e fatti eroici. // 122. Menar. Esser qui menato da Amore in trionfo. Due sorelle. Arianna e Fedra. // 123. L’una, cioè Arianna, è invaghita, è spasimata, di lui, ed esso dell’altra, cioè di Fedra. // 125. Che. Accusativo. // 126. Chi crede che il Poeta avesse nei trionfi desiderio di emular Dante, potrà notar questo verso, dove per verità è detto più chiaramente ciò che Dante volle dire col suo: «Che con Amore al fine combatteo.» [A.]

Quell’altro è Demofonte, e quella è Fille:
Quell’è Giason, e quell’altra è Medea,
Ch’Amor e lui seguì per tante ville.

E quanto al padre ed al fratel fu rea,
Tanto al suo amante più turbata e fella;
Che del suo amor più degna esser credea.

Isifile vien poi; e duolsi anch’ella
Del barbarico amor che ’l suo gli à tolto:
Poi vien colei ch’à ’l titol d’esser bella,

Seco à ’l pastor che mal il suo bel volto
Mirò sì fiso; ond’uscîr gran tempeste,
E funne il mondo sottosopra vòlto.

Odi poi lamentar fra l’altre meste
Enone di Paris, e Menelao
D’Elena; ed Ermïon chiamare Oreste;

E Laodamia il suo Protesilao,
Ed Argia Polinice, assai più fida
Che l’avara moglier d’Anfiarao.

 

Verso 129. Lui. Cioè Giasone. Ville. Terre. Città. // 130. Quanto. Quanto più. // 131-132. Tanto più fu corrucciata e crudele con Giasone quando egli l’ebbe abbandonata, perocchè ella si pensava di esser tanto più degna dell’amor suo, quanto più iniquamente e spietatamente si era portata col padre e col fratello proprio, per salvare e seguitar lui. // 134. Cioè, dell’amor di Medea, donna di nazione barbara, per la quale Isifile fu abbandonata dall’amor suo, cioè da Giasone. // 135. Colei. Vuol dire Elena. Ch’à ’l titol d’esser bella. Cioè, che ha fama di beltà principale, la principal fama di bellezza. // 136. Il pastor. Paride. Mal. Infelicemente. // 137. Onde uscîr ec. Anche qui è qualche indizio dell’anzidetta emulazione. Ma Dante qui non fu vinto. Le grandi tempeste e il volgere sottosopra il mondo fanno gran chiasso e pur non dicono quanto le parole semplici e storicamente vere di Dante: «Elena vidi per cui tanto reo Tempo si volse.» [A.] // 139. Lamentar. Lamentarsi. // 140. Di Paris. Di Paride. Dipende da lamentar. // 144. L’avara moglier d’Anfiarao. Erifile.

Odi i pianti e i sospiri, odi le strida
De le misere accese, che gli spirti
Rendero a lui che ’n tal modo le guida.

Non poria mai di tutti il nome dirti:
Chè non uomini pur, ma Dei, gran parte
Empion del bosco degli ombrosi mirti.

Vedi Venere bella e con lei Marte,
Cinto di ferri i piè, le braccia e ’l collo;
E Plutone e Proserpina in disparte;

Vedi Giunon gelosa, e ’l biondo Apollo,
Che solea disprezzar l’etate e l’arco
Che gli diede in Tessaglia poi tal crollo.

Che debb’io dir? in un passo men varco:
Tutti son qui prigion gli Dei di Varro;
E di lacciuoli innumerabil carco,

Vien catenato Giove innanzi al carro.

 

Verso 145. Dante Inf.: «Quivi sospiri pianti ed alti guai.»* // 146-147. Accese. Innamorate. Gli spirti Rendero a lui. Rendettero l’alma ad Amore. Vuol dire: morirono per amore. // 143. Poria. Potrei. – *Dante Inf.: «Io non posso ritrar di tutti appieno.»* // 149. Pur. Solo. // 150. Del bosco degli ombrosi mirti. Del bosco di Amore. // 152. Cinto di ferri. Di Marte armato e di Marte irretito si può intendere…. intenderei più volentieri di Marte armato da capo a piedi. [T.] // 153. Dante Inf.: «E solo in parte vidi il Saladino.»* // 155. L’etate e l’arco. Cioè; l’età fanciullesca e l’arco d’Amore. // 156. Tal crollo. Cioè tal colpo. Accenna l’amore di Apollo verso Dafne. // 157. In un passo men varco. Vuol dire: stringerò il tutto in due parole. Men vale me ne. // 153. Prigion. Prigioni. Gli Dei di Varro. Gli Dei menzionati da Varrone in una sua opera della genealogia degli Dei. // 159. Innumerabil. Innumerabili. // 160. Catenato. Incatenato. Al carro. Di Amore.

CAPITOLO II.

Narra un ragionamento avuto con Messinissa e con Sofonisba; dopo il quale ne rapporta un altro tenuto con Seleuco. Appresso per una comparazione dimostra la grande moltitudine degli amanti ch’egli non riconobbe; e conchiude nominandone alcuni che raffigurò.

 

Stanco già di mirar, non sazio ancora,
Or quinci or quindi mi volgea, guardando
Cose ch’a ricordarle è breve l’ora.

Giva ’l cor di pensier in pensier, quando
Tutto a sè ’l trasser duo ch’a mano a mano
Passavan dolcemente ragionando.

Mossemi ’l lor leggiadro abito strano,
E ’l parlar peregrin, che m’era oscuro,
Ma l’interprete mio mel fece piano.

Poi ch’io seppi chi eran, più securo
M’accostai lor; chè l’un spirito amico
Al nostro nome, l’altro era empio e duro.

Fecimi al primo: o Massinissa antico,
Per lo tuo Scipïon e per costei,
Risponder non t’incresca a quel ch’io dico.

Mirommi, e disse: volentier saprei
Chi tu se’ innanzi, da poi che sì bene
Ài spiati amboduo gli affetti miei.

 

Verso 1. Gioven.: «Et lassata viris, nondum satiata recessit.»* // 2. Or quinci or quindi. Or di qua or di là. // 3. È breve l’ora. Il tempo mi mancherebbe. – *Dante Inf. XV.: «Che ’l tempo saria corto a tanto suono.»* // 5. Il trasser. Trassero il mio cuore, cioè il mio spirto. A mano a mano. Insieme. A paro. Di pari. – E perchè non anco: Tenendosi per mano? [A.] // 7. Mossemi. Attirò la mia attenzione.* – Abito. Portamento. // 9. L’interprete mio. Quello spirito detto nel verso quarantesimo e susseguenti del Capitolo di sopra. // 11. Chè. Dei quali. // 12. Al nostro nome. Al nome italiano. Era empio e duro. Cioè nemico. Suppliscasi al nostro nome. // 13. Fecimi. Mi accostai. – Propriamente mi feci, o feci me presso al…. [A.] // 14. Costei. Cotesta tua compagna. // 17. Innanzi. Prima che tu mi dica altro. Dipende da saprei. Da poi che. Poichè. // 18. Spiati. Cioè conosciuti. Amboduo. Ambedue. Gli affetti miei. Cioè, l’amor che io porto a Scipione e a questa mia compagna.

L’esser mio, gli risposi, non sostène
Tanto conoscitor; chè così lunge
Di poca fiamma gran luce non vène.

Ma tua fama real per tutto aggiunge,
E tal che mai non ti vedrà nè vide,
Col bel nodo d’amor teco congiunge.

Or dimmi, se colui ’n pace vi guide
(E mostrai ’l duca lor,), che coppia è questa;
Che mi par de le cose rare e fide?

La lingua tua al mio nome sì presta,
Prova, diss’ei, che ’l sappi per te stesso:
Ma dirò per sfogar l’anima mesta.

Avendo in quel sommo uom tutto ’l cor messo
Tanto ch’a Lelio ne do vanto appena,
Ovunque fur sue insegne fui lor presso.

A lui fortuna fu sempre serena;
Ma non già quanto degno era ’l valore,
Del qual, più ch’altro mai, l’alma ebbe piena.

 

Versi 19-21. Vuol dire: io non son degno, risposi, che tu conosca l’esser mio, cioè che tu sappi già chi io mi sia; perocchè da poca fiamma non può venir molta luce così lontano, cioè il mio piccolo nome non può esser giunto insino a te. – *Dante, Pur. XIV: «Dirvi chi sia saria parlare indarno, Chè ’l nome mio ancor molto non suona.»* – Sostène. Sostiene. Vène. Viene. // 22. Per tutto. Da per tutto. In ogni luogo. Aggiunge. Giunge. // 23-24. E congiunge a te con bel nodo di amore anche tali, anche di quelli, che mai non ti hanno veduto nè ti vedranno. // 25. Se. Così. Voce di desiderio. Guide. Guidi. // 26. Il duca lor. Il duce loro. Cioè Amore. Che coppia è questa. Cioè: chi siete voi due. // 27. Fide. Che vedeva in loro i segni di un amore singolarmente fedele. [A.] // 28. Al mio nome. Al proferire il mio none, come tu hai fatto. // 29. Per. Da. // 31. In quel sommo uom. Intende di Scipione Africano maggiore. Tutto ’l cor. Cioè tutto l’amor mio. // 32. Tanto che appena io cedo a Lelio, suo famoso amico, il vanto di avere amato quel sommo uomo più di me. // 33. Lor. A quelle insegne. // 36. Ch’altro. Ch’altro uomo.

Poi che l’arme romane a grande onore
Per l’estremo occidente furon sparse,
Ivi n’aggiunse e ne congiunse Amore.

Nè mai più dolce fiamma in duo cor arse.
Ne sarà, credo: oimè ma poche notti
Fur a tanti desiri e brevi e scarse.

Indarno a marital giogo condotti;
Chè del nostro furor scuse non false,
E i legittimi nodi furon rotti.

Quel che sol più che tutto il mondo valse,
Ne dipartì con sue sante parole;
Chè dei nostri sospir nulla gli calse.

E benchè fosse onde mi dolse e dole,
Pur vidi in lui chiara virtute accesa;
Chè ’n tutto è orbo chi non vede il Sole.

Gran giustizia agli amanti è grave offesa:
Però di tanto amico un tal consiglio
Fu quasi un scoglio a l’amorosa impresa.

 

Verso 37. A. Con. // 39. N’aggiunse e ne congiunse. Sopraggiunse e strinse insieme noi due, cioè questa mia compagna e me. // 43. Condotti. Suppliscasi fummo. // 44-45. Perocchè le scuse non false, cioè le buone ragioni, del nostro furore, cioè dell’amor nostro, furono rotte, cioè avute per nulla, e rotti i nostri legittimi nodi. // 46. Quel. Cioè Scipione. // 47. Ne dipartì. Ci disgiunse. – *Cod. Bol.: Savie parole.* // 48. Nulla gli calse. Cioè non fece conto alcuno. // 49. E benchè questo suo dipartirci fosse cosa di cui mi dolse e duole. Il Muratori, attenendosi al Cod. Estense, leggeva: E benchè fosse onde; cioè facesse cosa per cui; lezione che al Marsand piacque sopra l’altra. [L.] – *La lezione del Cod. Bolog. ci par migliore dell’una e dell’altra, e toglie tutte le oscurità: Ben che assentissi, pur mi dolse e dole, Ch’io vidi ec.* // 51. In tutto. Del tutto. // 52. «Summm jus, summa injuria.»* // 54. A l’amorosa impresa. Suppliscasi di noi due.

Padre m’era in onor, in amor figlio,
Fratel negli anni; ond’ubbidir convenne
Ma col cor tristo e con turbato ciglio.

Così questa mia cara a morte venne:
Che vedendosi giunta in forza altrui,
Morir innanzi che servir sostenne.

Ed io del mio dolor ministro fui:
Chè ’l pregatore e i preghi fur sì ardenti,
Ch’offesi me per non offender lui;

E manda’ le ’l venen con sì dolenti
Pensier, com’io so bene, ed ella il crede,
E tu, se tanto o quanto d’amor senti.

Pianto fu il mio di tanta sposa erede
In lei ogni mio ben, ogni speranza
Perder elessi per non perder fede.

Ma cerca omai se trovi in questa danza
Mirabil cosa; perchè ’l tempo è leve,
E più de l’opra che del giorno avanza.

 

Verso 55. Padre. Cioè superiore. In onor. In dignità. – *Cic.: «Qui in me pietate filius, consiliis parens, amore frater inventus est.»* // 59. Forza. Potere. Altrui. Cioè de’ Romani. // 60. Innanzi. Piuttosto. // 61. Ed io. Dandole il mezzo di uccidersi fui ministro del mio dolore. [A.] // 62. Il pregatore. Cioè Scipione. – *Rammenta il Dantesco: «Ingiusto fece me contra me giusto.»* // 64. Manda’ le. Le mandai. // 65. Come. Dipende dalla particella del verso di sopra. // 66. Se tanto o quanto d’amor senti. Se hai punto di conoscenza d’amore, di sentimento d’amore. // 67. Il mio di tanta sposa erede. Spiegano: il mio essere erede, cioè la eredità ch’io ebbi, di tanta sposa. // 69. Per non perder fede. Per non mancar di fede a Scipione. // 70. In questa danza. Vuol dire: tra questa gente che va dintorno al carro di Amore. // 71. Mirabil cosa. Qualche cosa mirabile da vedere. Leve. Veloce. // 72. Vuol dire: ed è più quel che ti resta a vedere, che non è lo spazio del giorno che ci rimane.

Pien di pietate er’io, pensando il breve
Spazio al gran foco di duo tali amanti;
Pareami al Sole aver il cor di neve;

Quando udii dir su nel passare avanti:
Costui certo per sè già non mi spiace;
Ma ferrea son d’odiarli tutti quanti.

Pon, dissi, ’l cor, o Sofonisba, in pace;
Chè Cartagine tua per le man nostre
Tre volte cadde; ed alla terza giace.

Ed ella: altro voglio che tu mi mostre:
S’Africa pianse, Italia non ne rise;
Domandatene pur l’istorie vostre.

Intanto il nostro e suo amico si mise,
Sorridendo, con lei ne la gran calca;
E fur da lor le mie luci divise.

Com’uomo che per terren dubbio cavalca,
Che va restando ad ogni passo, e guarda,
E ’l pensier de l’andar molto diffalca,

Così l’andata mia dubbiosa e tarda
Facean gli amanti; di che ancor m’aggrada
Saper quanto ciascun e ’n qual foco arda.

 

Versi 73-74. Dante. Inf. VI: «Al tornar de la mente che si chiuse Dinanzi a la pietà de’ duo cognati.»* – Spazio. Tempo. Suppliscasi conceduto, o cosa simile. // 75. Cioè: il mio cuore si stemperava per compassione, e struggevasi come fa la neve al sole. // 76. Udii dir. Dalla compagna di Massinissa, cioè da Sofonisba. Su nel. In sul. // 78. Ferma. Risoluta. D’odiarli tutti quanti. D’odiar tutti i Latini. // 79. Pon. Poni. Imperativo. – Cessa, o Sofonisba, di tenerti in condizione di guerra contro a noi, perocchè la tua Cartagine, per la quale ci fosti sì avversa, non potrebbe più ricevere soccorsi nè da te nè da altri. [A.] // 81. Cod. Bol.: Duo volte cadde.* // 82. Mostre. Mostri. // 83. Nostro. Cioè dei Latini. Vuol dir Massinissa. // 87. Le mie luci. I miei occhi. // 89. Restando. Formandosi. // 90. E il sospetto, il timore, che egli ha, diffalca molto dell’andare, cioè toglie molto alla prestezza dell’andare, ritarda molto l’andare. // 92. Gli amanti. Le ombre degli amanti che io scontrava per via. Di che. Dei quali.

I’ vidi un da man manca fuor di strada,
A guisa di chi brami e trovi cosa
Onde poi vergognoso e lieto vada,

Donar altrui la sua diletta sposa:
O sommo amor, o nova cortesia!
Tal ch’ella stessa lieta e vergognosa

Parea del cambio, e givansi per via
Parlando insieme de’ lor dolci affetti,
E sospirando il regno di Soria.

Trassimi a quei tre spirti, che ristretti
Erano per seguir altro cammino,
E dissi al primo: i’ prego che m’aspetti.

Ed egli al suon del ragionar latino,
Turbato in vista, si ritenne un poco;
E poi, del mio voler quasi indovino,

Disse: io Seleuco son, questi è Antïoco
Mio figlio, che gran guerra ebbe con voi;
Ma ragion contro forza non à loco.

 

Verso 94. Un. Seleuco re di Siria, il quale scoperta la cagione della infermità del figliuolo Antioco, e conosciuta non essere altro che l’amore che questi aveva conceputo di Stretonica, moglie di esso Seleuco e matrigna di Antioco, di buona voglia, per campar la vita del figliuolo, si privò della donna sua, e donògliela. // 96. Onde. Della quale. Per la quale. // 99. Ella stessa. La sposa. // 102. Il regno di Soria. Conquistato dai Romani. // 104. Altro cammino. Andavano, come ha detto di sopra, da man manca fuor di strada. // 107. Si ritenne. Si fermò. // 108. Del mio voler. Del mio desiderio, che era di saper chi fossero essi. // 110. Con voi. Cioè coi Latini. // 111. Non à loco. Non vale. – Attribuisce ad Antioco Sotero la guerra avuta co’ Romani da Antioco Magno. [P.]

Questa, mia prima, sua donna fui poi;
Che per scamparlo d’amorosa morte
Gli diedi; e ’l don fu licito fra noi.

Stratonica è ’l suo nome; e nostra sorte,
Come vedi, è indivisa; e per tal segno
Si vede il nostro amor tenace e forte.

Fu contenta costei lasciarmi il regno,
Io ’l mio diletto, e questi la sua vita,
Per far, via più che sè, l’un l’altro degno.

E se non fosse la discreta aita
Del fisico gentil, che ben s’accorse,
L’età sua in sul fiorire era fornita.

Tacendo, amando, quasi a morte corse:
E l’amar forza, e ’l tacer fu virtute;
La mia, vera pietà, ch’a lui soccorse.

Così disse; e com’uomo che voler mute,
Col fin de le parole i passi volse,
Ch’appena gli potei render salute.

 

Verso 113. Che. Oggetto. // 114. Licito. Lecito. Fra noi. Per le leggi e le usanze nostre. // 115. Cod. Bol.: Stratonica ebbe nome. * // 118. Lasciarmi il regno. Cioè di lasciare il titolo di regina. // 119. Io. Suppliscasi: fui contento lasciare. Questi. Antioco. Suppliscasi: fu contento lasciare, cioè disposto, pronto, a lasciare. // 120. Perchè ciascuno di noi faceva assai più conto dell’altro che di sè stesso. Via più. Vie più. Assai più. // 121. Fosse. Fosse stata. Discreta. Avveduta. Saggia. // 132. Fisico. Medico. S’accorse. Da che procedesse il male di Antioco. // 123. Fornita. Finita. // 125. Forza. Necessità. // 126. La mia. Suppliscasi fu. // 127. Mute. Muti. // 128. Virg.: «Atque in verbo vestigia torsit.»* // 129. Che. In guisa che. Salute. Il saluto.

Poi che dagli occhi miei l’ombra si tolse,
Rimasi grave, e sospirando andai;
Chè ’l mio cor dal suo dir non si disciolse;

Infin che mi fu detto: troppo stai
In un pensier a le cose diverse;
E ’l tempo, ch’è brevissimo ben sai.

Non menò tanti armati in Grecia Serse,
Quant’ivi erano amanti ignudi e presi;
Tal che l’occhio la vista non sofferse.

Vari di lingue e vari di paesi,
Tanto che di mille un non seppi ’l nome,
Ma fanno istoria que’ pochi ch’io ’ntesi.

Perseo era l’uno, e volli saper come
Andromeda gli piacque in Etiopia,
Vergine bruna i begli occhi e le chiome.

E quel vano amator che, la sua propia
Bellezza desiando, fu distrutto;
Povero sol per troppo averne copia;

Che divenne un bel fior senz’alcun frutto:
E quella che, lui amando, in viva voce,
Fecesi ’l corpo un duro sasso asciutto.

 

Verso 131. Grave. Pensieroso. // 132. Che ’l mio cor ec. Perocchè non cessai di ripensare a quello ch’egli mi aveva detto. [A.] // 133. Mi fu detto. Dall’ombra mia compagna, detta di sopra. Troppo stai. Troppo tempo ti fermi. // 134. A le cose diverse. Rispetto alla moltitudine e diversità delle cose che hai da vedere. // 135. E ben sai che il tempo è brevissimo. – *Cod. Bol.: Non move’ ec.* // 137. Presi. Prigioni. // 138. La vista non sofferse. Cioè: non potè comprendere tanta moltitudine. // 141. Fanno istoria. Cioè: sarebbero materia bastante a volumi intieri. // 142. Era l’uno. Era uno di que’ pochi. // 145. E. Un altro di que’ pochi era. Quel vano amator. Narcisso. // 147. Intende: povero solo in ciò, che, possedendo egli in sè stesso quella bellezza, ond’era invaghito, non poteva fruirla, come gl’amanti fruiscono la bellezza vagheggiata in altre persone. [A.] // 149. E quella. Cioè la ninfa Eco. In viva voce. Suppliscasi cangiata. // 150. Fecesi ’l corpo. Divenne il suo corpo. – *Ovid.: «Vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.» Il cit. Cod. Bol. legge: Ignuda voce Fecesi il corpo in duro sasso asciutto. La qual lezione e il testo d’Ovidio manifestamente imitato mi fanno congetturare che sia da leggersi questo luogo così: E quella che lui amando, ignuda voce Fecesi, e ’l corpo un duro sasso asciutto. *

Ivi quell’altro al suo mal sì veloce
Ifi, ch’amando altrui, in odio s’ebbe;
Con più altri dannati a simil croce;

Gente cui per amar viver increbbe:
Ove raffigurai alcun moderni,
Ch’a nominar perduta opra sarebbe.

Quei duo che fece Amor compagni eterni,
Alcïone e Ceice, in riva al mare
Far i lor nidi a’ più soavi verni:

Lungo costor pensoso Esaco stare,
Cercando Esperia, or sopr’un sasso assiso,
Ed or sott’acqua, ed or alto volare:

E vidi la crudel figlia di Niso
Fuggir volando; e correre Atalanta,
Di tre palle d’ôr vinta, e d’un bel viso:

E seco Ippomenes, che, fra cotanta
Turba d’amanti e miseri cursori,
Sol di vittoria si rallegra e vanta.

 

Verso 151. Ivi. Suppliscasi era. // 152. Croce. Pena. Sventura. // 154. Viver increbbe. Dispiacque, venne in odio, la vita; e però si uccisero essi medesimi. // 155. Alcun. Alcuni. // 157. Che. Accusativo. // 159. Far. Suppliscasi vidi, che sta nel verso quarto dopo il presente. // 160. Lungo. Cioè presso. Stare. Suppliscasi vidi. // 161. Esperia. Nome della donna amata da Esaco. // 163. La crudel figlia di Niso. Scilla, trasformata in lodola. // 165. Di. Da. D’ôr. D’oro. D’un. Da un.

Fra questi favolosi e vani amori
Vidi Aci e Galatea, che ’n grembo gli era,
E Polifemo farne gran rumori;

Glauco ondeggiar per entro quella schiera
Senza colei cui sola par che pregi,
Nomando un’altra amante acerba e fera;

Carmente e Pico, un già de’ nostri regi,
Or vago augello; e chi di stato il mosse,
Lasciògli ’l nome e ’l real manto e i fregi.

Vidi ’l pianto d’Egeria; e ’n vece d’osse
Scilla indurarsi in petra aspra ed alpestra,
Che del mar siciliano infamia fosse;

E quella che la penna da man destra,
Come dogliosa e disperata scriva,
E ’l ferro ignudo tien da la sinestra;

Pigmalïon con la sua donna viva;
E mille che ’n Castalia ed Aganippe
Vidi cantar per l’una e l’altra riva;

E d’un pomo beffata al fin Cidippe.

 

Verso 173. Colei. Scilla figlia di Forco. // 174. Chiamando crudele e fiera un’altra amante di lui, cioè Circe, la quale per gelosia trasformò Scilla in sasso ovvero in mostro marino. // 171. De’ nostri regi. Degli antichi re d’Italia. // 176. Vago. Vagabondo. E chi di stato il mosse. E quella che trasformollo, che fu Circe. // 177. Il nome. Il suo nome di Pico. E ’l real manto e i fregi. Ha riguardo alla bellezza delle penne di quell’uccello che in latino si chiama picus e in italiano picchio. // 178. Osse. Ossa. // 179. Alpestra. Alpestre. // 180. Infamia fosse. «Et infames scopulos Acroceraunia.» [A.] // 181. Quella. Canace. Che la penna. Suppliscasi tien, che sta nell’ultimo verso della terzina. // 182. Come. In atto di chi. // 183. Sinestra. Sinistra. – *Ovid.: «Dextra tenet calamum strictum, tenet altera ferrum.»* // 184. Con la sua donna viva. Cioè, colla sua statua cangiata in donna. // 187. D’un. Da un.

CAPITOLO III.

Accenna prima due impedimenti che gli toglievano il poter domandare chi fosse una nuova schiera d’amanti, e poi come l’amico suo gliene diede contezza. Appresso prende cagione di raccontare come egli s’innamorò, e di chi; soggiugnendo gli effetti di questo innamoramento. Poscia distendesi nel significare come Laura innamorata non fosse, e quali fossero le bellezze di lei. Da ultimo manifesta partitamente quali cose egli, per esperienza, sappia intorno la vita degli amanti.

 

Era sì pieno il cor di maraviglie,
Ch’io stava come l’uom che non può dire,
E tace, e guarda pur ch’altri ’l consiglie:

Quando l’amico mio: che fai? che mire?
Che pensi? disse; non sai tu ben ch’io
Son de la turba, e mi convien seguire?

Frate, risposi, e tu sai l’esser mio,
E l’amor di saper, che m’à sì acceso,
Che l’opra è ritardata dal desio.

Ed egli: i’ t’avea già tacendo inteso:
Tu vuoi saper chi son quest’altri ancora;
I’ tel dirò, se ’l dir non m’è conteso.

Vedi quel grande il quale ogni uom onora;
Egli è Pompeo, ed à Cornelia seco,
Che del vil Tolomeo si lagna e plora.

L’altro più di lontan, quell’è ’l gran Greco;
Nè vede Egisto e l’empia Clitennestra:
Or puoi veder Amor s’egli è ben cieco.

 

Verso 1. Il cor. Il mio cuore. // 3. Consiglie. Consigli. // 4. L’amico mio. Cioè quell’ombra mia compagna, detta di sopra. Mire. Miri. // 6. Seguire. Seguitare il cammino. // 7. Frate. Fratello. // 9. L’opra. Di guardare e di andar oltre. Del desio. Di sapere. // 10. Tacendo. Tacendo tu. // 12. Conteso. Impedito. // 13. Il quale. Accusativo. // 15. Plora. Piange. // 16. Il gran Greco. Agamennone. // 17. Nè vede. Nè si accorge della tresca e delle insidie. [A.]

Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra;
Vedi Piramo e Tisbe insieme a l’ombra;
Leandro in mare ed Ero a la finestra.

Quel sì pensoso è Ulisse, affabil ombra,
Che la casta mogliera aspetta e prega,
Ma Circe, amando, gliel ritiene e ’ngombra.

L’altr’è ’l figliuol d’Amilcar: e nol piega
In cotant’anni Italia tutta e Roma;
Vil femminella in Puglia il prende e lega.

Quella che ’l suo signor con breve chioma
Va seguitando, in Ponto fu reina;
Come in atto servil sè stessa doma!

L’altra è Porzia che ’l ferro al foco affina;
Quell’altra è Giulia; e duolsi del marito:
Ch’a la seconda fiamma più s’inchina.

Volgi in qua gli occhi al gran padre schernito,
Che non si pente, e d’aver non gl’incresce
Sette e sett’anni per Rachel servito.

 

Verso 20. A l’ombra. Del gelso. // 23. Che. Accusativo. // 24. Amando. Amandolo. Ingombra. Impedisce. // 25. Il figliuol d’Amilcar. Annibale. Nol piega. Cioè nol doma. // 28. Quella. Isicratea. Il suo signor. Mitridate suo marito. Con breve chioma. Colla chioma tagliata, a uso di schiava. // 30. In atto servil. In figura ed opere da serva. // 31. Porzia. Moglie di Marco Bruto. Che ’l ferro al foco affina. Pigliano il che per accusativo, e spiegano le altre parole in questo modo: il rasoio dispone, prepara, ai carboni ardenti; avendo riguardo che Porzia, per amore del marito, si ferì una volta con un rasoio, e che, avuta notizia della morte di Bruto, si uccise ingoiando carboni ardenti. Veggansi gli Storici. Alcuni testi hanno invero: L’altra è Porzia che ’l ferro e ’l foco affina; cioè, cui il ferro e il fuoco affinano, vale a dire rendon perfetta in amore. E qualche Codice: Ch’al ferro e al foco affina; cioè si fa perfetto esempio di coniugale amore. [L.] // 32. Giulia. Moglie di Pompeo. // 33. A la seconda fiamma. Intende di Cornelia, seconda moglie di Pompeo. // 34. Al gran padre. Al patriarca Giacobbe. Schernito. Deluso da Labano. // 35. Cod. Bol. Che non si muta.* – E d’aver non gl’incresce. E non gli duole di avere.

Vivace amor, che negli affanni cresce!
Vedi ’l padre di questo, e vedi l’avo
Come di sua magion sol con Sarra esce.

Poi guarda come Amor crudele e pravo
Vince David e sforzalo a far l’opra
Onde poi pianga in luogo oscuro e cavo.

Simile nebbia par ch’oscuri e copra
Del più saggio figliuol la chiara fama,
E ’l parta in tutto dal signor di sopra.

Ve’ l’altro, che ’n un punto ama e disama:
Vedi Tamar, ch’al suo frate Absalone
Disdegnosa e dolente si richiama.

Poco dinanzi a lei vedi Sansone,
Via più forte che saggio, che per ciance
In grembo a la nemica il capo pone.

Vedi qui ben fra quante spade e lance
Amor e ’l sonno ed una vedovetta
Con bel parlar con sue pulite guance

Vince Oloferne; e lei tornar soletta
Con una ancilla e con l’orribil teschio,
Dio ringraziando, a mezza notte in fretta.

 

Verso 38. Di questo. Di Giacobbe. // 39. Di sua magion. Della terra d’Aran. Meglio il Cod. Bolog.: Di sua region.* // 41. L’opra. Cioè l’adulterio di Bersabea. // 42. Onde. Di cui. Per cui. // 43. Simile nebbia. Cioè la passione dell’amore. // 44. Del più saggio figliuol. Cioè di Salomone. // 45. Parta. Disgiunga. Allontani. Alieni. Dal signor di sopra. Da Dio. // 46. Ve’. Vedi. L’altro. Ammone, figlio altresì di Davide. // 47. Frate. Fratello. // 48. Si richiama. Si querela di Ammone. // 50. Via. Vie. Assai. // 55. E lei tornar. Suppliscasi vedi. // 56. Ancilla. Ancella.

Vedi Sichen, e ’l suo sangue, ch’è meschio
De la circoncision e de la morte;
E ’l padre colto e ’l popolo ad un veschio:

Questo gli à fatto il subito amar forte.
Vedi Assuero; e ’l suo amor in qual modo
Va medicando acciò che ’n pace il porte.

Da l’un si scioglie e lega a l’altro nodo:
Cotale à questa malizia rimedio,
Come d’asse si trae chiodo con chiodo.

Vuoi veder in un cor diletto e tedio,
Dolce ed amaro? or mira il fero Erode,
Ch’amor e crudeltà gli àn posto assedio.

Vedi com’arde prima, e poi si rode,
Tardi pentito di sua feritate,
Marïanne chiamando che non l’ode.

Vedi tre belle donne innamorate,
Procri, Artemisia, con Deidamia;
Ed altrettante ardite e scellerate,

Semiramis e Bibli e Mirra ria;
Come ciascuna par che si vergogni
De la lor non concessa e torta via.

 

Verso 58. Meschio. Mescolato. Misto. // 60. E ’l padre. Emor, padre di Sichen. Ad un veschio. Ad un vischio. A uno stesso laccio. A una medesima astuzia. Veggasi la Scrittura. // 61. Questo. Accusativo. Fatto. Cagionato. Il subito amar forte. L’essersi subitamente e gagliardamente innamorato della figliuola di Giacobbe, di nome Dina. // 62. Il suo amor. Accusativo. // 63. Acciò che ’n pace il porte. Per portarlo in pace. Porte invece di porti. // 64. Si scioglie dall’un nodo, cioè ripudia Vasti, e si lega all’altro, cioè si congiunge in matrimonio ad Ester. // 65. Questa malizia. Questo male, cioè dell’amore. – Cod. Bolog.: questa malattia. – *Fra Guitt.: «Cotal rimedio ha questo aspro furore, Tal aqua suole spegner questo foco: Come d’asse si trae chiodo con chiodo.»* // 68. Dolce ed amaro. Nomi sostantivi. // 75. Ed altrettante. E tre altre. // 77. Come. Dipende da vedi, che sta quattro versi più sopra. Ciascuna. Ciascuna di queste tre ultime. // 78. Dai loro amori e piaceri nefandi.

Ecco quei che le carte empion di sogni,
Lancillotto, Tristano e gli altri erranti.
Onde convien che ’l vulgo errante agogni.

Vedi Ginevra, Isotta e l’altre amanti,
E la coppia d’Arimino, che ’nsieme
Vanno facendo dolorosi pianti.

Così parlava: ed io, com’uom che teme
Futuro male e trema anzi la tromba,
Sentendo già dov’altri ancor nol preme,

Avea color d’uom tratto d’una tomba:
Quando una giovinetta ebbi da lato,
Pura assai più che candida colomba.

Ella mi prese; ed io ch’arei giurato
Difendermi da uom coperto d’arme,
Con parole e con cenni fui legato.

E come ricordar di vero parme,
L’amico mio più presso mi si fece,
E con un riso, per più doglia darme,

Dissemi entro l’orecchia: omai ti lece
Per te stesso parlar con chi ti piace,
Chè tutti siam macchiati d’una pece.

 

Versi 79-80. Intende dei cavalieri erranti, gran materia di favole e di romanzi. // 81. Credo che voglia significare: per li quali esempi e per le quali novelle e storie frivole e favolose, conviene che il volgo, il quale non è meno errante dell’intelletto, di quel che tali cavalieri fossero erranti della persona, s’inclini agli amori, alle concupiscenze e alle lascivie. – Agogni ad amori e ad imprese simili a quelle che di costoro si leggono raccontate. [A.] // 83. La coppia d’Arimino. Francesca e Paolo da Rimini, cantati da Dante. – *Dante, Inf., V.: «Que’ duo che insieme vanno.»* // 86. Anzi la tromba. Prima del segno della battaglia. Prima del pericolo. – *Virg., En., XI, 424: «Cur ante tubam tremor occupat artus?»* // 87. Dove. Quando. Altri. Alcuno. Preme. Assale. Incalza. // 89. Una giovinetta. Vuol dir Laura. // 91. Arei. Avrei. // 92. Difendermi. Di potermi difendere. // 94. E come mi par veramente di ricordarmi. // 96. Darme. Darmi. // 97. Ti lece. Ti lice. Ti è lecito. Puoi. // 98. Con chi ti piace. Con qualunque vuoi di costoro. // 99. Vuol dire: poichè sei divenuto dei nostri, cioè servo d’Amore come siamo noi.

Io era un di color cui più dispiace
Dell’altrui ben che del suo mal, vedendo
Chi m’avea preso, in libertate e ’n pace.

E, come tardi dopo ’l danno intendo,
Di sue bellezze mia morte facea,
D’amor, di gelosia, d’invidia ardendo.

Gli occhi dal suo bel viso non volgea,
Com’uom ch’è infermo e di tal cosa ingordo
Ch’al gusto è dolce, a la salute è rea.

Ad ogni altro piacer cieco era e sordo,
Seguendo lei per sì dubbiosi passi,
Ch’i’ tremo ancor qualor me ne ricordo.

Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi
E ’l cor pensoso, e solitario albergo
Fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi.

Da indi in qua cotante carte aspergo
Di pensieri, di lagrime e d’inchiostro;
Tante ne squarcio, n’apparecchio e vergo.

 

Verso 102. Chi m’avea preso. Colei che m’avea preso. Cioè Laura. In libertate e ’n pace. Si riferisce a vedendo. // 104. Facea. Persona prima. // 111. Qualor. Ogni volta che. // 117. Vergo. Scrivo.

Da indi in qua so che si fa nel chiostro
D’Amor; e che si teme e che si spera,
A chi sa legger, ne la fronte il mostro.

E veggio andar quella leggiadra e fera,
Non curando di me nè di mie pene,
Di sua virtute e di mie spoglie altera.

Da l’altra parte, s’io discerno bene,
Questo Signor, che tutto ’l mondo sforza,
Teme di lei; ond’io son fuor di spene:

Ch’a mia difesa non è ardir nè forza;
E quello in ch’io sperava, lei lusinga,
Così selvaggia e ribellante suole
Da l’insegne d’Amor andar solinga.

E veramente è fra le stelle un Sole
Un singular suo proprio portamento,
Suo riso, suoi disdegni e sue parole:

Le chiome accolte in oro o sparse al vento
Gli occhi, ch’accesi d’un celeste lume,
M’infiamman sì, ch’io son d’arder contento.

Verso 115. Che si fa. Quello che si fa. – *Il Cod. Bol. legge ciò in cambio di so.* – Nel chiostro; usa questa voce dov’altri avrebbe nel regno o simile, per indicare la servitù in che era caduto. [A.] – // 123. Altera. Dipende dal verbo andar, che sta nel primo verso della terzina. // 125. Questo Signor. Amore. Sforza. Priva di forza. [A.] // 128. Quello. Cioè Amore. In che. In cui. // l29. Che. Il quale. Cioè quello in ch’io sperava. Scorza. Sbuccia. Scorteccia. Scortica. // 130. Nessuno ci ha che tanto o quanto, cioè punto, stringa, cioè tocchi di amore, costei. // 136. Accolte. Raccolte.

Chi poria ’l mansueto alto costume
Agguagliar mai parlando e la virtute,
Ov’è ’l mio stil quasi al mar picciol fiume?

Nove cose e già mai più non vedute,
Nè da veder già mai più d’una volta,
Ove tutte le lingue sarian mute.

Così preso mi trovo ed ella sciolta;
E prego giorno e notte (o stella iniqua!)
Ed ella appena di mille uno ascolta.

Dura legge d’Amor! ma ben che obliqua,
Serrar conviensi; però ch’ella aggiunge
Di cielo in terra, universale, antiqua.

Or so come da sè il cor si disgiunge,
E come sa far pace, guerra e tregua,
E coprir suo dolor quand’altri ’l punge.

E so come in un punto si dilegua
E poi si sparge per le guance il sangue,
Se paura o vergogna avvien che ’l segua.

Verso 139. Poria. Potria. // 141. Ove. Rispetto alla quale. Quasi al mar picciol fiume. Come un picciol fiume rispetto al mare. // 144. Tutte le lingue. Qualunque lingua che volesse lodarle o descriverle. Sarian mute. Parrebbero come mute. // 147. Di mille. Cioè di mille preghi. // 148. Dura legge d’Amor! Intende delle leggi e degli ordini del governo di Amore in genere. Obliqua. Torta. Ingiusta. // 149. Servar conviensi. Conviene osservarla, sottostarvi. Però che. Perocchè. Aggiunge. Arriva. Si stende. // 154. In un punto. In un medesimo punto. Si dilegua. Fugge dalle guance. // 156. Segua. Insegua.

So come sta tra’ fiori ascoso l’angue;
Come sempre fra due si vegghia e dorme;
Come senza languir si more e langue.

So de la mia nemica cercar l’orme,
E temer di trovarla; e so in qual guisa
L’amante ne l’amato si trasforme.

So fra lunghi sospiri e brevi risa
Stato, voglia, color cangiare spesso;
Viver, stando dal cor l’alma divisa.

So mille volte il dì ingannar me stesso;
So, seguendo ’l mio fuoco ovunqu’e’ fugge,
Arder da lunge ed agghiacciar da presso.

So com’Amor sopra la mente rugge,
E com’ogni ragione indi discaccia;
E so in quante maniere il cor si strugge.

So di che poco canape s’allaccia
Un’anima gentil, quand’ella è sola,
E non è chi per lei difesa faccia.

Verso 158. Fra due. Fra due affetti o pensieri contrari. Fra il sì e il no. // 159. Senza languir. Per malattia corporale. // 162. Trasforme. Trasformi. // 167. Il mio foco. Cioè la donna ch’io amo. // 170. Indi. Cioè dalla mente. // 172. Vuol dire: so quanto poco si richiede, quanto poco basta, a fare innamorare. // 173. Sola. Cioè senza la guardia della ragione. // 174. Non è. Non ci ha.

So com’Amor saetta e come vola;
E so com’or minaccia ed or percote:
Come ruba per forza e come invola;

E come sono instabili sue ruote;
Le speranze dubbiose e ’l dolor certo;
Sue promesse di fè come son vòte;

Come ne l’ossa il suo foco, coperto
E ne le vene vive occulta piaga,
Onde morte è palese e ’ncendio aperto.

In somma so com’è incostante e vaga,
Timida, ardita vita degli amanti;
Ch’un poco dolce molto amaro appaga:

E so i costumi e i lor sospiri e canti
E ’l parlar rotto e ’l subito silenzio
E ’l brevissimo riso e i lunghi pianti,

E qual è ’l mèl temprato con l’assenzio.

Verso 177. Invola. Cioè ruba di nascosto. // 178. Attribuisce ad Amore la ruota, come sogliono i poeti attribuirne alla Fortuna. // 180. . Fede. // 181. Come (vive) coperto il suo foco nell’ossa, e (come) nelle vene ec. [A.] – *Virg., En., IV.: «Vulnus alit venis et cœco carpitur igni.» // 183. Aperto. Manifesto. // 184. Vaga. Instabile. Mutabile. // 185. Vita. La vita. // 186. Un poco dolce. Un poco di dolce. Amaro. Nome sostantivo. Appaga. Ricompensa. // 187. I costumi. I loro costumi. // 188. Virg.: «Incipit effari, medioque in voce resistit.»* // 190. E come il loro mèle, cioè il piacere che essi hanno, è temperato coll’assenzio.

CAPITOLO IV.

Notifica che come fu innamorato si dimesticò subito con tutti gli altri consorti suoi, de’ quali conobbe le pene e i casi; e che vide alcuni poeti amorosi, di varie nazioni. Quindi, colta opportunità, piagne la morte di Tommaso da Messina; e commenda Lelio e Socrate, suoi amicissimi. Poi ritorna alla sua materia, narrando per quali vie e a qual luogo egli e i suoi compagni prigioni fossero menati in trionfo.

 

Poscia che mia fortuna in forza altrui
M’ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
Di libertate ove alcun tempo fui;

Io, ch’era più salvatico ch’e’ cervi,
Ratto domesticato fui con tutti
I miei infelici e miseri conservi:

E le fatiche lor vidi e’ lor lutti,
Per che torti sentieri e con qual arte
A l’amorosa greggia eran condutti.

Mentre ch’io volgea gli occhi in ogni parte,
S’i’ ne vedessi alcun di chiara fama
O per antiche o per moderne carte,

Vidi colui che sola Euridice ama,
E lei segue a l’inferno, e per lei morto,
Con la lingua già fredda la richiama.

Alceo conobbi, a dir d’amor sì scorto;
Pindaro, Anacreonte, che rimesse
Avea sue muse sol d’Amore in porto.

Verso 1. In forza. In potere. // 2. Incisi. Tagliati. Suppliscasi ebbe. // 3. Ove. Nella quale. Alcun tempo. Già un tempo. // 4. E’. I. // 5. Ratto. Avverbio. Prestamente. // 6. Conservi. Di Amore. // 7. E’. E i. // 9. Eran condutti. Erano stati condotti. // 11-12. Cercando se mi venisse veduto alcun famoso scrittore antico o moderno. // 13. Virg., Geor.: «Euridicem vox ipsa et frigida lingua, Ah miseram Euridicem, anima fugiente, vocabat!»* // 16. A dir d’amor sì scorto. Sì buono, sì valoroso, poeta d’amore. // 17. Rimesse. Messe in terra. // 18. Sol d’Amore in porto. Vuol dire che Anacreonte non cantò altro che di materie amorose.

Virgilio vidi; e parmi intorno avesse
Compagni d’alto ingegno e da trastullo,
Di quei che volentier già ’l mondo elesse.

L’un era Ovidio e l’altro era Tibullo,
L’altro Properzio, che d’amor cantaro
Fervidamente, e l’altro era Catullo.

Una giovene greca a paro a paro
Coi nobili poeti gìa cantando;
Ed avea un suo stil leggiadro e raro.

Così or quinci or quindi rimirando,
Vidi in una fiorita e verde piaggia
Gente che d’amor givan ragionando.

Ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia;
Ecco Cin da Pistoia; Guitton d’Arezzo,
Che di non esser primo par ch’ira aggia.

Ecco i duo Guidi, che già furo in prezzo;
Onesto Bolognese; e i Siciliani,
Che fur già primi, e quivi eran da sezzo;

Sennuccio e Franceschin, che fur sì umani,
Com’ogni uom vide: e poi v’era un drappello
Di portamenti e di volgari strani.

 

Verso 19. Parmi. Parmi che. // 20. Da trastullo. Cioè scrittori di versi leggieri e da passatempo. // 21. Che. Cioè, la cui lettura. // 25. Una giovene greca. Saffo. Giovene sta per giovane. // 23. Or quinci or quindi. Or di qua or di là. // 29-30. Il Cod. Bol. e un altro Modanese, citato dal Muratori, danno questa notevole lezione: Vidi gente ir per una verde piaggia, Pur d’Amor volgarmente ragionando.* // 31. Selvaggia. Amata da Cino da Pistoia. // 33. Primo. Principale de’ poeti italiani. Aggia. Abbia. // 34. I duo Guidi. Guido Cavalcanti e Guido Guinicelli, versificatori. Prezzo. Riputazione. // 35. I Siciliani. I versificatori siciliani. // 36. Primi. In riputazione. Da sezzo. Da ultimo. Nell’ultimo luogo. Ultimi. // 37. Sennuccio e Franceschin. Stati amici del poeta. // 33. Un drappello. Intende dei versificatori provenzali. // 39. Volgari. Idiomi. Strani. Forestieri.

Fra tutti il primo Arnaldo Danïello,
Gran maestro d’amor; ch’a la sua terra
Ancor fa onor col suo dir novo e bello.

Eranvi quei ch’Amor sì leve afferra,
L’un Pietro e l’altro; e ’l men famoso Arnaldo;
E quei che fur conquisi con più guerra,

I’ dico l’uno e l’altro Raïmbaldo,
Che cantò pur Beatrice in Monferrato;
E ’l vecchio Pier d’Alvernia con Giraldo;

Folchetto, ch’a Marsiglia il nome ha dato
Ed a Genova tolto, ed a l’estremo
Cangiò per miglior patria abito e stato;

Gianfrè Rudel, ch’usò la vela e ’l remo
A cercar la sua morte; e quel Guglielmo
Che per cantar à ’l fior de’ suoi dì scemo;

Amerigo, Bernardo, Ugo ed Anselmo;
E mille altri ne vidi, a cui la lingua
Lancia e spada fu sempre e scudo ed elmo.

Verso 43. Leve. Di leggieri. Agevolmente. // 44. L’un Pietro e l’altro. Pietro Vidal e Pietro Negeri. E ’l men famoso Arnaldo. Dice il men famoso rispetto all’altro Arnaldo mentovato più sopra. // 45. Conquisi. Cioè domi, vinti, da Amore. Con più guerra. Cioè più difficilmente che i due Pietri e il minore Arnaldo, i quali, come ha detto di sopra, Amor sì leve afferra. // 47. Che cantò: il Carrer legge, Che cantâr. [L.] // 49-51. Folchetto, il quale essendo di nascita genovese, illustrò colla propria fama Marsiglia, dove abitò, e che in ultimo prese abito monacale. // 52-53. Ch’usò la vela e ’l remo A cercar la sua morte. Imbarcatosi per andare a trovar la contessa di Tripoli, della quale era innamorato, infermò per via, e giunto colà dove era indirizzato, tratto della nave, spirò nelle braccia della contessa. // 54. Scemo. Scemato. Abbreviato. Dipende dalla voce à. Veggasi la trentesimanona novella del Decamerone. // 57. Cioè, arme di cui si valsero negli assalti di Amore. Veggasi la decima Canzone della prima Parte, in principio della terza stanza.

E poi convien che ’l mio dolor distingua,
Volsimi a’ nostri, e vidi ’l buon Tomasso,
Ch’ornò Bologna, ed or Messina impingua.

O fugace dolcezza! o viver lasso!
Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi.
Senza ’l qual non sapea mover un passo?

Dove se’ or, che meco eri pur dianzi?
Ben è ’l viver mortal, che sì n’aggrada,
Sogno d’infermi e fola di romanzi.

Poco era fuor de la comune strada,
Quando Socrate e Lelio vidi in prima:
Con lor più lunga via convien ch’io vada.

O qual coppia d’amici! che nè ’n rima
Poria nè ’n prosa assai ornar nè ’n versi,
Se, come dè’, virtù nuda si stima.

Con questi duo cercai monti diversi,
Andando tutti tre sempre ad un giogo;
A questi le mie piaghe tutte apersi.

Verso 58. E poi, cioè poichè, convien pure che io distingua, cioè specifichi ed esponga distintamente, il mio dolore, cioè la mia disavventura (che è la morte di quel Tommaso che è nominato qui sotto), dirò che io. // 59. A’ nostri. Alle ombre degli italiani. – *Il buon Tomasso. Tommaso Caloria da Messina, amicissimo del Petrarca.* // 60. Messina impingua. Vuol dire: è sepolto in. Messina. // 62. Chi mi ti tolse. Parla al detto Tommaso. // 63. Senza ’l qual. Dipende dal pronome ti del verso precedente. Non sapea. Io non sapeva. // 65. Ben. In verità. . Tanto. Ne. Ci. // 66. Oraz.: «Velut ægri somnia vana Finguntur species etc.»* // 67. Poco tempo era che io aveva lasciate le vane occupazioni della moltitudine, e preso a seguire i buoni studi. // 68. Socrate e Lelio. Accenna sotto questi nomi due amici suoi, di cui non sappiamo i nomi veri. – *Socrate. Luigi di Kempen, e Lelio o Lello di Piero di Stefano, gentiluomo romano; entrambi famigliari di Stefano Colonna, vescovo di Lombes, e intrinseci del Petrarca.* – In prima. La prima volta. // 69. Vuol dire che egli è vissuto con questi due amici (i quali a me pare che fossero ancora in vita quando l’autore scriveva) più lungo tempo che col predetto Tommaso. // 70. Che. Accusativo. // 71. Poria. Potrei. Assai ornar. Lodare abbastanza. // 72. Dè’. Dee. Debbe. Nuda. Sincera. Schietta. Senza artifizi. Ovvero senza altre doti, procedenti dalla fortuna o simili. – *Lucrez.: «Et si successu nuda remoto Inspicitur virtus, etc.»* // 73. Monti diversi. Pare che sia parlar figurato, e voglia significare diverse scienze e dottrine. // 74. Ad un giogo. Ad una sola e medesima cima. Cioè alla sapienza, e alla virtù. // 75. Le mie piaghe. Cioè i miei travagli, o i miei difetti. Apersi. Scopersi. Palesai.

Da costor non mi può tempo nè luogo
Divider mai (sì come spero e bramo)
Infin al cener del funereo rogo.

Con costor colsi ’l glorïoso ramo
Onde forse anzi tempo ornai le tempie
In memoria di quella ch’i’ tanto amo.

Ma pur di lei che ’l cor di pensier m’empie
Non potei coglier mai ramo nè foglia;
Sì fur le sue radici acerbe ed empie.

Onde ben che talor doler mi soglia,
Com’uom ch’è offeso, quel che con quest’occhi
Vidi, m’è un fren che mai più non mi doglia.

Materia da coturni, e non da socchi,
Veder preso colui ch’è fatto Deo
Da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi.

Ma prima vo’ seguir che di noi feo
Poi seguirò quel che d’altrui sostenne:
Opra non mia, ma d’Omero o d’Orfeo.

Versi 79-81. Accenna la corona di lauro che gli fu posta in Campidoglio. Anzi tempo. Prima del tempo. Troppo presto. // 82-83. Vuol dire che Laura non s’indusse mai a soddisfare in alcuna parte ai desiderii di lui. // 84. . Tanto. Empie. Spietate. // 85. Onde. Della qual cosa. // 86-87. Quel che con quest’occhi Vidi. Cioè la vittoria che Laura riportò di Amore, la quale si narra nel Capitolo susseguente. Che mai. Sicchè mai. // 88. Argomento degno di tragedia e non di commedia, cioè di poema alto e magnifico e non di versi umili e piani. // 89. Colui. Cioè Amore. Deo. Dio. // 90. Rintuzzati. Contrario di acuti. Ottusi. // 91-93. Ma prima voglio seguitare a dire quello che costui fece di noi; appresso seguiterò dicendo quello che egli ebbe a sostenere, cioè a patire, da altri, cioè da Laura e dalle compagne; benchè questa sia materia che eccede il mio poco ingegno, e che vorrebbe piuttosto un Omero o un Orfeo.

Seguimmo il suon de le purpuree penne
De’ volanti corsier per mille fosse,
Fin che nel regno di sua madre venne:

Nè rallentate le catene o scosse,
Ma straziati per selve e per montagne,
Tal che nessun sapea ’n qual mondo fosse.

Giace oltra, ove l’Egeo sospira e piagne,
Un’isoletta delicata e molle
Più ch’altra che ’l Sol scalde o che ’l mar bagne.

Nel mezzo è un ombroso e verde colle
Con sì soavi odor, con sì dolci acque,
Ch’ogni maschio pensier de l’alma tolle.

Quest’è la terra che cotanto piacque
A Venere, e ’n quel tempo a lei fu sacra,
Che ’l ver nascoso e sconosciuto giacque.

Ed anco è di valor sì nuda e macra,
Tanto ritien del suo primo esser vile,
Che par dolce a’ cattivi, ed a’ buoni acra.

Verso 95. De’ volanti corsier. Di quelli del carro di Amore. // 96. Venne. Cioè Amore. // 97. Suppliscasi ci furono. Scosse. Tolte. // 98. Ma straziati. Suppliscasi fummo. // 99. Nessun. Nessun di noi. // 100. Oltra ove. Oltre colà ove. Colà oltre, dove. // 101. Un’isoletta. Intende dell’isola di Cipro. // 102. Ch’altra. Che qualunque altra. Scalde. Scaldi. Bagne. Bagni. // 105. De l’alma tolle. Toglie dall’animo. // 107-108. E ’n quel tempo a lei fu sacra, Che. E fu sacra a lei in quel tempo in cui ec. Vuol dire nel tempo del gentilesimo. – *Dante: «Al tempo degli Dei falsi e bugiardi.» E altrove: «Le genti antiche ne l’antico errore.»* // 109. Anco. Ancora. Anche oggi. Macra. Magra. Cioè povera. // 110. Esser. Stato. Condizione. // 111. Acra. Agra. Spiacevole.

Or quivi trionfò ’l Signor gentile
Di noi e d’altri tutti, ch’ad un laccio
Presi avea dal mar d’India a quel di Tile.

Pensieri in grembo, e vanitade in braccio;
Diletti fuggitivi, e ferma noia;
Rose di verno, a mezza state il ghiaccio;

Dubbia speme davanti e breve gioia,
Penitenza e dolor dopo le spalle,
Qual nel regno di Roma o ’n quel di Troia,

E rimbombava tutta quella valle
D’acque e d’augelli, ed eran le sue rive
Bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle:

Rivi correnti di fontane vive;
E ’l caldo tempo, su per l’erba fresca,
E l’ombra folta e l’aure dolci estive:

Poi, quando ’l verno l’aer si rinfresca,
Tepidi Soli e giochi e cibi ed ozio
Lento, ch’e’ simplicetti cori invesca.

Verso 112. Il Signor gentile. Amore. // 113. D’altri tutti. Di tutti gli altri. Ad un laccio. Ad uno stesso laccio. // 115. In grembo. Dentro. E vanitate in braccio. Vuol dir che gli amanti non istringono altro che ombre e cose vane. // 116. Ferma. Stabile. Durevole. Noia. Dispiacere. Travaglio. // 119. Penitenza. Pentimento. Dopo. Dietro. // 120. Come fu nel re Tarquinio per l’amor di Lucrezia, e in Paride per quello di Elena. // 124. Suppliscasi erano o sono quivi. Di. Da. // 125-126. E ’l caldo tempo. E nel tempo caldo evvi su per l’erba fresca l’ombra di alberi folti e il venticello dolce di state. – *Cod. Bol.: ombra spessa.* // 127. Il verno. Nel verno. // 128. Tepidi Soli. Sonovi, hannovi, Soli tepidi. // 129. Lento. Pigro. Invesca. Invischia.

Era ne la stagion che l’equinozio
Fa vincitor il giorno, e Progne riede,
Con la sorella, al suo dolce negozio.

O di nostra fortuna instabil fede!
In quel loco, in quel tempo ed in quell’ora
Che più largo tributo agli occhi chiede,

Trionfar volse quel che ’l vulgo adora:
E vidi a qual servaggio ed a qual morte
Ed a che strazio va chi s’innamora.

Errori, e sogni ed immagini smorte
Eran d’intorno al carro triunfale;
E false opinïoni in su le porte;

E lubrico sperar su per le scale;
E dannoso guadagno, ed util danno;
E gradi ove più scende chi più sale;

Stanco riposo, e riposato affanno;
Chiaro disnor, e gloria oscura e nigra;
Perfida lealtate, e fido inganno;

Sollicito furore, e ragion pigra;
Carcer ove si vien per strade aperte,
Onde per strette a gran pena si migra;

Ratte scese a l’intrar, a l’uscir erte;
Dentro, confusïon turbida, e mischia
Di doglie certe e d’allegrezze incerte.

Verso 130. Era ne la stagion che. Era la stagione in cui. L’equinozio. Di primavera. // 131. Vincitor. Cioè più lungo della notte. Progne. Cioè la rondine. Riede. Ritorna. // 132. Con la sorella. Con Filomena. Cioè coll’usignuolo. Al suo dolce negozio. Alla cura del nido. – Negozio; questa voce al tempo del Petrarca traeva dal latino maggior nobiltà che non abbia al presente. [A.] – E Dante nello stesso significato: «In che i gravi labor ci sono aggrati.»* // 133. Così esclama mosso dal tornargli alla mente che in quella stagione ebbe principio l’amor suo, e che in quella medesima la sua donna passò di vita. // 134. In quell’ora. Nell’ora del levar del sole. Veggansi il settimo e l’ottavo verso del Sonetto ventesimo della prima Parte. // 135. Tributo. Di lagrime. // 136. Volse. Volle. Quel. Colui. Cioè Amore. Che. Accusativo. // 139. Smorte. Pallide. Cioè oscure, confuse. // 141. In su le porte. Del palagio d’Amore. // 142. Lubrico sperar. Speranza sdrucciolevole. Cioè pericolosa o instabile. // 143. Dannoso. Cioè all’anima. Util. All’anima. // 144. Gradi. Gradini. Scaglioni. // 146. Disnor. Disonore. Nigra. Nera. // 147. Perfida. Infida. // 148. Sollicito furor. Insania operosa. // 149. Aperte. Larghe. // 150. Onde. E dal quale. Per strette. Suppliscasi strade. Si migra. Si esce. Si parte. // 151. Scese. Nome sostantivo. Intrar. Entrare. Erte. Nome sostantivo. Salite. – *Virg.: «Facilis descensus Averni; Sed remeare gradum, superasque evadere ad auras, Hoc opus, hic labor.» // 152. Turbida. Torbida. Mischia. Mischiata. Mista.

Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia,
Stromboli o Mongibello in tanta rabbia.
Poco ama sè chi in tal gioco s’arrischia.

In così tenebrosa e stretta gabbia
Rinchiusi fummo; ove le penne usate
Mutai per tempo e la mia prima labbia.

E ’ntanto, pur sognando libertate,
L’alma, che ’l gran desio fea pronta e leve,
Consolai con veder le cose andate.

Rimirando, er’io fatto al Sol di neve,
Tanti spirti e sì chiari in carcer tetro,
Quasi lunga pittura in tempo breve,

Chè ’l piè va innanzi, e l’occhio torna indietro.

Verso 154. Vulcan. Isola vicina alla Sicilia. // 155. In. Con. // 156. Ama sè. Ama sè stesso. // 157. Gabbia. Cioè prigione. // 158-159. Le penne usate Mutai. Vuol dire incanutii. Dice le penne piuttosto che il pelo, continuando la metafora degli uccelli rinchiusi in gabbia. Per tempo. Immaturamente. Prima del tempo. La mia prima labbia. Il mio primo aspetto. // 161. L’alma. L’alma mia. Che. Accusativo. Fea. Facea. Leve. Leggera. Spedita. // 162. Le cose andate. Le cose passate. Cioè i casi degli amanti più antichi. // 163. Io era divenuto di neve al sole, cioè mi struggea come neve al sole, rimirando. // 164. Chiari. Famosi. In carcer tetro. Nel carcere dove io era, cioè in quello di Amore. // 165. Rimirandoli dico, come chi mira in tempo breve una lunga tela dipinta. // 166. Che. Nel mirar la qual pittura in tempo breve.

TRIONFO DELLA CASTITÀ.

«Con queste e con alquante anime chiare
Trionfar vidi di colui che pria
Veduto avea del mondo trionfare.»

Trionfo della Castità.

CAPITOLO UNICO.

Primieramente si consola del non essere egli stato risparmiato da Amore, veggendo che non lo furono nè gl’Iddii nè gli uomini grandissimi; e appresso si conforta dell’essere stata da lui risparmiata Laura, scorgendo che Amore non ha ciò fatto di volontà, ma per più non potere. Poi descrive l’assalto d’Amore e di Laura, dimostrando la fierezza di quello per alcune comparazioni; e racconta la vittoria avuta da Laura sopra il nemico, e la confusione di esso. Indi nomina alcune donne che assistettero al trionfo di Laura, e segna il luogo dov’ella trionfò; e narra come parimente Scipione l’accompagnasse infino a Roma al tempio della Pudicizia, al quale ella consacrò le spoglie della vittoria, e diede Amore prigione in guardia al toscano Spurina e ad altri.

 

Quando ad un giogo ed in un tempo quivi
Domita l’alterezza degli Dei,
E degli uomini vidi al mondo divi;

I’ presi esempio de’ lor stati rei,
Facendomi profitto l’altrui male
In consolar i casi e dolor miei:

Che s’io veggio d’un arco e d’uno strale
Febo percosso e ’l giovine d’Abido,
L’un detto Dio, l’altr’uom puro mortale;

E veggio ad un lacciuol Giunone e Dido,
Ch’amor pio del suo sposo a morte spinse,
Non quel d’Enea, com’è ’l pubblico grido,

Non mi debbo doler s’altri mi vinse
Giovine, incauto, disarmato e solo.
E se la mia nemica Amor non strinse,

Non è ancor giusta assai cagion di duolo:
Chè in abito il rividi ch’io ne piansi;
Sì tolte gli eran l’ali e ’l gire a volo.

Verso 1. Quivi. Nella prigione di Amore. // 2. Domita. Doma. // 3. Divi. Divini. // 4. De’. Dai. Rei. Miseri. // 5-6. Servendomi il male degli altri a consolarmi delle disavventure e delle pene mie. – *Cod. Bol.: Facendo mio profitto.* // 7. D’un arco e d’uno strale. D’un medesimo arco e strale. Cioè dall’arco e dallo strale di Amore. // 8. Il giovine d’Abido. Leandro. // 10. Ad un lacciuol. A uno stesso lacciuolo. Suppliscasi prese. Dido. Didone. // 11. Che. Accusativo. Del suo sposo. Di Sicheo. // 12. Non l’amore di Enea, come generalmente si dice. // 13. Altri. Cioè Amore. // 14. Dipende dal pronome mi del verso di sopra. // 15-17. E se Amore non recò in sua soggezione la mia nemica, cioè Laura, nè anche questa è ragion bastante di lamentarmi; chè io lo rividi poi sì malconcio per averla voluta assalire, e ridotto in abito, cioè in istato, tale, che io ne ebbi a piangere di compassione. // 16. . Talmente. Sì fattamente.

Non con altro romor di petto dansi
Duo leon fieri, e duo folgori ardenti,
Che cielo e terra e mar dar loco fansi,

Ch’i’ vidi Amor con tutti suo’ argomenti
Mover contra colei di ch’io ragiono,
E lei più presta assai che fiamma o venti.

Non fan sì grande e sì terribil suono
Etna qualor da Encelado è più scossa,
Scilla e Cariddi quando irate sono,

Che via maggior in su la prima mossa
Non fosse del dubbioso e grave assalto,
Ch’i’ non credo ridir sappia nè possa:

Ciascun per sè si ritraeva in alto,
Per veder meglio; e l’orror de l’impresa
I cori e gli occhi avea fatti di smalto.

Quel vincitor che prima era a l’offesa,
Da man dritta lo stral, da l’altra l’arco,
E la corda a l’orecchia avea già tesa.

Verso 19. Di petto dansi. Si danno di petto. Cioè: si avventano l’un contro l’altro, si vanno a scontrare, a urtare. – *Staz.: «Cum duo diversi pariter se fulmina cœli Rupta cadunt.»* // 21. Che si fanno dar luogo dall’aria, dalla terra e dal mare. // 22. Che. Dipende dal pronome altro, che sta nel principio della terzina antecedente. Argomenti. Arnesi. Strumenti. Armi. Macchine. Ingegni. // 23. Mover. Verbo neutro. // 24. E lei. Suppliscasi vidi muovere. // 26. Qualor. Qualvolta. Qualunque volta. // 28. Via. Vie. Assai. // 29. Non fosse. Suppliscasi il suono. // 30. Il quale io non mi credo saper nè poter dare ad intendere. // 31. Ciascun per sè. Ciascuno dei circostanti per la sua parte. // 33. I cori e gli occhi ec. Vuol dire che gli astanti, compresi di alto spavento, e intenti a vedere come riuscisse quello scontro così terribile, non fiatavano nè battevano palpebra, quasi gente impietrita. [A.] // 34. Quel vincitor. Cioè Amore. Che prima era a l’offesa. Vuol dire: che era l’assalitore. // 35. Suppliscasi avea, che sta nel verso seguente.

Non corse mai sì levemente al varco
Di fuggitiva cerva un leopardo
Libero in selva, o di catene scarco,

Che non fosse stato ivi lento e tardo;
Tanto Amor venne pronto a lei ferire
Con le faville al volto ond’io tutt’ardo.

Combattea in me con la pietà il desire:
Chè dolce m’era sì fatta compagna;
Duro a vederla in tal modo perire.

Ma virtù, che da buon non si scompagna,
Mostrò a quel punto ben com’a gran torto
Chi abbandona lei, d’altrui si lagna.

Chè già mai schermidor non fu sì accorto
A schifar colpo, nè nocchier sì presto
A volger nave dagli scogli in porto,

Come uno schermo intrepido ed onesto
Subito ricoperse quel bel viso
Dal colpo, a chi l’attende, agro e funesto.

Verso 37. Levemente. Velocemente. Varco. Passo. // 39. O di catene scarco. Accenna l’usanza di adoperare il leopardo alla caccia.* // 42. Onde. Delle quali. Per le quali. // 44. Che dolce m’era ec. Compagna. Agli antichi valeva compagnia; perciò intendi: Che mi sarebbe stata cara sì fatta compagnia.* // 47. A quel punto. In quel frangente; nel momento del pericolo, e perciò del bisogno, mostrò ch’essa non viene mai meno ai buoni; sicchè a torto si lagna di lei chi non n’è soccorso, giacchè, s’egli non si fosse dilungato da lei, essa lo avrebbe all’uopo aiutato. [A.] // 48. Lei. Cioè, essa virtù. // 50. Schifar. Schivare. // 52. Schermo. Riparo. // 54. Agro. Acerbo.

I’ era al fin con gli occhi attento e fiso,
Sperando la vittoria ond’esser sòle;
E per non esser più da lei diviso,

Corre chi smisuratamente vôle,
Ch’à scritto innanzi ch’a parlar cominci,
Ne gli occhi e ne la fronte le parole,

Volea dir io: Signor mio se, tu vinci,
Legami con costei s’io ne son degno;
Nè temer che già mai mi scioglie quinci:

Quand’io ’l vidi pien d’ira e di disdegno
Sì grave, ch’a ridirlo sarian vinti
Tutti i maggior, non che ’l mio basso ingegno

Chè già in fredda onestate erano estinti
I dorati suoi strali accesi in fiamma
D’amorosa beltade e ’n piacer tinti.

Non ebbe mai di vero valor dramma
Camilla e l’altre andar use in battaglia
Con la sinistra sola intera mamma:

Non fu sì ardente Cesare in Farsaglia
Contra ’l genero suo, com’ella fue
Contra colui ch’ogni lorica smaglia.

Verso 55. Al fin. All’esito, al successo della battaglia. // 56. Sperando che la vittoria sarebbe da quella parte dalla quale ella suole essere, cioè dalla parte di Amore. // 58. Vôle. Vuole. Brama. // 59. Ch’à scritto. Che porta, che mostra, scritte. // 63. Mi scioglia. Io mi sciolga. Quinci. Di qui. Dalle tue catene. Dalla tua servitù. // 65-66. Ch’a ridirlo sarian vinti Tutti i maggior, non che ’l mio basso ingegno. Che non solo il mio ingegno piccolo e basso, ma qualunque altro si voglia dei più eccelsi e più grandi, non lo arriverebbe a ridire. // 70. Suppliscasi a comparazion di costei. Dramma. Punto. // 71. E l’altre. Vuol dire le altre amazzoni. Andar use. Use, cioè solite, di andare. // 72. Vuol dire colla destra mamma, mammella, tagliata. // 74. Contra ’l genero suo. Pompeo. Fue. Fu. Cioè ardente. // 75. Cioè contro Amore.

Armate eran con lei tutte le sue
Chiare virtuti (o glorïosa schiera!)
E teneansi per mano a due a due.

Onestate e Vergogna a la fronte era;
Nobile par de le virtù divine,
Che fan costei sopra le donne altera;

Senno e Modestia a l’altre due confine;
Abito con diletto in mezzo ’l core;
Perseveranza e gloria in su la fine;

Bell’Accoglienza, Accorgimento fore;
Cortesia intorno intorno a Puritate,
Timor d’infamia e sol Desio d’onore;

Pensier canuti in giovenile etate,
E (la concordia ch’è sì rara al mondo)
V’era con Castità somma Beltate.

Tal venìa contr’Amor, e ’n sì secondo
Favor del cielo e de le ben nate alme,
Che de la vista ei non sofferse il pondo.

Verso 79. Vergogna. Pudicizia. Verecondia.* // 80. Par. Paio. // 81. Sopra le donne altera. Sublime sopra le altre donne. // 82. A l’altre due confine. Erano confini, cioè vicine, alle altre due, cioè ad Onestà e Vergogna, dette di sopra. Ovvero, come alcuni intendono, confini alle altre due virtù dette cardinali, cioè, Giustizia e Fortezza. // 83. In mezzo ’l core. Suppliscasi erano. //. 85. Fore. Erano di fuori. // 88. Rutil. Numaz.: «Vitæ flore puer, sed gravitate senex.»* // 89-90. E v’era somma Bellezza con Castità, due condizioni che sì rare volte si trovano congiunte insieme. // 91. Venìa. Veniva colei. E ’n sì secondo. E con sì secondo, cioè propizio, prospero. // 92. De le ben nate alme. Di quelle che si diranno appresso. // 93. De la vista. Della vista di lei. Ei. Amore. Non sofferse. Non potè sostenere. Pondo. Peso.

Mille e mille famose e care salme
Tôrre gli vidi, e scotergli di mano
Mille vittorïose e chiare palme.

Non fu ’l cader di subito sì strano
Dopo tante vittorie ad Anniballe
Vinto a la fin dal giovine romano;

Nè giacque sì smarrito ne la valle
Di Terebinto quel gran Filisteo
A cui tutto Israel dava le spalle,

Al primo sasso del garzone ebreo;
Nè Ciro in Scizia, ove la vedova orba
La gran vendetta e memorabil feo.

Com’uom ch’è sano, e ’n un momento ammorba,
Che sbigottisce e duolsi; o colto in atto
Che vergogna con man dagli occhi forba;

Cotal era egli, ed anco a peggior patto;
Chè paura e dolor, vergogna ed ira
Eran nel volto suo tutte ad un tratto.

Verso 94. Salme. Spoglie. // 95. Tôrre gli vidi. Cioè vidi Laura tôrre ad Amore. // 97-99. Non riuscì sì strano ad Annibale, dopo tanto vittorie, il cadere alla fine subitamente vinto dal giovane Scipione. // 101. Quel gran Filisteo. Il gigante Golia. // 102. Dava. Volgeva fuggendo. // 103. Dipende dal verbo giacque del principio della terzina qui dietro. // 104. Nè Ciro. Suppliscasi giacque sì smarrito. La vedova. Cioè la regina Tomiri. Orba. Del figlio, uccisole da’ Persiani. // 105. Feo. Fece. // 106. Ammorba. Ammala. Inferma. Verbo neutro. // 107. O colto. O come uomo colto. // 108. Che. Tale che egli. Per cui egli. Forba. Forbisca. // 109. Egli. Cioè Amore. A peggior patto. In peggiore stato.

Non freme così ’l mar quando s’adira,
Non Inarime allor che Tifeo piagne,
Non Mongibel s’Encelado sospira.

Passo qui cose glorïose e magne
Ch’io vidi e dir non oso: a la mia Donna
Vengo ed a l’altre sue minor compagne.

Ell’avea in dosso il dì candida gonna;
Lo scudo in man che mal vide Medusa:
D’un bel diaspro era ivi una colonna,

A la qual, d’una in mezzo Lete infusa
Catena di diamanti e di topazio,
Che s’usò fra le donne oggi non s’usa,

Legar il vidi; e farne quello strazio
Che bastò bene a mille altre vendette,
Ed io per me ne fui contento e sazio.

Io non poria le sacre e benedette
Vergini ch’ivi fur, chiuder in rima;
Non Calliope e Clio con l’altre sette.

 

Verso 113. Inarime. L’isola detta oggi d’Ischia. Tifeo. Gigante, che i poeti finsero imprigionato nella detta isola. // 114. Mongibel. Etna. // 115. Passo. Lascio. Passo in silenzio. Magne. Grandi. // 116. E dir non oso. Perchè vincono il mio ingegno. // 118. Il dì. Quel dì. // 119. Lo scudo. Quello dato da Pallade cioè dalla Sapienza, a Perseo. Suppliscasi avea. Che. Accusativo. // 121-126. Alla qual colonna io vidi lui, cioè Amore, esser legato, cioè da Laura e dalle compagne, con una catena di diamanti e di topazio (simboli di costanza e di castità), infusa in mezzo al fiume di Lete, la quale fu in uso tra le donne già un tempo, ma oggi non si usa più: e vidi la medesima Laura e quelle altre donne far di lui tale strazio, che bastò per vendetta di mille altri offesi da esso, ed io per la parte mia me ne tenni vendicato compiutamente. // 124. Dante: «Dopo ciò poco vidi quello strazio. Far di costui… Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.»* // 127. Poria. Potrei. // 128. Chiuder. Cioè annoverar tutte. // 129. Non. Non lo potrebbono. Con l’altre sette. Colle altre sette muse.

Ma d’alquante dirò che ’n su la cima
Son di vera onestate; infra le quali
Lucrezia da man destra era la prima,

L’altra Penelopè: queste gli strali,
E la faretra e l’arco avean spezzato
A quel protervo, e spennacchiate l’ali.

Virginia appresso il fiero padre armato
Di disdegno, di ferro e di pietate;
Ch’a sua figlia ed a Roma cangiò stato,

L’un’e l’altra ponendo in libertate:
Poi le Tedesche che con aspra morte
Servar la lor barbarica onestate.

Giudit ebrea, la saggia, casta e forte;
E quella Greca che saltò nel mare
Per morir netta e fuggir dura sorte.

Con queste e con alquante anime chiare
Triunfar vidi di colui che pria
Veduto avea del mondo triunfare.

 

Versi 130-131: Cod. Bol.: Che sono in cima Di verace onestade.* // 135. A quel protervo. Cioè ad Amore. // 136. Virginia. Suppliscasi era, o v’era. Appresso il. Presso al. // 133. Che. Dipende dal nome padre. // 141. Servâr. Serbarono. Ciò fu dopo la vittoria che Mario ebbe dei mariti. – *Cod. Bol.: Servaron lor ecc.* // 143. E quella greca. Ippo. // 145. Chiare. Famose. // 146. Triunfar vidi. Suppliscasi Laura. Che. Accusativo. // 147. Avea. Persona prima.

Fra l’altre la vestal vergine pia
Che baldanzosamente corse al Tibro,
E per purgarsi d’ogn’infamia ria

Portò dal fiume al tempio acqua col cribro;
Poi vidi Ersilia con le sue Sabine,
Schiera che del suo nome empie ogni libro.

Poi vidi, fra le donne peregrine,
Quella che per lo suo diletto e fido
Sposo, non per Enea, volse ir al fine:

Taccia ’l volgo ignorante: i’ dico Dido,
Cui studio d’onestate a morte spinse,
Non vano amor com’è ’l pubblico grido.

Al fin vidi una che si chiuse e strinse
Sopr’Arno per servarsi; e non le valse;
Chè forza altrui il suo bel pensier vinse.

Era il triunfo dove l’onde salse
Percoton Baia; ch’al tepido verno
Giunse a man destra, e ’n terra ferma salse.

 

Verso 145. Fra l’altre. Suppliscasi vidi. La vestal vergine pia. Tuzia. // 149. Baldanzosamente. Confidentemente. Sicuramente. *Francamente. Tibro. Tevere. // 150. D’ogni infamia ria. Del peccato appostole d’incontinenza. // 154. Peregrine. Straniere. Non italiane. // 156. Volse. Volle. Ir al fine. Morire. // 159. Studio. Amore. Cura. // 159. Veggasi la quarta terzina di questo Trionfo. // 160. Una. Piccarda da Firenze, cantata da Dante. Si chiuse e strinse. Vuol dire: si fece monaca. – *Dante Par. III, 103: «Del mondo per seguirla, giovinetta Fuggi’ mi e nel suo abito ivi chiusi (di santa Chiara) E promisi la via de la sua setta.»* // 161. Sopr’Arno. In riva all’Arno. Per servarsi. Per serbarsi casta. Valse. Bastò. Giovò. – *Dante, loc. cit.: «Uomini poi a mal più ch’a ben usi Fuor mi rapiron de la dolce chiostra.»* // 162. Chè. Perocchè. Il suo bel pensier. La sua lodevole intenzione. // 163. Il triunfo. La pompa trionfale di Laura. Dove. Nel luogo ove. // 164-165. Ch’al tepido verno Giunse a man destra, e ’n terra ferma salse. Finge che la pompa trionfale di Laura dall’isola di Cipro, dove Amore dalla medesima Laura era stato vinto e preso (veggasi il verso centesimo coi seguenti del Trionfo d’Amore, Capitolo ultimo), passasse per mare a Baia, a man destra della detta isola; e dice che la stagione era un inverno tepido, volendo significare la temperata freddezza dell’animo di Laura e di quelle altre donne caste. Salse vuol dire saltò, cioè sbarcò, come in altri esempi ha notato molto bene il Monti nella Proposta, sotto la voce salire.

Indi fra monte Barbaro ed Averno,
L’antichissimo albergo di Sibilla
Passando, se n’andâr dritto a Linterno.

In così angusta e solitaria villa
Era il grand’uom che d’Affrica s’appella
Perchè prima col ferro al vivo aprilla.

Qui de l’ostile onor l’alta novella,
Non scemato con gli occhi, a tutti piacque;
E la più casta era ivi la più bella.

Nè ’l triunfo d’altrui seguire spiacque
A lui che, se credenza non è vana,
Sol per trionfi e per imperi nacque.

Così giugnemmo a la città soprana
Nel tempio pria che dedicò Sulpizia
Per spegner ne la mente fiamma insana.

Passammo al tempio poi di Pudicizia,
Ch’accende in cor gentil oneste voglie,
Non di gente plebea ma di patrizia.

 

Verso 169. Cioè in quella di Linterno. // 170. Il grand’uom. Cioè Scipione Affricano maggiore. Che d’Affrica s’appella. Che ha nome dall’Affrica. // 171. Prima. Per la prima volta. // 172. De l’ostile onor. Cioè del trionfo di Laura. // 173. Non scemato con gli occhi. Vuol dire che quel trionfo non riuscì meno maraviglioso a vederlo, di quel che n’avea portato la fama. // 174. Intende di Laura. // 175. Il triunfo. Accusativo. // 176. A lui. Cioè a Scipione Affricano maggiore. // 178. A la città soprana. Alla città sovrana, suprema. Cioè a Roma. // 179. Che. Accusativo. // 183. Due templi della Pudicizia erano in Roma, l’uno de’ plebei, l’altro dei patrizi.

Ivi spiegò le glorïose spoglie
La bella vincitrice, ivi depose
Le sue vittorïose e sacre foglie:

E ’l giovine Toscan, che non ascose
Le belle piaghe che ’l fer non sospetto,
Del comune nemico in guardia pose

Con parecchi altri; e fummi ’l nome detto
D’alcun di lor, come mia scorta seppe,
Ch’avean fatto ad Amor chiaro disdetto;

Fra’ quali vidi Ippolito e Gioseppe.

 

Verso 187. Il giovine Toscan. Spurina, che, per levare il sospetto e il timore che gli altri avevano di lui per la sua gran bellezza, si guastò di sua mano il viso con alcune ferite. Accusativo. // 188. Fer. Fecero. // 189. Del comune nemico. Cioè di Amore prigione. // 190-191. E fummi ’l nome detto D’alcun di lor, come mia scorta seppe. Cioè: la mia scorta (che è quell’ombra di cui si parla in principio del Trionfo d’Amore) mi disse il nome di alcuni di questi tali, per quanto ella ne seppe. // 192. Che. I quali. Dipende da parecchi altri. Chiaro. Famoso. Disdetto. Cioè contraddizione, ripulsa, rifiuto, contrasto. Far disdetto vale dir di no, contraddire, sconsentire, repugnare. – *Il Cod. Bol. legge: difetto; ed è buona lezione, potendosi intendere il far difetto ad alcuno nel senso di offendere alcuno, come nelle V. de’ SS. PP.: «Dimmi in che io t’ho contristato e fatto difetto?» ovvero nel significato del lat. deficere, abbandonare, ribellarsi, onde qui difetto suonerebbe defezione.* // 193. Ippolito. Figlio di Teseo. Gioseppe. Figlio di Giacobbe.

TRIONFO DELLA MORTE.

«O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
E il nome vostro appena si ritrova.»

Trionfo della Morte, Cap. I.

CAPITOLO I.

In questo capitolo racchiude il Petrarca la descrizione del ritorno da Roma in Provenza di Laura vittoriosa; lo scontro della Morte in lei; il ragionamento della Morte e di Laura; una sua digressione contro la vanità delle cose mondane, presa cagione dalla moltitudine de’ morti potenti; la morte di Laura, amplificata dalle persone presenti, dal modo di uccidere della Morte, dagli atti e dalle parole degli astanti, dal tempo, dall’assenza dei demonj, e dalla qualità piacevole del morire.

 

Questa leggiadra e glorïosa donna
Ch’è oggi nullo spirto e poca terra,
E fu già di valor alta colonna,

Tornava con onor da la sua guerra,
Allegra, avendo vinto il gran nemico
Che con suo’ inganni tutto ’l mondo atterra,

Non con altr’arme che col cor pudico,
E d’un bel viso e di pensieri schivi,
D’un parlar saggio e d’onestate amico.

Era miracol novo a veder quivi
Rotte l’arme d’Amor, arco e saette;
E quai morti da lui, quai presi vivi.

La bella donna e le compagne elette,
Tornando da la nobile vittoria,
In un bel drappellotto ivan ristrette.

Poche eran, perchè rara è vera gloria;
Ma ciascuna per sè parea ben degna
Di poema chiarissimo e d’istoria.

 

Verso 7. Non con altr’arme. Dipende dalle parole avendo vinto. // 6. E d’un bel viso. E coll’arme di un bel viso. // 10. Miracol novo. Maraviglia non più veduta. A veder. Il vedere. // 12. E qual, ec. E il miracolo era a veder rotte da Laura quelle arme, con le quali Amore avea morti (uccisi) o presi vivi tanti altri. [A.]

Era la lor vittorïosa insegna
In campo verde un candido armellino,
Ch’oro fino e topazi al collo tegna.

Non uman veramente, ma divino
Lor andar era e lor sante parole:
Beato è ben chi nasce a tal destino!

Stelle chiare pareano, in mezzo un Sole
Che tutte ornava e non togliea lor vista,
Di rose incoronate e di viole.

E come gentil cor onore acquista,
Così venia quella brigata allegra:
Quand’io vidi un’insegna oscura e trista

Ed una donna involta in veste negra,
Con un furor qual io non so se mai
Al tempo dei giganti fosse a Flegra,

Si mosse, e disse: o tu, donna, che vai
Di gioventute e di bellezza altera,
E di tua vita il termine non sai;

Io son colei che sì importuna e fera
Chiamata son da voi e sorda e cieca,
Gente a cui si fa notte innanzi sera.

 

Verso 20. In campo verde. Il color verde del campo della insegna è figura della gioventù. // 21. Tegna. Tenga. // 23. Andar. Andamento. // 26. Non togliea. Cioè non impediva agli altri. // 28-29. Vuol dire che quelle donne dimostravano di fuori il piacer che sentivano dell’onore acquistato. // 31. Una donna. Cioè la Morte. // 32. Qual. Cioè, simile al quale. // 36. Di tua vita il termine. Cioè qual sia il termine destinato alla tua vita, quando abbia a finir la tua vita. // 38. Da voi. Da voi mortali. – Sorda alle preghiere di chi non vorrebbe morire; cieca, abbattendo talvolta i più giovani e i più utili al mondo [A.] // 39. Vuol dir gente sciocca, di corta veduta, di poco intendimento, di giudizio torto. Dipende da voi. Innanzi sera. Prima di sera.

I’ ò condotto alfin la gente greca
E la troiana, a l’ultimo i Romani,
Con la mia spada, la qual punge e seca,

E popoli altri barbareschi e strani;
E giungendo quand’altri non m’aspetta,
Ò interrotti mille pensier vani.

Or a voi, quand’il viver più diletta,
Drizzo il mio corso, innanzi che Fortuna
Nel vostro dolce qualche amaro metta.

In costor non ài tu ragione alcuna,
Ed in me poca; solo in questa spoglia:
Rispose quella che fu nel mondo una.

Altri so che n’arà più di me doglia,
La cui salute dal mio viver pende;
A me fia grazia che di qui mi scioglia.

Qual è chi ’n cosa nova gli occhi intende,
E vede ond’al principio non si accorse;
Sì ch’or si maraviglia, or si riprende;

Tal si fe quella fera: e poi che ’n forse
Fu stata un poco: ben le riconosco,
Disse, e so quando ’l mio dente le morse.

 

Verso 41. A l’ultimo. Finalmente. // 42. Seca. Taglia. // 43. E popoli altri. Ed altri popoli. Dipende dalle parole della terzina precedente, I’ ò condotto alfin. // 44. Altri. La gente. // 46. Diletta. Verbo. Ripetasi a voi. // 48. Dolce. Nome sostantivo. Amaro. Sostantivo. // 49. In costor. In queste mie compagne già morte. Ragione. Diritto. Potestà. // 50. In questa spoglia. Cioè nel mio corpo. // 51. Una. Unica. Singolare. // 52. So che altri (il Poeta intende qui di sè stesso) avrà, di questa cosa, cioè della mia fine, maggior dolore di quello che n’avrò io. // 53. La cui salute. Dipende da altri. Pende. Dipende. // 54. Io avrò per grazia, a me sarà caro, che tu mi sciolga di qui, cioè mi liberi da questa prigione terrena. // 55. Intende. Fissa. // 56. Onde. Cosa di cui. // 58. Si fe. Si fece. Divenne. Quella fera. La Morte. // 59. Le riconosco. Cioè coteste tue compagne. – *Dante: «Quivi ne sto coi parvoli innocenti, Dai denti morsi della morte avanti che fosser dell’umana colpa esenti.»*

Poi col ciglio men torbido e men fosco,
Disse: tu che la bella schiera guidi,
Pur non sentisti mai mio duro tosco.

Se del consiglio mio punto ti fidi,
Che sforzar posso, egli è pur il migliore
Fuggir vecchiezza e suoi molti fastidi.

I’ son disposta farti un tale onore,
Qual altrui far non soglio, che tu passi
Senza paura e senz’alcun dolore.

Come piace al signor che in cielo stassi,
Ed indi regge e tempra l’universo,
Farai di une quel che degli altri fassi:

Così rispose. Ed ecco da traverso
Piena di morti tutta la campagna,
Che comprender non può prosa nè verso.

Da India, dal Cataio, Marocco e Spagna
Il mezzo avea già pieno e le pendici
Per molti tempi quella turba magna.

 

Verso 63. Pur. Sola tra le altre di questa schiera. // 65. Che. La quale. Dipende dal pronome mio, che vale di me. Sforzar posso. Ti potrei, se volessi, sforzare, in cambio di consigliarti. Egli. Voce che ridonda. Il migliore. Il meglio. Il miglior partito. // 68. Altrui. Agli altri. Che tu passi. Sono disposta, dico, a fare che tu passi di questa vita. // 71. Indi. Di lassù. // 73. Ed ecco. Suppliscasi io vidi. // 75. Che. In guisa che. Comprender. Abbracciare. Esporre compiutamente. // 76-78. Cioè, dalla estremità orientale della torre alla estremità occidentale, quella gran moltitudine di gente morta in lunga successione di tempo, aveva già empiuto il mezzo cioè il tratto interposto, e le pendici, cioè le rive, i contorni. Pieno. Empiuto. Magna. Grande.

Ivi eran quei che fur detti felici,
Pontefici, regnanti e ’mperatori;
Or sono ignudi, poveri e mendici.

U’ son or le ricchezze? u’ son gli onori
E le gemme e gli scettri e le corone
E le mitre e i purpurei colori?

Miser chi speme in cosa mortal pone!
(Ma chi non ve la pone?) e s’ei si trova
A la fine ingannato, è ben ragione.

O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran madre antica,
E ’l nome vostro appena si ritrova.

Pur de le mille un’utile fatica,
Che non sian tutte vanità palesi;
Chi ’ntende i vostri studi, sì mel dica.

 

Verso 81. Cod. Bol.: miseri e mendici. * // 82. U’. Dove. // 84. Il Leopardi, seguendo sempre il Marsand, leggeva: E le mitre con purpurei colori. Noi abbiam preferita la lezione dei Codici estensi proposta dal Muratori, e adottata dal Carrer. [L.] // 87. Ragione. Ragionevole. // 88. Affaticar. Verbo neutro. // 89. A la gran madre antica. Alla terra. – *Virg.: «Antiquam exquirite matrem.»* // 91-93. Vuol dire: chi ha diritta cognizione dei vostri studi, cioè delle vostre cure ed occupazioni, mi dica se in mille vostre fatiche ce ne ha una sola utile; sicchè non sieno tutte quante vanità manifeste.

Che vale a soggiogar tanti paesi
E tributarie far le genti strane
Con gli animi al suo danno sempre accesi?

Dopo l’imprese perigliose e vane,
E col sangue acquistar terra e tesoro,
Via più dolce si trova l’acqua e ’l pane,

E ’l vetro e ’l legno, che le gemme e l’oro.
Ma per non seguir più sì lungo tema,
Temp’è ch’io torni al mio primo lavoro.

I’ dico che giunta era l’ora estrema
Di quella breve vita glorïosa,
E ’l dubbio passo di che ’l mondo trema.

Era a vederla un’altra valorosa
Schiera di donne non dal corpo sciolta,
Per saper s’esser può Morte pietosa.

Quella bella compagna er’ivi accolta
Pur a veder e contemplar il fine
Che far conviensi, e non più d’una volta.

 

Verso 94. Vale. Giova. A soggiogar. Di soggiogare. Il soggiogare. // 95. Strane. Straniere. // 96. Al suo danno. Al proprio danno. A procacciare il proprio danno – cioè a procacciar cose le quali abbiano aspetto di bene, ma poi nel vero riescono dannose. [A.] // 93. E dopo gli acquisti di terre e di ricchezze fatti col sangue. // 99. Via. Vie. Assai. // 101. Sì lungo tema. Argomento che vorrebbe tante parole. // 102. Temp’è. È tempo. Lavoro. Proposito. // 104. Cioè della vita di Laura. // 105. Il dubbio passo. Cioè il passo della morte. Di che. Di cui. // 106. Era a vederla. Era quivi presente a vederla, cioè a veder Laura. // 107. Non dal corpo sciolta. Cioè ancora in vita. // 108. Dipende dalle parole era a vederla. // 109. Compagna. Compagnia. Accolta. Raccolta. // 110. Pur. Solo. // 111. Che far conviensi. Che a tutti i mortali bisogna fare.

Tutte sue amiche, e tutte eran vicine.
Allor di quella bionda testa svelse
Morte con la sua mano un aureo crine.

Così del mondo il più bel fiore scelse;
Non già per odio, ma per dimostrarsi
Più chiaramente ne le cose eccelse.

Quanti lamenti lagrimosi sparsi
Fur ivi, essendo quei begli occhi asciutti.
Per ch’io lunga stagion cantai ed arsi!

E fra tanti sospiri e tanti lutti
Tacita e lieta sola si sedea,
Del suo bel viver già cogliendo i frutti.

Vattene in pace, o vera mortal Dea,
Diceano: e tal fu ben: ma non le valse
Contra la Morte in sua ragion sì rea.

Che fia de l’altre, se quest’arse ed alse
In poche notti e si cangiò più volte?
O umane speranze cieche e false!

Se la terra bagnâr lagrime molte
Per la pietà di quell’alma gentile,
Chi ’l vide il sa; tu ’l pensa che l’ascolte.

Verso 112. Tutte sue amiche. Suppliscasi erano. // 115. Del mondo il più bel fiore scelse. Si tolse la più eccellente creatura del mondo, cioè Laura. – *Cod. Bol.: Il più bel lauro.* // 116. Dimostrarsi. Dimostrare la sua potenza. // 117. Ne le cose eccelse. Qual era Laura. // 119. Essendo quei begli occhi asciutti. Senza che apparisse però una lagrima in quei begli occhi. // 120. Per che. Per li quali occhi. Lunga stagion. Lungo tempo. // 123. Cioè: godendo in quel punto di una sicurtà d’animo e di una pace che erano frutti della sua bella vita. // 125. Diceano. Cioè quelle donne. E tal fu ben; ma non le valse. E tale fu ella veramente; ma ciò non le valse. // 126. In sua ragion sì rea. Cioè: sì dura esattrice de’ suoi diritti. // 127. De l’altre. Delle altre donne mortali. Arse ed alse. Patì ardore e gelo. // 128. In poche notti. Cioè nel breve tempo dell’ultima infermità. // 132. Tu ’l pensa che l’ascolte. Tu che lo ascolti, te lo immagina.

L’ora prima era e ’l dì sesto d’aprile,
Che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse.
Come Fortuna va cangiando stile!

Nessun di servitù già mai si dolse,
Nè di morte, quant’io di libertate,
E de la vita ch’altri non mi tolse.

Debito al mondo e debito a l’etate
Cacciar me innanzi ch’era giunto in prima,
Nè a lui torre ancor sua dignitate.

Or, qual fusse ’l dolor, qui non si stima;
Ch’appena oso pensarne, non ch’io sia
Ardito di parlarne in versi o ’n rima.

Virtù morta è, bellezza e cortesia
(Le belle donne intorno al casto letto
Triste diceano); omai di noi che fia?

Chi vedrà mai in donna atto perfetto?
Chi udirà il parlar di saper pieno
E ’l canto pien d’angelico diletto?

Lo spirto per partir di quel bel seno,
Con tutte sue virtuti in sè romito,
Fatto avea in quella parte il ciel sereno.

 

Verso 134. Che già mi strinse. Vuol dire: nel qual giorno e nella quale ora io già m’innamorai. // 136. Si dolse. Suppliscasi tanto. // 137. Quant’io. Suppliscasi mi dolsi e mi dolgo. // 135. Vuol dire: e che la Morte non abbia spento ancor me. // 139. Debito. Era dovuto. // 140. Cacciar. Dal mondo. Innanzi. Cioè prima di Laura. Che. Dipende da me. Giunto. Al mondo. In prima. Prima di Laura. // 141. A lui. Cioè al mondo. Sua dignitate. Il suo maggior pregio ed ornamento, che consisteva in Laura. // 142. Fusse. Fosse. Qui. Cioè, da me in questo luogo. Non si stima. Non si misura. Non si determina. // 143-144. Che non solo io non ardisco di ragionarne, ma eziandio appena oso pensarlo. // 145. Mai. Mai più da ora innanzi. // 149. Di saper pieno. Pieno di sapere. // 151. Lo spirto. Di Laura. Per partir. Per la sua partenza. Essendosi partito. Col suo partirsi. Di. Da. // 152. Romito. Raccolto. Ristretto. // 153. In quella parte. In quella parte alla quale aveva indirizzato il suo volo. – *Ovid.: «Risit, et aer Protinus ex illa parte serenus erat.»*

Nessun degli avversari fu sì ardito
Ch’apparisse già mai con vista oscura
Fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.

Poi che, deposto il pianto e la paura,
Pur al bel viso era ciascuna intenta,
Per disperazïon fatta secura;

Non come fiamma che per forza è spenta,
Ma che per sè medesma si consume,
Se n’andò in pace l’anima contenta;

A guisa d’un soave e chiaro lume
Cui nutrimento a poco a poco manca;
Tenendo al fin il suo usato costume.

Pallida no, ma più che neve bianca,
Che senza vento in un bel colle fiocchi,
Parea posar come persona stanca.

Quasi un dolce dormir ne’ suoi begli occhi
Essendo ’l spirto già da lei diviso,
Era quel che morir chiaman gli sciocchi.

Morte bella parea nel suo bel viso.

 

Verso 151. Degli avversari. Degli spiriti maligni. // 155. Vista. Sembianza. // 150. Fornito. Finito. // 158. Pur. Solo. Ciascuna. Delle donne circostanti. // 159. Per desperazïon fatta secura. Suppliscasi era. // 161. Per. Da. Consume. Consumi. // 165. Tenendo al fin. Mantenendo insino alla fine. Usato. Consueto. // 168. Posar. Riposarsi. – *Plin. Secondo:«Habitus corporis quiescenti similior, quam defuncto.»* // 169. Dipende dal verbo era, che sta nell’ultimo verso della terzina. Quasi. Come. // 170. Invece di essendo ’l spirto, troppo duro e difficile all’orecchio, qualche Codice estense, veduto dal Muratori, ha sendo lo spirto. [L.]

CAPITOLO II.

Infino a qui il Petrarca narrò un sogno, in cui gli parve di scorgere, come se fosse desto, il trionfo d’Amore della Castità e della Morte, con tutto le maraviglie da lui descritte; ma al presente significa come gli sembrava, sognando, di vedere Laura che lo consolasse del dolore sentito per la sua morte, e di ragionare con esso lei.

 

La notte che seguì l’orribil caso
Che spense ’l Sol, anzi ’l ripose in cielo,
Ond’io son qui com’uom cieco rimaso,

Spargea per l’aere il dolce estivo gelo,
Che con la bianca amica di Titone
Suol de’ sogni confusi tôrre il velo;

Quando donna sembiante a la stagione,
Di gemme orïentali incoronata,
Mosse vêr me da mille altre corone;

E quella man già tanto desiata
A me, parlando e sospirando, porse:
Ond’eterna dolcezza al cor m’è nata.

Riconosci colei che prima torse
I passi tuoi dal pubblico vïaggio,
Come ’l cor giovenil di lei s accorse?

Così, pensosa, in atto umile e saggio
S’assise e seder femmi in una riva
La qual ombrava un bel lauro ed un faggio.

 

Versi 1-2. Cioè la notte che venne dopo la morte di Laura. // 3. Onde, io sono rimaso qui, cioè in terra, come uomo cieco, essendo privato del mio sole. // 4. Spargea. Dipende dal nome la notte. – *Il dolce estivo gelo, la rugiada.* // 5. Con la bianca amica di Titone. Coll’aurora. In sull’alba. // 6. Suol rischiarare i sogni. Suole apportare i sogni veri. Stimarono gli antichi che i sogni che si veggono in sul mattino fossero più conformi alla verità che gli altri. – *Dante chiama altresì questa l’ora «In che la mente nostra pellegrina Più da la carne e men da’ pensier presa, A le sue visïon quasi è divina.» E Ovid.: «Tempore quo cerni somnia vera solent.»* // 7. Sembiante alla stagione. Somigliante a quell’ora. Vuol dire: somigliante all’Aurora. // 8. Dipende dal nome donna. // 9. Mosse. Si mosse. Venne. Vêr. Verso. Da mille altre corone. Da una compagnia di mille altre anime medesimamente incoronate. Vuol dire: dal paradiso. // 13-14. Torse I passi tuoi dal pubblico viaggio. Ti ritrasse dalla comune strada, dalla volgare usanza, del vivere. // 15. Come. Tosto che. Il cor. Il tuo cuore. // 16. Così. Così dicendo. // 17. Femmi. Mi fece. // 18. La qual. Accusativo. Ombrava. Adombrava.

Come non conosch’io l’alma mia Diva?
Risposi in guisa d’uom che parla e plora:
Dimmi pur, prego, se sei morta o viva.

Viva son io, e tu sei morto ancora,
Diss’ella, e sarai sempre, fin che giunga
Per levarti di terra l’ultim’ora.

Ma ’l tempo è breve, e nostra voglia è lunga:
Però t’avvisa, e ’l tuo dir stringi e frena,
Anzi che ’l giorno, già vicin, n’aggiunga.

Ed io: al fin di quest’altra serena
Ch’à nome vita, che per prova ’l sai,
Deh dimmi se ’l morir è sì gran pena.

Rispose: mentre al vulgo dietro vai,
Ed a l’opinïon sua cieca e dura,
Esser felice non puo’ tu giammai.

La morte è fin d’una prigione oscura
Agli animi gentili; agli altri è noia,
Ch’ànno posto nel fango ogni lor cura.

 

Verso 20. Plora. Piange. // 21. Pur. Solamente. Prego. Ti prego. – *Cod. Bolog.: Stu se’ morta o viva.»* // 22. Cic. De somn. Scip.: «Vestra vero, quæ dicitur vita, mors est.» // 23. E sarai sempre. Cioè morto. // 25. Ma il tempo che ora ci è conceduto da stare insieme è breve, e noi abbiamo gran quantità di cose che ci vorremmo dire. // 26. T’avvisa. Avverti. Sta avvertito. Ti regola. Stringi. Riduci in poche parole. // 27. Anzi. Prima. N’aggiunga. Ci sopraggiunga. Ci arrivi. // 25-30. Ed io soggiunsi: deh dimmi, poichè tu il sai per prova, se al fine di quest’altra sirena che si chiama vita, il morire è così gran pena come si crede. Chiama la vita altra serena, cioè quarta sirena, da aggiungersi alle tre della favola. // 31. Mentre. Finchè. // 32. Dura. Pertinace. // 33. Puo’. Puoi. // 35. Noia. Pena, affanno. // 36. Ch’ànno. I quali hanno.

Ed ora il morir mio che sì t’annoia,
Ti farebbe allegrar, se tu sentissi
La millesima parte di mia gioia.

Così parlava; e gli occhi ave’ al ciel fissi
Divotamente: poi mise in silenzio
Quelle labbra rosate, insin ch’io dissi:

Silla, Mario, Neron, Gaio e Mesenzio,
Fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno
Parer la morte amara più ch’assenzio.

Negar, disse, non posso che l’affanno
Che va innanzi al morir, non doglia forte,
Ma più la tema de l’eterno danno:

Ma pur che l’alma in Dio si riconforte,
E ’l cor, che ’n sè medesmo forse è lasso,
Che altro ch’un sospir breve è la morte?

I’ avea già vicin l’ultimo passo,
La carne inferma, e l’anima ancor pronta;
Quand’udi’ dir in un suon tristo e basso:

O misero colui ch’e’ giorni conta,
E pargli l’un mill’anni, e ’ndarno vive,
E seco in terra mai non si raffronta;

E cerca ’l mar e tutte le sue rive,
E sempre un stile ovunqu’e’ fosse tenne;
Sol di lei pensa, o di lei parla, o scrive!

 

Verso 37. T’annoia. Ti pesa. Ti duole. Ti addolora. // -10. Ave’ al ciel fissi. Avea, tenea, fissi nel cielo. // 43. Vuol dire: i tormenti che i tiranni fanno patire. Gaio. Caio Caligola. // 44. Fianchi, stomachi. Mali di fianco o di stomaco. // 47. Doglia. Dolga. Forte. Avverbio. // 49. Pur che. Purchè. Riconforte. Riconforti. Rinvigorisca. // 50. Che ’n sè medesmo. Che per sè medesimo. Che quanto a sè. Lasso. Debole. // 51. Che altro che. Che altro se non. – *Spiritus promptus est, caro autem infirma.» * // 54. Udi’. Udii. // 55. Colui. Intendasi il Poeta. E’ giorni conta. Conta i giorni, cioè quelli, passati i quali esso si crede di avere a riveder la sua Laura. // 56. E pargli l’un mill’anni. E ogni giorno gli par mill’anni. // 57. Vuol dire: e mai non entra, non si riduce, in terra, cioè in sua vita, a pensar di proposito a sè medesimo e a’ casi suoi. // 58. Cioè va errando per cento parti. // 59. Un stile. Una stessa usanza. Uno stesso andamento. Cioè quello che è significato nel verso appresso. // 60. Di lei. Cioè di Laura.

Allora in quella parte onde ’l suon venne,
Gli occhi languidi volgo; e veggio quella
Ch’ambo noi, me sospinse e te ritenne.

Riconobbila al volto e a la favella;
Che spesso à già il mio cor racconsolato,
Or grave e saggia, allor onesta e bella.

E quand’io fui nel mio più bello stato,
Ne l’età mia più verde, a te più cara,
Ch’a dir ed a pensar a molti à dato;

Mi fu la vita poco men che amara,
A rispetto di quella mansueta
E dolce morte ch’a’ mortali è rara:

Chè ’n tutto quel mio passo er’io più lieta
Che qual d’esilio al dolce albergo riede;
Se non che mi stringea sol di te pieta.

Deh, Madonna, diss’io, per quella fede
Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
Or più nel volto di chi tutto vede,

Creovvi Amor pensier mai ne la testa
D’aver pietà del mio lungo martire,
Non lasciando vostr’alta impresa onesta?

Ch’e’ vostri dolci sdegni e le dolci ire,
Le dolci paci ne’ begli occhi scritte,
Tenner molt’anni in dubbio il mio desire.

 

Verso 62. Quella. Alcuni intendono la Morte, altri la nutrice, ovvero un’amica di Laura. – Ma se intendiamo la nutrice o vero un’amica, quale ufficio fu il suo di sospinger Laura? Se intendiamo la morte, come potè racconsolare spesso il cuore di Laura; e come spiegare quel verso: or grave e saggia, allor onesta e bella? [A.] // 71. A rispetto. A paragone. A comparazione. // 73. Quel mio passo. Cioè il passo della morte. // 74. Qual. Qualunque. Chiunque. Chi. // 75. Pieta. Pietà. Compassione. // 76. Fede. Fedeltà mia. // 77. Al tempo. A suo tempo. In vostra vita. // 78. Or più. Ed ora vi è maggiormente manifesta. Di chi tutto vede. Di Dio. // 81. Senza partirvi però dal proposito di serbar la vostra onestà. // 82. E’. I.

A pena ebb’io queste parole ditte,
Ch’i vidi lampeggiar quel dolce riso
Ch’un Sol fu già di mie virtuti afflitte.

Poi disse sospirando: mai diviso
Da te non fu ’l mio cor, nè già mai fia:
Ma temprai la tua fiamma col mio viso.

Perchè, a salvar te e me, null’altra via
Era a la nostra giovenetta fama:
Nè per ferza è però madre men pia.

Quante volte diss’io meco: questi ama,
Anzi arde: or si convien ch’a ciò provveggia:
E mal può provveder chi teme o brama.

Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia.
Questo fu quel che ti rivolse e strinse
Spesso, come caval fren che vaneggia.

Più di mille fïate ira dipinse
Il volto mio, ch’Amor ardeva il core;
Ma voglia, in me, ragion già mai non vinse.

 

Verso 85. Ditte. Dette. // 87. Virtuti. Facoltà. Potenze. Afflitte. Abbattute – Perciò il riso di Laura che le rialzava ha un proprio e poetico riscontro col sole che rinvigorisce e rischiara le erbe, i fiori, ec. [A.] // 90. Col mio viso. Colla varia attitudine del mio viso, or severo or benigno. // 91. Null’altra. Nessun’altra. // 93. Nè per ferza ec. Nè una madre è però meno amante e meno pietosa, perchè ella usi coi figliuoli la sferza. // 95. Provveggia. Io provvegga. // 97. Vuol dire: vegga costui, cioè il Poeta, l’attitudine del mio volto, e non vegga il cuore. // 99. Caval. Accusativo. Fren. Nominativo. Che. Relativo di caval. // 101. Che. Si riferisce a mille fiate. Il cor. Il mio cuore. // 102. Dante: «Che la ragion sommettono al talento.»*

Poi se vinto te vidi dal dolore,
Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente,
Salvando la tua vita e ’l nostro onore.

E se fu passïon troppo possente,
E la fronte e la voce a salutarti
Mossi or timorosa ed or dolente.

Questi fur teco mie’ ingegni e mie arti;
Or benigne accoglienze ed ora sdegni:
Tu ’l sai, che n’ài cantato in molte parti.

Ch’i’ vidi gli occhi tuoi talor sì pregni
Di lagrime, ch’io dissi: questi è corso
A morte, non l’aitando; i’ veggio i segni.

Allor provvidi d’onesto soccorso.
Talor ti vidi tali sproni al fianco,
Ch’i’ dissi: qui convien più duro morso.

Così caldo e vermiglio, freddo e bianco,
Or tristo or lieto infn qui t’ò condutto
Salvo (ond’io mi rallegro), benchè stanco.

 

Verso 106. Passion. La passione. // 113-114. Questi è corso A morte, non l’aitando. Questi se ne muore se io non l’aiuto. Veggio. Ne veggio. // 115. D’onesto soccorso. Di darti onestamente soccorso. // 116. Ti vidi tali sproni al fianco. Cioè: vidi i tuoi desiderii essere in tal gagliardia. // 119. Condutto. Condotto. // 120. Onde. Di che. Della qual cosa.

Ed io: Madonna, assai fora gran frutto
Questo d’ogni mia fè, pur ch’io ’l credessi;
Dissi tremando e non col viso asciutto.

Di poca fede! or io, se nol sapessi,
Se non fosse ben ver, perchè ’l direi?
Rispose, e ’n vista parve s’accendessi.

S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,
Questo mi taccio; pur quel dolce nodo
Mi piacque assai ch’intorno al core avei;

E piacemi ’l bel nome (se ’l ver odo)
Che lunge e presso col tuo dir m’acquisti:
Nè mai ’n tuo amor richiesi altro che modo,

Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
Volei mostrarmi quel ch’io vedea sempre,
Il tuo cor chiuso a tutto ’l mondo apristi.

Quinci ’l mio gelo, ond’ancor ti distempre:
Che concordia era tal de l’altre cose,
Qual giunge Amor, pur ch’onestate il tempre.

 

Verso 121. Assai fora gran frutto. Frutto abbastanza grande sarebbe. // 122. Questo, cioè l’ essere stato degno che voi mi amaste nel segreto del vostro animo.* – Pur ch’io. Purchè io. // 124. Di poca fede! Uomo di poca fede. // 126. In vista. Cioè in viso. S’accendessi. Che si accendesse. // 129. Che. Relativo di nodo. Avei. Avevi. // 130. Il bel nome. La bella fama. // 132. Modo. Moderazione. Misura. // 133. Tristi. Dolorosi. // 134. Volei. Volevi. Quel ch’io vedea sempre. Cioè l’amore che mi portavi. // 135. Desti a vedere a tutto il mondo quel che tu avevi nel cuore. // 136. Di qui, da ciò, nacque quel mostrarmiti così fredda; cosa di cui tu ti struggi anco al presente. Distempre. Distemperi. // 137-138. Perocchè nelle altre cose era tra noi due tal concordia, tal conformità, quale è quella che suole esser giunta, congiunta, prodotta, da amore temperato da onestà. – *De l’altre cose: dell’amare ed aver desiderio di essere riamato, come dice poco appresso.* Pur che. Purchè. Tempre. Temperi.

Fur quasi eguali in noi fiamme amorose;
Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;
Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.

Tu eri di mercè chiamar già roco,
Quand’io tacea, perchè vergogna e tema
Facean molto desir parer sì poco.

Non è minor il duol perch’altri ’l prema,
Nè maggior per andarsi lamentando:
Per fizïon non cresce il ver nè scema.

Ma non si ruppe almeno ogni vel quando
Sola i tuoi detti, te presente, accolsi,
«Dir più non osa il nostro amor» cantando?

Teco era ’l cor; a me gli occhi raccolsi:
Di ciò, come d’iniqua parte, duolti,
Se ’l meglio e ’l più ti diedi, e ’l men ti tolsi.

Nè pensi che, perchè ti fosser tolti
Ben mille volte, e più di mille e mille
Renduti e con pietate a te fur vòlti.

Verso 141. L’appalesò. Le appalesò. L’ascose. Le ascose. // 142. Di mercè chiamar. Di chieder pietà. // 143. Quand’io. Ed io al contrario. // 144. Suppliscasi in me. // 145. Perch’altri ’l prema. Perchè uno lo tenga celato, come faceva io. // 146. Per andarsi lamentando. Se uno si va lamentando. // 147. Per fizïon. Per finzione. Perchè altri finga di sentir più o meno, il suo vero sentimento non cresce nè scema. E la finzione era in Laura che per vergogna della gente e per tema d’inanimire il Petrarca a troppo grandi speranze, o fors’anche di ridurre sè stessa a qualche mal passo, mostravasi meno amante di quel che fosse realmente. [A.] // 149. Ricevetti le tue parole d’amore sola, essendo tu presente, cioè non come io soleva ricevere i tuoi versi, in iscritto e per altre persone, ma dalla tua propria bocca. // 150. Dir più non osa il nostro amor. Pare che fossero parole di qualche canzonetta amorosa, che a quei tempi sarà stata cognita, ovvero di qualche componimento dello stesso Poeta. Cantando. Alcuni intendono: cantando tu. E questo credo che sia il meglio. Pure può anche intendersi ragionevolmente che alle parole d’amore del Poeta, Laura, per tôrre sè d’impaccio e non tôrre lui di speranza, rispondesse cantando. Che Laura non fosse insolita di cantare vedesi dalla prima terzina del Sonetto settantesimo sesto della prima Parte, e dalla terza stanza della seconda Canzone della Parte seconda. – *Cod. Bolog.: Di più non osa, ec.* // 152. Come d’iniqua parte. Come di parte ingiusta. Cioè come se, avendo io dato a te il cuore e raccolti a me gli occhi, avessi fatto le parti in maniera ingiusta. – Iniqua, sta qui alla latina per disuguale (l’ingiustizia non è se non disuguaglianza. [A.] // 153. Il meglio e ’l più. Cioè il mio cuore. Il men. Cioè gli occhi. // 154. Che perchè ti fosser tolti. Che se anche ti furon tolti. Cioè gli occhi miei. // 155-156. E più di mille e mille Renduti. Essi occhi ti furono altresì renduti più di mille e mille volte.

 

E state foran lor luci tranquille
Sempre vêr te, se non ch’ebbi temenza
De le pericolose tue faville.

Più ti vo’ dir, per non lasciarti senza
Una conclusïon ch’a te fia grata
Forse d’udir in su questa partenza:

In tutte l’altre cose assai beata,
In una sola a me stessa dispiacqui,
Che in troppo umil terren mi trovai nata.

Duolmi ancor veramente ch’io non nacqui
Almen più presso al tuo fiorito nido:
Ma assai fu bel paese ond’io ti piacqui.

Chè potea ’l cor, del qual sol io mi fido,
Volgersi altrove, a te essendo ignota;
Ond’io fora men chiara e di men grido.

Questo no, rispos’io, perchè la rota
Terza del ciel m’alzava a tanto amore,
Ovunque fosse, stabile ed immota.

 

Verso 157. Foran. Sarebbero. // 155. Vêr. Verso. Se non che. Se non fosse stato che. // 159. Che il tuo pericoloso ardore non ci conducesse a qualche mal passo. // 163. Assai. Abbastanza. // 165. Che ebbi troppo oscura patria. // 167. Al tuo fiorito nido. Alla bella Firenze tua patria. Dice fiorito, per allusione alla voce Fiorenza. // 168. Ma abbastanza bello fu quel paese dal quale, nel quale, io ti piacqui. // 169. Chè. Perocchè, per essere io nata così lungi dalla tua patria. Si riferisce a’ due primi versi della terzina di sopra. Il cor. Cioè il tuo cuore. Del qual sol io mi fido. Nel qual solo è riposta ogni mia confidenza. // 170. Altrove. Cioè ad altro amore. Essendo. Essendo io. // 171. Fora. Sarei. Chiara. Famosa. Grido. Celebrità. Rinomanza. // 172-173. La rota Terza del ciel. La terza sfera del Cielo. Cioè quella di Venere. // 174. Ovunque fosse. Ove che ciò si fosse. – *Cod. Bol.: ovunque io fossi.*

 

Or che si sia, diss’ella, i’ n’ebbi onore,
Ch’ancor mi segue: ma per tuo diletto
Tu non t’accorgi del fuggir de l’ore.

Vedi l’Aurora de l’aurato letto
Rimenar a’ mortali il giorno; e il Sole
Già fuor de l’Oceàno infino al petto.

Questa vien per partirci; onde mi dole:
S’a dir ài altro, studia d’esser breve,
E col tempo dispensa le parole.

Quant’io soffersi mai, soave e leve,
Dissi, m’à fatto il parlar dolce e pio;
Ma ’l viver senza voi m’è duro e greve.

Però saper vorrei, Madonna, s’io
Son per tardi seguirvi, o se per tempo.
Ella, già mossa, disse: al creder mio,

Tu stara’ in terra senza me gran tempo.

 

Verso 175. Che si sia. Che che sia. Sia quel che si voglia. // 176. Per tuo diletto. A causa del piacer che tu provi. // 178. De l’aurato letto. Dal suo talamo d’oro. // 181, Questa. Cioè l’Aurora. Partirci. Dividerci. Separarci. Onde. Della qual cosa. // 182. Studia. Procura. Ingegnati. // 183. Cioè: proporziona la quantità delle tue parole a quella dal tempo. // 184. Leve. Lieve. // 185. Il parlar. Il tuo parlare. Pio. Pietoso. // 188. Sono per seguitarvi, cioè morrò, tardi o presto. // 189. Già mossa. Già mossa per partirsi. Al creder mio. Per quel che io credo.

TRIONFO DELLA FAMA.

Quando, mirando intorno su per l’erba,
Vidi dall’altra parte giunger quella
Che trae l’uom del sepolcro, o ’n vita il serba.»

Trionfo della Fama, Cap. I.

CAPITOLO I.

Continuando il suo sogno, del quale parlò nel primo capitolo del Trionfo d’Amore, notifica come, dopo la partita della Morte, sopraggiunse la Fama trionfante; e descrivendo le persone famigerate che la seguitavano, ne fa tre schiere: una de’ Romani o per armi o per altra opera chiari, eccettochè per lettere; una de’ forestieri medesimamente celebri per altra via, che per lettere; e una de’ Romani e de’ forestieri illustri per lettere. In questo capitolo, che va congiunto col primo del Trionfo della Morte, pone la prima schiera.

 

Da poi che Morte triunfò nel volto
Che di me stesso trionfar solea,
E fu del nostro mondo il suo Sol tolto;

Partissi quella dispietata e rea,
Pallida in vista, orribile, e superba
Che ’l lume di beltate spento avea:

Quando, mirando intorno su per l’erba,
Vidi da l’altra parte giunger quella
Che trae l’uom del sepolcro, e ’n vita il serba.

Quale in sul giorno l’amorosa stella
Suol venir d’orïente innanzi al Sole,
Che s’accompagna volentier con ella;

Cotal venia. Ed or di quali scole
Verra ’l maestro che descriva appieno
Quel ch’i’ vò dir in semplici parole?

Era d’intorno il ciel tanto sereno,
Che, per tutto ’l desio ch’ardea nel core,
L’occhio mio non potea non venir meno.

 

Verso l. Da poi che. Poichè. Posciachè. // 3. Del nostro mondo. Da questa terra. Suo. Cioè d’esso mondo. // 4. Quella dispietata e rea. Cioè la Morte. // 8. Quella. Cioè la Fama. // 9. Del. Dal. // 10. In sul giorno. In sul far del giorno. L’amorosa stella. Il pianeta di Venere. La diana. // 13. Di. Da. Scole. Scuole di arte rettorica o poetica. // 14. Maestro. Dicitore eccellente. // 17. Per tutto ’l desio. Con tutto, non ostante, il gran desiderio di rimirare. Nel core. Nel mio cuore. // 18. Non venir meno. Non esser abbagliato dalla gran luce.

 

Scolpito per le fronti era il valore
De l’onorata gente; dov’io scorsi
Molti di quei che legar vidi Amore.

Da man destra, ove prima gli occhi porsi,
La bella donna avea Cesare e Scipio;
Ma qual più presso, a gran pena m’accorsi.

L’un di virtute e non d’amor mancipio,
L’altro d’entrambi: e poi mi fu mostrata,
Dopo sì glorïoso e bel principio,

Gente di ferro e di valore armata,
Sì come in Campidoglio al tempo antico
Talora per Via Sacra o per Via Lata.

Venian tutti in quell’ordine ch’i’ dico,
E leggeasi a ciascuno intorno al ciglio
Il nome al mondo più di gloria amico.

Verso 19. Per le. Cioè nelle. // 20. De l’onorata gente. Che veniva in compagnia della Fama. Dove. Tra la quale. // 21. Che legar vidi Amore. Ch’io vidi esser legati da Amore. // 22. Ove. Alla qual parte. Porsi. Volsi. // 23. La bella donna. La Fama. // 24. Qual. Qual di questi due. Accusativo. Più presso. Suppliscasi ella avesse. // 25. L’un. Cioè Scipione. Mancipio. Schiavo. // 26. L’altro. Cesare. // 29. Sì come. Suppliscasi si vedeva o veniva, o altra cosa tale. // 30. Per Via Sacra o per Via Lata. Strade trionfali di Roma. // 31. Ch’i’ dico. Che io sto dicendo. Che io sono per dire. // 32. Intorno al ciglio. Presso al ciglio. Cioè nella fronte, come ha detto di sopra. // 33. Più. Massimamente. Sopra gli altri. Di gloria amico. Dipende da nome.

 

I’ era intento al nobile bisbiglio,
Al volto, a gli atti: e di que’ primi due
L’un seguiva il nipote e l’altro il figlio,

Che sol, senz’alcun par, al mondo fue;
E quei che volser a’ nemici armati
Chiuder il passo con le membra sue,

Duo padri, da tre figli accompagnati;
L’un giva innanzi, e duo ne venian dopo;
E l’ultim’era ’l primo tra’ laudati.

Poi fiammeggiava a guisa di un piropo
Colui che col consiglio e con la mano
A tutta Italia giunse al maggior uopo:

Di Claudio dico, che notturno e piano,
Come ’l Metauro vide, a purgar venne
Di ria semenza il buon campo romano.

Egli ebbe occhi al veder, al volar penne:
Ed un gran vecchio il secondava appresso,
Che con arte Anniballe a bada tenne.

 

Verso 34. – Cod. Bolog.: pispiglio, Ai volti.* // 35. Di que’ primi due. Scipione e Cesare. // 36. L’un. Scipione. Accusativo. Il nipote. Scipione Affricano minore. L’altro. Cesare. Accusativo. Il figlio. Ottaviano Augusto. // 37. Par. Pari. Fue. Fu. – Ma perchè dice che Ottaviano Augusto fu solo senza alcun pari? Certamente vi ebbero guerrieri e legislatori più grandi di lui. Intendo perciò che alluda all’aver regnato solo e senza pari nella potenza su tutto l’impero, che si credette impero di tutto il mondo. [A.] // 38. Quei. Publio e Gneo Scipioni, quegli padre di Scipione Affricano maggiore e di Scipione Asiatico, questi di Scipione Nasica. Volser. Vollero. // 40. Duo padri. I suddetti Publio e Gneo. Da tre figli. Dall’Affricano maggiore, dall’Asiatico e da Nasica. // 41. L’un. L’Affricano maggiore. Duo. L’Asiatico e Nasica. // 42. L’ultimo. Nasica. Il primo tra’ laudati. Il più lodato, per la bontà dei costumi. // 44. Dante, Inf. XVI, 38: «Ed in sua vita Fece col senno assai e con la spada.»* // 45. Uopo, bisogno. // 46. Claudio. Claudio Nerone. Notturno e piano. Cioè, di notte tempo e quetamente. // 47. Come ’l Metauro vide. Veduto che ebbe il Metauro, giunto al Metauro. // 48. Di ria semenza. Cioè de’ Cartaginesi. Il buon campo romano. Il paese romano. L’Italia. – Allude alla vittoria del console Claudio Nerone sopra Asdrubale già venuto in Italia per unirsi col fratello Annibale. Quell’unione poteva essere la rovina di Roma: perciò Claudio giunse al maggior uopo. [A.] // 50. Un gran vecchio. Fabio Massimo dittatore. Il secondava appresso. Cioè: veniva subito dopo lui.

 

Un altro Fabio, e duo Caton con esso;
Duo Paoli, duo Bruti e duo Marcelli;
Un Regol ch’amò Roma e non sè stesso;

Un Curio ed un Fabrizio, assai più belli
Con la lor povertà, che Mida o Crasso
Con l’oro, ond’a virtù furori ribelli;

Cincinnato e Serran, che solo un passo
Senza costor non vanno; e ’l gran Cammillo
Di viver prima, che di ben far, lasso;

Perch’a sì alto grado il Ciel sortillo,
Che sua chiara virtute il ricondusse
Ond’altrui cieca rabbia dipartillo.

Poi quel Torquato che ’l figliuol percusse,
E viver orbo per amor sofferse
De la milizia, perch’orba non fosse.

L’un Decio e l’altro, che col petto aperse
Le schiere de’ nemici: o fiero voto,
Che ’l padre e ’l figlio ad una morte offerse!

Curzio con lor venia, non men devoto,
Che di sè e de l’arme empiè lo speco
In mezzo ’l foro orribilmente vôto.

 

Verso 52. Un altro Fabio. Fabio Rutiliano. // 53. Duo Paoli. I due Paoli Emilj, padre e figlio. Duo Marcelli. Padre e figlio. // 57. Onde. Per cui. // 58-59. Che solo un passo Senza costor non vanno. Che non si discostano un punto da Fabrizio e da Curio. Vuol dire: che nei loro costumi e fatti furono somigliantissimi a questi due. // 60. Di ben far. Di far bene, cioè alla sua patria. // 63. Onde. Colà onde. Vuol dire: dall’esilio in patria. – Questi giudizi sulle fazioni romane, al tempo del Petrarca, erano assai difettivi. [A.] // 64. Percusse. Percosse. Vuol dire: condannò a morte. // 65-66. E sofferse di viver orbo, cioè privo del figlio per amore della milizia, acciocche ella non fosse orba, cioè a dire priva della buona disciplina. // 67-68. Col petto aperse Le schiere de’nemici. Si scagliò in mezzo ai nemici per essere ucciso. // 69. Ad una morte offerse. Recò ad una medesima qualità di morte. – Ma offerse è più vivo e più proprio di recò. [A.] // 70. Non men devoto. Medesimamente, cioè come i Deci, devoto, cioè sacro per voto, agli Dei d’inferno, in pro della patria.

 

Mummio, Levino, Attilio; ed era seco
Tito Flaminio, che con forza vinse,
Ma assai più con pietate, il popol greco.

Eravi quel che ’l re di Siria cinse
D’un magnanimo cerchio, e con la fronte
E con la lingua a suo voler lo strinse:

E quel ch’armato, sol, difese il monte,
Onde poi fu sospinto; e quel che solo
Contra tutta Toscana tenne il ponte;

E quel ch’in mezzo del nemico stuolo
Mosse la mano indarno, e poscia l’arse,
Sì seco irato che non sentì ’l duolo;

E chi ’n star prima vincitor apparse
Contr’a’ Cartaginesi; e chi lor navi
Fra Sicilia e Sardigna ruppe e sparse.

 

Verso 73. Attilio. Attilio Calatino. // 76. Quel. Gneo Pompilio. Il re di Siria. Antioco. // 78. A suo voler. A fare il suo volere. Strinse. Costrinse. // 79. Quel. Manlio Capitolino. Il monte. Del Campidoglio. // 80. Onde poi fu sospinto. Dal quale poi fu precipitato. Quel. Orazio Coclite. // 81. Tenne. Difese. // 82. Quel. Muzio Scevola. // 83. Mosse la mano indarno. Cioè: volendo uccider Porsenna, sbagliò il colpo. // 84. Che. Dipende da . // 85. E colui che riportò la prima vittoria navale. Vuol dir Caio Duillio. // 86. Chi. Colui che. Cioè Lutazio Catulo.

 

Appio conobbi agli occhi, e a’ suoi, che gravi
Furon sempre e molesti a l’umil plebe:
Poi vidi un grande con atti soavi;

E se non che ’l suo lume a l’estremo ebe,
Fors’era il primo; e certo fu fra noi
Qual Bacco, Alcide, Epaminonda a Tebe:

Ma ’l peggio è viver troppo: e vidi poi
Quel che de l’esser suo destro e leggero
Ebbe ’l nome, e fu ’l fior degli anni suoi;

E quanto in arme fu crudo e severo,
Tanto quel che ’l seguiva era benigno,
Non so se miglior duce o cavaliero.

Poi venia quel che ’l livido maligno
Tumor di sangue, bene oprando, oppresse;
Volumnio nobil, d’alta laude digno.

 

Verso 88. Appio. Appio Claudio cieco. Agli occhi e a’ suoi. Cioè: dalla sua cecità e dalla compagnia di quelli della sua famiglia. // 90. Un grande. Pompeo magno. // 91. Se non che. Se non fosse che. A l’estremo. In sull’ultimo. Ebe. Langue. // 92. Fra noi. Fra gl’Italiani. // 95. Quel. Papirio Cursore. De l’esser suo destro e leggero. Dalla sua destrezza ed agilità. // 96. Ebbe ’l nome. Di Cursore. Degli anni suoi. Cioè degli uomini del suo tempo. // 98. Quel che ’l seguiva. Intendono chi Valerio Corvino chi altri. // 100. Che. Accusativo. // 101. Tumor di sangue. Vuol dire Appio Claudio, gonfio della nobiltà della sua stirpe. Bene oprando. Bene operando. Riferiscasi a Volunnio. // 102. Digno. Degno.

 

Cosso, Filon, Rutilio; e da le spesse
Luci in disparte tre Soli ir vedeva,
E membra rotte, e smagliate arme e fesse;

Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva;
Quei tre folgori, e tre scogli di guerra:
Ma l’un rio successor di fama leva.

Mario poi, che Giugurta e i Cimbri atterra,
E ’l tedesco furor; e Fulvio Flacco,
Ch’a gli ingrati troncar, a bel studio erra;

E ’l più nobile Fulvio: e sol un Gracco
Di quel gran nido garrulo e inquieto,
Che fe ’l popol roman più volte stracco;

E quel che parve altrui beato e lieto,
Non dico fu, chè non chiaro si vede
Un chiuso cor in suo alto secreto:

Metello dico; e suo padre, e sue rede;
Che già di Macedonia e de’ Numidi
E di Creta e di Spagna addusser prede.

 

Verso 103-104. Dalle spesse Luci in disparte. Cioè: in disparte da quella moltitudine di valorosi ed illustri. Vedeva. Io vedeva. // 103. Ma l’uno di essi, cioè Marco Sergio, è levato, cioè privato, di fama, da un malvagio discendente, cioè da Sergio Catilina. // 111. Che erra a bella posta per troncar la vita agl’ingrati. Fulvio Fiacco avute lettere del senato romano, immaginando che esse, come era vero, facessero grazia della vita a quelli di Capua, indugiò di leggerlo insin dopo che ebbe fatto troncar la testa ai colpevoli. // 112. Il più nobile Fulvio. Fulvio Nobiliore. E sol un Gracco. Pone tra i famosi un solo della casa dei Gracchi, cioè il padre di Tiberio e di Caio. // 113. Di quel gran nido. Cioè di quella insigne famiglia. // 114. Fe. Fece. – *Lez. del Cod. Bol.: Un cauto cor profondo in suo secreto.* // 118. Metello. Quinto Metello Felice. Rede. Eredi, discendenti, Metello Numidico, Metello Cretico, Metello Balearico.*

 

Poscia Vespasïan col figlio vidi,
Il buono e ’l bello, non già ’l bello e ’l rio;
E ’l buon Nerva e Traian, principi fidi:

Elio Adriano e ’l suo Antonin Pio;
Bella successïone infino a Marco;
Ch’ebber almeno il natural desio.

Mentre che, vago, oltra con gli occhi varco,
Vidi ’l gran fondator, e i regi cinque;
L’altro era in terra di mal peso carco,

Come adiviene a chi virtù relinque.

 

Verso 122. Dico col figlio Tito, e non già con Domiziano. // 125. Bella successione di principi; Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. // 126. Il natural desio. La rettitudine e la virtù naturale e morale, se non ebbero la teologica. // 127. Vago. Cupido. Oltra con gli occhi varco. Varco, cioè, passo oltre cogli occhi. // 128. Vidi Romolo e i cinque re che vennero dopo lui. // 129. L’altro. Il settimo ed ultimo re, cioè Tarquinio Superbo. Di mal peso carco. Cioè carico di catene, o cosa tale. – Intenderei carico d’infamia, perchè veramente così lasciò il suo nome nell’obbrobrio. Veggasi intorno a ciò Montesquieu, Considérations sur les causes ecc. [A.] – *Questi ultimi tre versi nel Cod. Bol. variano in tal modo: Vidi i gran fondatori e’ regi antichi; L’altro era in terra di mal peso carco, Come addiviene a cui virtù nemichi.* // 130. Adiviene. Avviene. Relinque. Abbandona.

 

 

CAPITOLO II.

In questo prima significa come trapassasse dalla vista de’ Romani, già mentovati, a’ forestieri; poi nomina i forestieri, molti con piena lode, e molti con iscemamento di essa.

 

Pien d’infinita e nobil maraviglia
Presi a mirar il buon popol di Marte,
Ch’al mondo non fu mai simil famiglia.

Giugnea la vista con l’antiche carte,
Ove son gli alti nomi e i sommi pregi,
E sentia nel mio dir mancar gran parte.

Ma disviârmi i peregrini egregi:
Annibal primo, e quel cantato in versi
Achille, che di fama ebbe gran fregi:

I duo chiari Troiani e i duo gran Persi;
Filippo e ’l figlio, che da Pella agl’Indi
Correndo vinse paesi diversi.

Vidi l’altro Alessandro non lunge indi,
Non già correr così, ch’ebbe altro intoppo.
Quanto del vero onor, Fortuna, scindi!

I tre Teban ch’io dissi, in un bel groppo;
Ne l’altro, Aiace, Diomede e Ulisse,
Che desiò del mondo veder troppo:

Nestor, che tanto seppe e tanto visse;
Agamennon e Menelao, che ’n spose
Poco felici, al mondo fer gran risse.

 

Verso 2. Il buon popolo di Marte. Cioè il popolo romano. // 4-6. Io congiungeva, cioè a dir confrontava, le cose che io vedeva con gli antichi libri, dove sono descritti i nomi, le virtù e le opere di quella gente; e mi accorgeva che in sì fatto discorso della mia memoria mancava gran parte del vero, cioè che le cose scritte nei libri erano di gran lunga inferiori alle vere. // 7. Disviârmi. Mi disviarono, mi distolsero, da questi pensieri. I peregrini. Gli stranieri. // 10. I duo chiari Troiani. Ettore ed Enea. I duo gran Persi. Intende di Ciro e di Cambise. // 11. Il figlio. Alessandro magno. Pella. Metropoli della Macedonia. // 13. L’altro Alessandro. L’epirota. Indi. Di là. // 14. Ebbe altro intoppo. Ebbe a fare con ben altra gente di quella che fu soggiogata da Alessandro magno. // 15. Vuol dire, che questo Alessandro si avrebbe acquistato gloria pari al macedone, se non fosse stata la diversità della fortuna. Scindi. Tagli. Levi. // 16. I tre Teban. Bacco, Ercole, Epaminonda. Suppliscasi vidi. Ch’io dissi. Nel novantesimoterzo verso del Capitolo precedente. // 17. Ne l’altro. In un altro groppo. // 20-21. In spose Poco felici. Poco felici nelle mogli. Fer. Fecero. Risse. Cioè guerre. – *Cod. Bolog.: Ch’a spose Poco felici, ed al mondo fur risse.*

 

Leonida, ch’a’ suoi lieto propose
Un duro prandio, una terribil cena,
E ’n poca piazza fe mirabil cose.

Alcibiade, che sì spesso Atena
Come fu suo piacer volse e rivolse
Con dolce lingua e con fronte serena.

Milziade, che ’l gran giogo a Grecia tolse;
E ’l buon figliuol, che con pietà perfetta
Legò sè vivo, e ’l padre morto sciolse:

Temistocle e Teseo con questa setta;
Aristide, che fu un greco Fabrizio:
A tutti fu crudelmente interdetta

La patria sepoltura; e l’altrui vizio
Illustra lor; che nulla meglio scopre
Contrari duo con picciol interstizio.

Focïon va con questi tre di sopre,
Che di sua terra fu scacciato e morto;
Molto diverso il guiderdon dall’opre!

 

Verso 22. – A’ suoi. A’ suoi trecento soldati. // 23. Disse alla sua gente: pranzate, compagni, che avete a cenar questa sera tra i morti. – *Prandete, inquit, commilitones, tamquam apud inferos cœnaturi.* Prandio. Pranzo. // 24. In poca piazza. In piccolo spazio. In luogo angusto. Cioè nello stretto delle Termopile. // 25. Atena. Atene. // 26. Come fu suo piacer. A suo piacere. Come a lui piacque. // 28. Milziade, che salvò la Grecia dalla servitù de’ Persiani. // 29. E ’l buon figliol. Cimone. // 30. Perchè il corpo del padre, morto in prigione, non fosse privato di sepoltura, consentì di star prigione esso. // 31. Con questa setta. Con questa schiera. Cioè con Alcibiade e Milziade detti di sopra, e con Aristide e Focione che si diranno appresso, tutti Ateniesi trattati dai lor cittadini sconoscentemente. // 34. L’altrui vizio. La perversità dei loro cittadini. // 35-36. Nulla meglio scopre Contrari duo con picciol interstizio. Qui l’errore della lezione nuoce al senso in modo, che contro l’usato da me in questo Comento, e contro il detto nella Prefazione, non posso astenermi di emendarlo. Questo passo, letto così, non ha senso; ma diverrà chiarissimo purchè in vece di con si legga ch’un. Il Poeta scrisse congiuntamente, secondo l’uso de’ tempi suoi, chun; o forse, con ortografia rozza, chon; o forse anche con, per c’on, cioè c’un. I copisti più moderni, e gli editori, non seppero distinguere le due parole. Vuol dire dunque: nulla fa meglio apparire due cose contrarie, che il trovarsi esse a poco intervallo l’una dall’altra. – *La congettura del Leopardi è confortata da alcune buone edizioni, come da quelle del Giolito, del Bandini, e da altre.* // 37. Con questi tre. Aristide, Teseo e Temistocle. Di sopre. Detti di sopra. // 38. Terra. Città. Morto. Ucciso.

 

Com’io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto,
E ’l buon re Massinissa; e gli era avviso,
D’esser senza i Roman, ricever torto.

Con lui, mirando quinci e quindi fiso,
Jeron siracusan conobbi, e ’l crudo
Amilcare da lor molto diviso.

Vidi, qual uscì già del foco, ignudo
Il re di Lida, manifesto esempio
Che poco val contra Fortuna scudo.

Vidi Siface pari a simil scempio;
Brenno, sotto cui cadde gente molta,
E poi cadd’ei sotto ’l famoso tempio.

In abito diversa, in popol folta
Fu quella schiera; e mentre gli occhi alti ergo,
Vidi una parte tutta in sè raccolta:

E quel che volse a Dio far grande albergo
Per abitar fra gli uomini, era ’l primo;
Ma chi fe l’opra, gli venia da tergo:

A lui fu destinato; onde da imo
Perdusse al sommo l’edificio santo;
Non tal dentro architetto, com’io stimo.

 

Verso 40. – Come. Quando. Tosto che. Ebbi scorto. Ebbi veduto. Vidi. // 41. E gli era avviso. E parevagli. E stimava. // 42. Che gli fosse fatto torto, non trovandosi, per non trovarsi, in quel trionfo in compagnia de’ Romani, da lui seguitati in sua vita con tanta fede e amicizia. // 43. Con lui. Presso a lui. In sua compagnia. Allato a lui. Dipende dalle parole del verso seguente, Jeron siracusan conobbi e significa che Jerone era in compagnia di Massinissa. Quinci e quindi. Di qua e di là. // 45. Ripetasi conobbi Da lor. Da Jerone e da Massinissa, l’uno e l’altro amici dei Romani. Diviso. Lontano. Dà ad intendere il grande odio portato da Amilcare ai Romani, al contrario di Jerone e di Massinissa. // 47. Il re di Lidia. Creso. – V. Erodoto lib. I. [A.] // 49. Vidi Siface similmente straziato dalla fortuna. Pari vuol dire pari a Creso, o rispetto alla condizione regia, o rispetto alla disavventura, nel qual caso la susseguente preposizione a varrebbe per; altrimenti ella si dee pigliare per in; e riferire a vidi. Pari si potrebbe anche intendere: a paro con Creso; allato a Creso; in un paio, in una coppia, con Creso. // 51. Sotto ’l famoso tempio. Appresso, davanti, al tempio di Delfo. // 52. In abito, diversa, significa che vi erano persone di varie nazioni. [A.] – In popol folta. Vuol dir molta di numero. // 53. I cod. Estensi e il Bolog. gli occhi alto ergo.* // 54. Una parte. Di quella schiera compagna della Fama. // 55-56. Intende di Davide. Volse vuol dir volle, ebbe intenzione. // 57. Chi. Colui che. Cioè Salomone. Fe l’opra. Fece veramente il tempio, recando ad effetto la intenzione del padre. Da tergo. Dietro. // 58. A lui fu destinato. Il far grande albergo a Dio. Da imo. Dalle fondamenta. // 59. Perdusse. Condusse. Sommo. Sostantivo. // 60. Se bene egli, a parer mio, non fu tale architetto, non fece così bello edifizio, dentro, cioè nel cuor suo. Accenna i trascorsi di Salomone.

 

Poi quel ch’a Dio familïar fu tanto
In grazia, e ’n parlar seco a faccia a faccia,
Che nessun altro se ne può dar vanto:

E quel che, come un animal s’allaccia,
Con la lingua possente legò il Sole,
Per giugner de’ nemici suoi la traccia.

O fidanza gentil! chi Dio ben cole,
Quanto Dio ha creato aver suggetto,
E ’l ciel tener con semplici parole!

Poi vidi ’l padre nostro, a cui fu detto
Ch’uscisse di sua terra, e gisse al loco
Ch’a l’umana salute era già eletto:

Seco ’l figlio e ’l nipote, a cui fu ’l gioco
Fatto de le due spose; e ’l saggio e casto
Giosef dal padre lontanarsi un poco.

Poi, stendendo la vista quant’io basto,
Rimirando ove l’occhio oltra non varca,
Vidi ’l giusto Ezechia e Sanson guasto.

 

Verso 61. – Quel. Mosè. // 62. A parlar. Da parlare. Che egli parlava. Fino a parlare. Dipende da tanto. // 63. Cosa di cui nessun altro si può vantare. // 64. Quel. Giosuè. // 66. Per avere agio di raggiungere i suoi nemici. // 67. O fidanza gentil! Oh potere della confidenza che si abbia in Dio! Cole. Onora. // 68. Suggetto. Soggetto. In sua soggezione. // 69. E ’l ciel tener. E fermare il cielo. // 70. Il padre nostro. Il padre dei credenti. Abramo. // 72. A l’umana salute. Al nascimento, al soggiorno e alla morte del Salvatore. // 73-74. Fu ’l gioco Fatto. Fu fatto, cioè da Labano, il giuoco. // 75. Lontanarsi. Vidi allontanarsi. // 76. Basto. Posso. // 77. Ove l’occhio oltra non varca. Fino al termine che l’occhio non oltrepassa, oltre a cui l’occhio non passa. // 78. Guasto. Corrotto, depravato, dalla passione dell’amore.

 

Di qua da lui chi fece la grande arca,
E quel che cominciò poi la gran torre,
Che fu sì di peccato e d’error carca.

Poi quel buon Giuda, a cui nessun può tôrre
Le sue leggi paterne, invitto e franco
Com’uom che per giustizia a morte corre.

Già era il mio desir presso che stanco,
Quando mi fece una leggiadra vista
Più vago di veder ch’io ne fossi anco.

Io vidi alquante donne ad una lista:
Antiope ed Orita armata e bella;
Ippolita, del figlio afflitta e trista,

E Menalippe; e ciascuna sì snella
Che vincerle fu gloria al grande Alcide,
Che l’una ebbe, e Teseo l’altra sorella:

La vedova, che sì secura vide
Morto ’l figliuol, e tal vendetta feo
Ch’uccise Ciro, ed or sua fama uccide.

 

Verso 79. Chi. Vidi colui che. Vuol dir Noè. // 80. Quel. Nembrotte. // 81. . Sì fattamente. Tanto. // 82-83. Giuda. Il Maccabeo. A cui nessun può tôrre Le sue leggi paterne. Che nessuno può costringere a lasciar l’osservanza delle sue leggi patrie. // 85. Il mio desir. Di vedere e conoscere. Presso che. Quasi. // 87. Più vago. Più cupido. Dipende da mi fece. Ch’io ne fossi anco. Ch’io ne fossi stato ancora, insino allora. Di quel ch’io era stato prima. Dipende da più. // 88. Alquante donne. Guerriere. Ad una lista. In una fila. In una schiera. // 90. Del figlio. Della sventura del figlio Ippolito. // 91. Sì snella. Sì destra in armi. // 93. Ercole ebbe Menalippe, e Teseo Ippolita. // 94. La vedova. Tomiri. Secura. Cioè imperturbata, senza perdersi d’animo. // 95. Feo. Fece. // 96. Sua. Di Ciro, sconfitto e morto da una femmina.

 

Però vedendo ancora il suo fin reo,
Par che di novo a sua gran colpa moia;
Tanto quel dì del suo nome perdeo.

Poi vidi quella che mal vide Troia;
E fra queste una vergine latina
Ch’in Italia a’ Troian fe tanta noia.

Poi vidi la magnanima reina,
Ch’una treccia ravvolta e l’altra sparsa,
Corse a la babilonica ruina.

Poi vidi Cleopatra: e ciascun’arsa
D’indegno foco; e vidi in quella tresca
Zenobia, del suo onor assai più scarsa.

Bella era, e ne l’età fiorita e fresca:
Quanto in più gioventute e ’n più bellezza,
Tanto par ch’onestà sua laude accresca.

Nel cor femmineo fu tanta fermezza,
Che col bel viso e con l’armata coma
Fece temer chi per Natura sprezza:

I’ parlo de l’imperio alto di Roma,
Che con armi assalìo; benchè a l’estremo
Fosse al nostro triunfo ricca soma.

 

Verso 97. – Però lo spirito di Ciro, anche oggi, vedendo il brutto fine che fece la sua vita al mondo. // 98. A. Con. Moia. Per la vergogna. // 99. Quel dì. In quel dì. Del suo nome. Della sua gloria. Dipende da tanto. Perdeo. Perdette. // 100. Quella. Pentesilea. Mal. Mal per sè. – Per essere stata uccisa da Achille sotto le mura di Troia. [A.] // 101. Una vergine latina. Cammilla. // 102. Fe. Fece. Noia. Cioè danno. // 103. La magnanima reina. Semiramide. // 104-105. Levatisi a rumore i Babilonesi in tempo che ella stava allo specchio acconciandosi il capo, corse coi capelli parte annodati e parte sciolti, e compose la sedizione. // 106. Ciascuna. L’una e l’altra. Cioè Semiramide e Cleopatra. // 107. Foco. Cioè amore. Tresca. Schiera di donne trionfanti. // 108. Scarsa. Avara. Gelosa. // 110. Quanto ella era più bella e più giovane. // 112. Nel cor femmineo. Di Zenobia. // 113. Coma. Chioma. // 116. Che. Accusativo. Assalìo. Assalì. A l’estremo. All’ultimo. Alla fine. // 117. Vuol dire: fosse vinta dai Romani e menata in trionfo.

 

Fra i nomi che ’n dir breve ascondo e premo
Non fia Giudit, la vedovetta ardita,
Che fe ’l folle amador del capo scemo.

Ma Nino, ond’ogn’istoria umana è ordita,
Dove lasc’io? e ’l suo gran successore,
Che superbia condusse a bestial vita?

Belo dove riman, fonte d’errore,
Non per sua colpa? dov’è Zoroastro,
Che fu de l’arte magica inventore?

E chi de’ nostri duci che ’n duro astro
Passâr l’Eufrate, fece ’l mal governo,
A l’italiche doglie fiero impiastro?

Ov’è ’l gran Mitridate, quell’eterno
Nemico de’ Roman, che sì ramingo
Fuggì dinanzi a lor la state e ’l verno?

Molte gran cose in picciol fascio stringo.
Ov’è ’l re Artù; e tre Cesari Augusti,
Un d’Affrica, un di Spagna, un Loteringo?

Cingean costu’ i suoi dodici robusti:
Poi venìa solo il buon duce Goffrido,
Che fe l’impresa santa e i passi giusti.

 

Verso 118. Fra i nomi che io tralascio per brevità. // 120. Che troncò il capo al suo folle amatore, cioè ad Oloferne. – «Uno ne piglia e del capo lo scema» disse l’Ariosto. [A.] // 121. Ond’ogni’istoria umana è ordita. Dal quale hanno incominciamento le storie umane. Dice umana, volendo escludere la storia mosaica. // 122. E ’l suo gran successore. Nabucodonosor. // 123. Che. Accusativo. // 124. Fonte d’errore. Dicesi che Belo fosse il primo uomo che dopo morte avesse onori divini. // 127-128. E dove è colui, cioè Surenate re dei Parti, che diede la famosa sconfitta ai capitani romani, che in mal punto di stelle passarono l’Eufrate? // 129. Vuol dire accrescimento, giunta, ai mali che travagliavano l’Italia a quei tempi. // 133. In picciol fascio. In poche parole. // 135. Severo, Teodosio primo e Carlo magno. // 136. I suoi dodici robusti. I dodici paladini. // 138. Fe. Fece.

 

Questo (di ch’io mi sdegno e ’ndarno grido)
Fece in Gerusalem con le sue mani
Il mal guardato e già negletto nido.

Ite superbi, o miseri Cristiani,
Consumando l’un l’altro, e non vi caglia
Che ’l sepolcro di Cristo è in man di cani.

Raro o nessun ch’in alta fama saglia
Vidi dopo costui (s’io non m’inganno),
O per arte di pace o di battaglia.

Pur, com’uomini eletti ultimi vanno,
Vidi verso la fine il Saracino
Che fece a’ nostri assai vergogna e danno.

Quel di Luria seguiva il Saladino:
Poi ’l duca di Lancastro, che pur dianzi
Era al regno de’ Franchi aspro vicino.

 

Versi 139-141. Questi, cioè Goffredo, fondò in Palestina il regno dei Cristiani, mal guardato e ora già negletto dai successori, cosa di che io mi sdegno e grido senza alcun frutto. // 143. Non vi caglia. Non vi dia pensiero. Non vi curate. // 144. Di cani. Cioè d’infedeli. // 145. Saglia. Salga. // 146. Costui. Goffredo. // 147. Di battaglia. Di guerra. // 148. Come. Atteso che. Perocchè. Ultimi vanno. Nelle pompe. // 149. Verso la fine. Di quella pompa che veniva in compagnia della Fama da mano ritta. Il Saracino. Vuol dire, come dimostra nella terzina vegnente, il Saladino. // 150. A’ nostri. Ai Cristiani. Assai. Molta. Grande. // 151. Quel di Luria. Intendono Norandino re turco. // 152. Il duca di Lancastro. Vuol dire il Conte d’Uni, cugino di Eduardo sesto, re d’Inghilterra. Pur dianzi. Testè. Poco fa.

 

Miro, com’uom che volentier s’avanzi,
S’alcuno vi vedessi qual egli era
Altrove agli occhi miei veduto innanzi;

E vidi duo che si partîr iersera
Di questa nostra etate e del paese:
Costor chiudean quell’onorata schiera:

Il buon re sicilian, ch’in alto intese
E lunge vide, e fu veramente Argo:
Da l’altra parte il mio gran Colonnese,

Magnanimo, gentil, costante e largo.

Versi 154-156. Poi, come uomo che desideri andar sempre più là (o voglia dir nel diletto, ovvero nell’indagare e nel conoscere), mi pongo a mirare se io vedessi quivi alcuno che io avessi già per l’addietro veduto altrove, cioè in vita. // 157. Iersera. Cioè poco dianzi. // 158. Dal nostro secolo e dal nostro paese. Dipende dalle parole si partîr. Dà ad intendere che questi due illustri uomini, morti poco dianzi, erano italiani. // 160. Dichiara chi fossero quei due. Il buon re sicilian. Roberto re di Napoli. Ch’in alto intese. Che mirò a cose alte, nobili. // 162. Il mio gran Colonnese. Il cardinal Colonna, padrone ed amico del Poeta. // 163. Largo. Liberale.

 

 

CAPITOLO III.

In questo ripone coloro che per nobiltà di letteratura si sono renduti celebri, non facendo menzione se non de’ Greci e de’ Romani.

 

Io non sapea da tal vista levarme;
Quand’io udii: Pon mente a l’altro lato;
Chè s’acquista ben pregio altro che d’arme.

Volsimi da man manca, e vidi Plato,
Che ’n quella schiera andò più presso al segno
Al qual aggiunge a chi dal Cielo è dato.

Aristotele poi, pien d’alto ingegno;
Pitagora, che primo umilemente
Filosofia chiamò per nome degno;

Socrate e Senofonte; e quell’ardente
Vecchio a cui fur le Muse tanto amiche,
Ch’Argo e Micena e Troia se ne sente.

Questi cantò gli errori e le fatiche
Del figliuol di Laerte e de la Diva;
Primo pittor de le memorie antiche.

A man a man con lui cantando giva
Il Mantoan, che di par seco giostra;
Ed uno al cui passar l’erba fioriva.

 

Verso 1. Levarme. Levarmi. // 2. Pon mente. Imperativo. Attendi. Fa’ avvertenza. // 3. Perocchè ci ha bene altre vie d’acquistar gloria, oltre la via delle armi. La via delle armi, seguitata da quei famosi che tu hai veduti fin qui, non è la sola via che meni alla gloria. – E vi ha nel modo di dire anche significato il giudizio del poeta, che il pregio onde fassi a parlare vinca quello che viene dall’armi. [A.] // 5. In quella schiera. In quella che andava da man manca, che era la schiera dei sapienti. // 6. Aggiunge. Giunge. A chi. Colui al quale. È dato. È conceduto di giungervi. // 7. Aristotele poi. Suppliscasi vidi. // 8-9. Dicesi che Pitagora fosse il primo che trovasse il nome di filosofo, cioè amatore della sapienza, e con questo nome chiamasse gli studiosi delle cose naturali e della verità, i quali prima erano chiamati meno modestamente sofi, cioè saggi. Per. Con. // 10-11. Quell’ardente Vecchio. Omero. // 12. Se ne sente. Vuol dir se ne avveggono, per la fama che hanno in virtù de’ suoi versi; oppure si sentono, cioè sono nominate e famose, per la sua poesia. // 13. Gli errori. Cioè le varie peregrinazioni. // 14. E de la Diva. E del figliuol di Teti. // 16. A man a man con lui. A paro con lui. Allato a lui. // 17. Il Mantoan. Virgilio. Che di par seco giostra. Che giostra con lui di pari. Vuol dire: che lo pareggia in valor poetico.

 

Quest’è quel Marco Tullio, in cui si mostra
Chiaro quant’à eloquenza e frutti e fiori;
Questi son gli occhi de la lingua nostra.

Dopo venìa Demostene, che fuori
È di speranza omai del primo loco,
Non ben contento de’ secondi onori:

Un gran folgor parea tutto di foco;
Eschine il dica che ’l potè sentire
Quando presso al suo tuon parve già roco.

Io non posso per ordine ridire
Questo o quel dove mi vedessi o quando,
E qual innanzi andar e qual seguire;

Chè cose innumerabili pensando,
E mirando la turba tale e tanta,
L’occhio il pensier m’andava desviando.

Vidi Solon, di cui fu l’util pianta
Che, s’è mal culta, mal frutto produce;
Con gli altri sei di cui Grecia si vanta.

 

Verso 19. Si mostra. Apparisce. // 21. Questi. Virgilio e Cicerone. // 22-24. Pospone Demostene a Cicerone nel pregio della eloquenza. // 26. Che ’l potè sentire. Che se ne potè avvedere. // 27. Presso al suo tuon. Cioè: appetto alla eloquenza di Demostene suo avversario. Già. Un tempo. // 29. Dove o quando io vedessi il tale o il tal altro. // 30. E qual. Suppliscasi vedessi. // 33. L’occhio il pensier. Il secondo di questi nomi è oggetto. [A.] Desviando. Disviando. // 34. L’util pianta. Vuol dir le leggi. // 35. Culta. Coltivata. Mal frutto. Cattivo frutto. // 36. Con gli altri sei. Coi restanti dei sette savi.

 

Qui vid’io nostra gente aver per duce
Varrone, il terzo gran lume romano,
Che, quanto ’l miro più, tanto più luce.

Crispo Sallustio; e seco a mano a mano
Uno che gli ebbe invidia e videl torto,
Cioè ’l gran Tito Livio padoano.

Mentr’io mirava, subito ebbi scorto
Quel Plinio veronese suo vicino,
A scriver molto, a morir poco accorto.

Poi vidi ’l gran platonico Plotino,
Che, credendosi in ozio viver salvo,
Prevento fu dal suo fiero destino,

Il qual seco venìa dal materno alvo,
E però provvidenza ivi non valse:
Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo

Con Pollïon, che ’n tal superbia salse,
Che contra quel d’Arpino armâr le lingue
Ei duo, cercando fame indegne e false.

 

Verso 37. Qui vid’io nostra gente. Vidi la gente latina che era in questa schiera da mano manca della Fama. // 38. Terzo. Cioè dopo Cicerone e Virgilio. // 39. Luce. Verbo. // 41. Torto. Con occhio torto. // 43. Scorto. Veduto. Conosciuto. // 44. Suo vicino. Vicino di patria a Tito Livio. // 45. Molto avveduto e saggio in iscrivere, poco in morire. Morì per troppa curiosità di veder gli effetti del Vesuvio. // 47. In ozio. In istato quieto e solitario. // 48. Vuol dire: fu colto da morte non aspettata. Prevento. Prevenuto. // 49. Alvo. Ventre. // 50. Provvidenza. Usata da esso Plotino. // 53. Quel d’Arpino. Cicerone. Armâr. Armarono. // 54. Ei duo. Essi due. Cioè Calvo o Pollione.

 

Tucidide vid’io, che ben distingue
I tempi e i luoghi e loro opre leggiadre,
E di che sangue qual campo s’impingue.

Erodoto, di greca istoria padre,
Vidi; e dipinto il nobil geomètra
Di triangoli e tondi e forme quadre;

E quel che ’nvêr di noi divenne petra,
Porfirio, che d’acuti sillogismi
Empiè la dialettica faretra,

Facendo contra ’l vero arme i sofismi;
E quel di Coo, che fe via miglior l’opra,
Se ben intesi fosser gli aforismi.

Apollo ed Esculapio gli son sopra,
Chiusi, ch’a pena il viso gli comprende;
Sì par che i nomi il tempo limi e copra.

Un di Pergamo il segue; e da lui pende
L’arte guasta fra noi, allor non vile,
Ma breve e oscura; ei la dichiara e stende.

 

Verso 55. Distingue. Cioè: nota e dichiara distintamente. // 56. Loro. Cioè fatte in quelli. // 57. Vuol dire: e i luoghi delle battaglie, e le genti che le fecero. Impingue. Impingui. 59. Il nobil geomètra. Euclide. // 60. Dipende dalla voce dipinto del verso innanzi. Tondi. Circoli. // 61. Che ’nvêr di noi divenne petra. Che fu ai Cristiani quasi uno scoglio. Ovvero, che si ostinò contro i Cristiani. Invêr significa inverso, cioè verso; petra sta per pietra. // 64. *Facendo i sofismi arme contra il vero. [A.] // 65. E Ippocrate, la cui opera degli aforismi, ovvero le cui opere, riuscirebbero assai migliori che non riescono, farebbero assai più giovamento di quel che fanno. Oppure: il qual fece opera assai migliore che Porfirio. Fe. Fece. Via. Vie. Assai. // 66. Punge l’ignoranza dei medici de’ tempi suoi. // 67-68. Apollo ed Esculapio, medici antichissimi, gli andavano innanzi, chiusi, cioè coperti, in maniera che l’occhio appena li poteva discernere. Che. Talmente che. Il viso. La vista. Gli. Li. // 69. . Sì fattamente. // 70. Un di Pergamo. Galeno. Il segue. Vien dietro a Ippocrate. Da lui pende. Come da suo principalissimo lume. // 71. L’arte. Cioè l’arte medica. Fra noi. A’ nostri tempi. // 72. Stende. Amplifica. Accresce.

 

Vidi Anasarco intrepido e virile;
E Senocrate più saldo ch’un sasso,
Che nulla forza il volse ad atto vile.

Vidi Archimede star col viso basso;
E Democrito andar tutto pensoso,
Per suo voler di lume e d’oro casso.

Vid’Ippia, il vecchierel che già fu oso
Dir: i’ so tutto; e poi di nulla certo,
Ma d’ogni cosa Archesilao dubbioso.

Vidi in suoi detti Eraclito coperto;
E Dïogene cinico, in suoi fatti,
Assai più che non vuol vergogna, aperto;

E quel che lieto i suoi campi disfatti
Vide e deserti, d’altra merce carco,
Credendo averne invidïosi patti.

Iv’era il curïoso Dicearco;
Ed in suoi magisteri assai dispari
Quintilïano e Seneca e Plutarco.

 

Verso 75. Nulla. Nessuna. // 76. Col viso basso. Pensieroso. O vuole accennar quell’atto in cui fu trovato Archimede quando i Romani espugnarono Siracusa. // 78. Casso, cioè privo, d’oro e di lume, cioè della vista, per suo proprio volere. Narrano che Democrito si accecasse spontaneamente, e donasse ogni suo avere a’ suoi cittadini. // 79. Fu oso. Fu ardito. Osò. Ardì. // 80. Cic. De Orat.: «Hippias… gloriatus est, cuncta pene audiente Græcia, nihil esse ulla in arte rerum omnium, quod ipse nesciret.»* // 82. In suoi detti coperto. Scrittore oscuro. // 83-84. In suoi fatti, Assai più che non vuol vergogna, aperto. Faceva pubblicamente quello che la vergogna vuol che si celi. // 85-87. Anassagora da Clazomone, tornato dalla Grecia in patria d’altra merce carco, cioè ricco di sapienza, e veduti i suoi poderi devastati e incolti, ne prese piacere, credendo fuggir la invidia che gli sarebbe stata partorita dalle ricchezze. Averne invidïosi patti. Cioè non poterli possedere se non a patto, a condizione, d’essere invidiato, sotto pena d’invidia. // 89-90. E Quintiliano, Seneca e Plutarco, molto differenti nei lor magisteri. Il primo fu maestro di Domiziano, il secondo di Nerone, il terzo di Nerva. Magisteri può anche esser detto per professioni, e il Poeta aver voluto accennare che Quintiliano fu rettorico, Seneca filosofo e Plutarco istorico.

 

Vidivi alquanti ch’àn turbati i mari
Con venti avversi ed intelletti vaghi:
Non per saper ma per contender chiari;

Urtar come leoni, e come draghi
Con le code avvinchiarsi: or, che è questo,
Ch’ognun del suo saper par che s’appaghi?

Carneade vidi in suoi studi sì desto,
Che parland’egli, il vero e ’l falso appena
Si discernea; così nel dir fu presto.

La lunga vita e la sua larga vena
D’ingegno pose in accordar le parti
Che ’l furor litterato a guerra mena.

Nè ’l poteo far: chè come crebber l’arti,
Crebbe l’invidia: e col sapere insieme
Ne’ cuori enfiati i suoi veneni sparti.

 

Versi 91-96. Parla de’ dialettici, e di quelli che fecero professione di disputar sottilmente. Avversi. Opposti. Parla per via di metafora. Vaghi. Erranti. Non per saper ma per contender chiari. Famosi non per sapienza ma per contese. Urtar. Urtarsi. Dipende da vidivi. Avvinchiarsi. Avvincersi. // 97. Desto. Accorto. // 98. Plin.: «Quoniam, illo viro argumentante, quid veri esset, haud facile discerni posset.»* // 99. Presto. Pronto. Perito. // 101. Pose. Spese. Adoperò. Cioè Carneade. Le parti. Vuol dire le diverse sètte di filosofi. // 102. Litterato. Letterario. // 103. Ne ’l poteo far. Nè gli venne fatto, nè gli riuscì, di accordarlo. Poteo per potè. Come. A mano a mano che. A proporzione che. L’arti. Le dottrine. // 104. E col sapere insieme. E insieme col sapere. // 105. Suppliscasi crebbero ne’ cuori. Dei dotti. Enfiati. D’orgoglio. Suoi. Della invidia. Sparti. Sparsi.

 

Contra ’l buon Sire che l’umana speme
Alzò, ponendo l’anima immortale,
S’armò Epicuro (onde sua fama geme),

Ardito a dir ch’ella non fosse tale
(Così al lume fu famoso e lippo),
Con la brigata al suo maestro eguale;

Di Metrodoro parlo e d’Aristippo.
Poi con gran subbio e con mirabil fuso
Vidi tela sottil tesser Crisippo.

Degli Stoici ’l padre alzato in suso,
Per far chiaro suo dir, vidi Zenone
Mostrar la palma aperta e ’l pugno chiuso;

E per fermar sua bella intenzïone
La sua tela gentil tesser Cleante,
Che tira al ver la vaga opinïone.

Qui lascio, e più di lor non dico avante.

 

Verso 106. Il buon Sire. Il buon Signore. Cioè Dio. Alcuni intendono Platone. // 109. Ella. Cioè l’anima. Tale. Cioè immortale. // 110. Al lume. Della verità. // 111. Con la brigata. De’ suoi discepoli. // 114. Crisippo. Filosofo stoico, che usò una dialettica sottilissima e scrisse oscuro oltremodo. // 115. Degli Stoici ’l padre. Dipende dalle parole del verso seguente, vidi Zenone alzato in suso. Per fare quell’atto che si dice nell’ultimo verso della terzina. // 116-117. Zenone volendo dare ad intendere la differenza che è dalla rettorica alla dialettica, per essere l’una abbondante e larga nell’espressione de’ concetti, e l’altra al contrario, soleva mostrare la palma della mano aperta, come figura della prima e il pugno chiuso per figura della seconda. Per far chiaro suo dir, vale: per aiutare con quei segni visibili le sue parole intorno alla detta differenza. // 118. E per dare stabilità e compimento all’opera incominciata da Zenone, cioè alla filosofia stoica. Dipende dalle parole del verso seguente, tesser la sua tela gentile. // 19. Suppliscasi vidi Cleante. Successore di Zenone nella scuola stoica. // 120. Che. La qual tela. Cioè gli scritti e la filosofia di Cleante. Vaga. Errante. Incerta. Che va qua e là. // 121. E più di lor non dico avante. E non dico più avanti, cioè non dico altro, di loro.

TRIONFO DEL TEMPO.

«Un dubbio verno, un instabil sereno
È vostra fama; e poca nebbia il rompe;
E ’l gran Tempo a’ gran nomi è gran veneno.»

Trionfo del Tempo.

CAPITOLO UNICO.

In questo Trionfo, per significare che la fama degli uomini perisce in breve, sopraffatta dal Tempo che la distrugge, il Petrarca introduce il Sole, rappresentante il Tempo, a querelarsi della Fama e a vendicarsene, raddoppiando, per annientarla più tosto, la propria velocità. Dal che egli prende argomento, prima di sprezzare la vita umana perchè cortissima, e di biasimare coloro che fondano le loro speranze in essa; e appresso, di redarguir quelli ancora che credono di vivere eternamente per fama dopo la loro morte.

 

De l’aureo albergo, con l’Aurora innanzi,
Sì ratto usciva ’l Sol cinto di raggi,
Che detto aresti: e’ si corcò pur dianzi.

Alzato un poco, come fanno i saggi,
Guardossi intorno; ed a sè stesso disse:
Che pensi? oma’ convien che più cura aggi.

Ecco, s’un uom famoso in terra visse,
E di sua fama per morir non esce,
Che sarà de la legge che ’l Ciel fisse?

E se fama mortal morendo cresce,
Che spegner si doveva in breve, veggio
Nostra eccellenzia al fine; onde m’incresce.

Che più s’aspetta, o che pote esser peggio?
Che più nel ciel ò io, che ’n terra un uomo,
A cui esser egual per grazia cheggio?

Quattro cavai con quanto studio como,
Pasco nell’Oceàno, e sprono e sferzo!
E pur la fama d’un mortal non domo.

 

Verso 2. Sì ratto. Sì tosto. Vuol significare la rapidità del tempo. // 3. Aresti. Avresti. Pur dianzi. Pur ora. Testè. // 4. Alzato un poco. Levato che si fu alquanto sopra l’orizzonte. Come fanno i saggi. Si riferisce alle parole susseguenti, guardossi intorno. // 5. Ed a sè stesso disse. E veduto quel trionfo della fama, disse a sè medesimo. // 6. Aggi. Abbi. // 9. De la legge. Che tutte le creature periscano. Ovvero che tutti gli uomini muoiano. Che. Accusativo. // 10. Mortal. Di creatura mortale. Morendo. Cioè morendo l’uomo. // 11-12. Veggio Nostra eccellenzia al fine. Veggo che la natura mia e degli altri corpi celesti non sarà più superiore alla natura mortale. Onde m’incresce. Del che mi duole. // 13. Che pote esser peggio? Che può sopravvenir di peggio? Pote per puote. // 14. Che cosa ho io nel cielo più di quel che ha un uomo in terra? // 15. Cheggio. Chiedo. Perocchè, se la fama dell’uomo è immortale, la mia condizione viene a essere inferiore a quella di lui, come si dimostra appresso. // 16. Cavai. Cavalli. Como. Pettino. Liscio. Netto.

 

Ingiuria da corruccio e non da scherzo,
Avvenir questo a une; s’io foss’in cielo,
Non dirò primo, ma secondo o terzo.

Or convèn che s’accenda ogni mio zelo,
Sì ch’al mio volo l’ira addoppi i vanni:
Ch’io porto invidia agli uomini, e nol celo

De’ quali veggio alcun, dopo mill’anni
E mille e mille, più chiari che ’n vita;
Ed io m’avanzo di perpetui affanni.

Tal son qual era anzi che stabilita
Fosse la terra; dì e notte rotando
Per la strada rotonda ch’è infinita.

Poi che questo ebbe detto, disdegnando
Riprese il corso più veloce assai
Che falcon d’alto a sua preda volando.

Più dico; nè pensier poria già mai
Seguir suo volo, non che lingua o stile;
Tal che con gran paura il rimirai.

 

Verso 19. Corruccio. Ira. // 20. S’io fossi. Se bene, se anche, quando anche, io fossi. // 21. Non dirò primo. Come sono in effetto. // 22. Convèn. Conviene. Zelo. Gelosia. // 23. I vanni. Le ale. // 26. Chiari. Illustri. Celebrati. Che ’n vita. Di quel che essi furono in vita. // 27. M’avanzo. Vo innanzi. Di. Con. In. Tra. // 23-29. Tal son qual era anzi che stabilita Fosse la terra. Io son tale adesso quale io era prima che la terra fosse formata. Vuol dire: da che io fui creato, la mia condizione non si è avvantaggiata di nulla. // 30. Per la strada. Del cielo. Rotonda. Circolare. // 32. Riprese. Ricominciò. // 33. D’alto. Dall’alto. // 34-35. Dico più veloce; e non pur la lingua e l’arte del dire, ma il pensiero medesimo non potrebbe seguire il suo volo, cioè significare compiutamente la velocità del suo corso. Poria. Potrebbe.

 

Allor tenn’io il viver nostro a vile
Per la mirabil sua velocitate,
Via più ch’innanzi noi tenea gentile:

E parvemi mirabil vanitate
Fermar in cose il cor che ’l Tempo preme,
Che mentre più le stringi, son passate.

Però chi di suo stato cura o teme,
Proveggia ben, mentr’è l’arbitrio intero,
Fondar in loco stabile sua speme:

Chè quant’io vidi ’l Tempo andar leggero
Dopo la guida sua, che mai non posa,
I’ nol dirò, perchè poter nol spero.

I’ vidi ’l ghiaccio, e lì presso la rosa;
Quasi in un punto il gran freddo e ’l gran caldo;
Che pur udendo par mirabil cosa.

Ma chi ben mira col giudicio saldo,
Vedrà esser così: che nol vid’io;
Di che contra me stesso or mi riscaldo.

 

Versi 37-39. Allora vedendo quella sua maravigliosa velocità, io tenni a vile, cioè in bassa estimazione, la nostra vita, assai più che io non l’aveva tenuta, cioè reputata, gentile, cioè nobile, assai più che io non l’aveva pregiata, innanzi, cioè per lo passato. // 41. Fermar in cose il cor. Por la sua cura e l’affetto in cose. Preme. Spinge. Caccia. Incalza. // 43. Cura. Verbo. // 44. Procuri studiosamente finch’egli ha libero arbitrio di sè medesimo. // 45. In loco stabile. Cioè in cose durevoli. // 46. Leggero. Veloce. // 47. Dopo. Dietro. La guida sua. Cioè il sole. Non posa. Non si riposa. Non si ferma. // 48. Poter nol spero. Non ho speranza di poterlo dare ad intendere. – Propriamente di poterlo dire. [A.] // 49. Il ghiaccio. Vuol dir l’inverno. Lì presso. Cioè vicino al ghiaccio. La rosa. Vuol dir la primavera. // 51. Che. Il che. Pur udendo. Non dico a vederlo, come lo vidi io, ma solamente a udirlo. // 52. Saldo. Sano. Intero. // 53. Che nol vid’io. Il che non aveva veduto insino allora. // 54. Di che. Della qual cosa. Mi riscaldo. Mi adiro.

 

Seguii già le speranze e ’l van desio;
Or ò dinanzi agli occhi un chiaro specchio
Ov’io veggio me stesso e ’l fallir mio;

E quanto posso, al fine m’apparecchio,
Pensando ’l breve viver mio, nel quale
Stamane era un fanciullo ed or son vecchio.

Che più d’un giorno è la vita mortale,
Nubilo, breve, freddo e pien di noia;
Che può bella parer, ma nulla vale?

Qui l’umana speranza e qui la gioia;
Qui i miseri mortali alzan la testa;
E nessun sa quanto si viva o moia.

Veggio la fuga del mio viver presta,
Anzi di tutti; e nel fuggir del Sole,
La ruina del mondo manifesta.

Or vi riconfortate in vostre fole,
Giovani, e misurate il tempo largo;
Chè piaga antiveduta assai men dole.

 

Verso. 59. Al fine. Alla morte. // 59. Pensando ’l breve viver mio. Pensando alla brevità della mia vita. // 60. Stamane. Questa mattina. Poco fa. // 62. Nubilo. Nuvoloso. Noia. Travaglio. Molestia. // 63. Che. La qual vita mortale. // 64. Qui. In questa sì fatta vita è riposta. La gioia. Ripetasi umana. // 66. Quanto si viva o moia. Quanto esso sia per vivere e quando abbia a morire. // 68. Di tutti. Del viver di tutti. // 69. Veggo manifesta la fine del mondo. // 70-72. Parlare ironico. Largo. È detto in maniera avverbiale. Chè. Perocchè. Vuole intendere: se bene in verità; e non vogliate considerare che. – *Ovid.: «Nam prævisa minus lædere tela solent.» E Dante: «Chè saetta prevista vien più lenta.»*

 

Forse che ’ndarno mie parole spargo;
Ma io v’annunzio che voi sete offesi
Di un grave e mortifero letargo:

Chè volan l’ore, i giorni e gli anni e i mesi;
E ’nsieme, con brevissimo intervallo,
Tutti avemo a cercar altri paesi.

Non fate contra ’l vero al core un callo,
Come sete usi; anzi volgete gli occhi
Mentr’emendar potete il vostro fallo.

Non aspettate che la Morte scocchi,
Come fa la più parte; chè per certo
Infinita è la schiera degli sciocchi.

Poi ch’i’ ebbi veduto e veggio aperto
Il volar e ’l fuggir del gran pianeta,
Ond’i’ ò danni e ’nganni assai sofferto;

Vidi una gente andarsen queta queta,
Senza temer di Tempo o di sua rabbia;
Che gli avea in guardia istorico o poeta.

 

Verso 74. Sete. Siete. Offesi. Cioè ammalati. // 76. Che. Io v’annunzio che. – *Cic. De senect.: «Horæ quidem cedunt et dies et menses et anni.» // 77-78. E tutti insieme, salvo pochissimo intervallo di tempo tra questo e quell’altro, abbiamo a passare in un altro mondo. Avemo. Abbiamo. // 80. Sete. Siete. Usi. Soliti. Anzi. Ma. – Volgete gli occhi, (intendo) al vero; o forse al vostro fallo [A.] // 81. Mentre. Finchè. Ora che. – *Cod. Bolog.: Mentre amendar si puote.* // 82. Scocchi. Il suo dardo. // 83. Come fa la più parte. Come fanno, cioè come aspettano, i più. Per certo. Certamente. // 85. Aperto. Manifestamente. // 86. Del gran pianeta. Del sole. // 87. Onde. Del qual volare e fuggire del sole. Cioè della velocità del tempo, della quale io non mi era avveduto prima. // Assai. Molti. // 90. Chè. Perocchè. In guardia. In sua tutela. – Aveva, scrivendo, assicurata loro l’immortalità del nome. [A.]

 

Di lor par più che d’altri invidia s’abbia;
Che per sè stessi son levati a volo,
Uscendo for de la comune gabbia.

Contra costor colui che splende solo,
S’apparecchiava con maggiore sforzo,
E riprendeva un più spedito volo.

A ’suoi corsier raddoppiat’era l’orzo;
E la reina di ch’io sopra dissi,
Volea d’alcun de’ suoi già far divorzo.

Udi’ dir, non so a chi, ma ’l detto scrissi:
In questi umani, a dir proprio, ligustri,
Di cieca obblivione oscuri abissi,

Volgerà ’l Sol, non pur anni, ma lustri
E secoli, vittor d’ogni cerèbro;
E vedra’ il vaneggiar di questi illustri.

Quanti fur chiari tra Peneo ed Ebro,
Che son venuti o verran tosto meno!
Quant’in sul Xanto e quant’in val di Tebro!

Un dubbio verno, un instabil sereno
È vostra fama; e poca nebbia il rompe;
E ’l gran tempo a’ gran nomi è gran veneno.

 

Verso 91. Par. Pare che. // 92. Per sè stessi. Da sè medesimi. Cioè per la loro propria virtù ed opera. Son. Si sono. // 93. For. Fuori. De la comune gabbia. Seguita la metafora degli uccelli, incominciata nelle parole son levati a volo. Vuol dire: della oscura condizione dei più. // 94. Colui che splende solo. Cioè solo tra i pianeti. Ovvero più che qualunque altro corpo celeste. Vuol dire il sole. // 96. Riprendeva. Ricominciava. Spedito. Rapido. // 97. Corsier. Corsieri. Cavalli. – *Cod. Bol.: A’ suoi corsieri raddoppiava l’orzo.* // 98. La reina. Cioè la Fama. Di ch’io sopra dissi. Della quale ho detto di sopra. // 99. D’alcun. Da alcuno. Far divorzo. Far divorzio. Separarsi. Vuol significare che per la velocissima fuga del tempo, il nome di alcuni famosi già cominciava a oscurarsi. // 100. Udi’. Udii. // 101-105. Sopra questi, contro questi, per parlar propriamente, ligustri umani, cioè contro questi uomini, ovvero contro le opere di questi uomini, caduche come ligustri, oscuri abissi di obblio, il sole rivolgerà, non solo anni, ma lustri e secoli, vincitore di ogni cervello, cioè d’ogni ingegno: e tu vedrai il vaneggiare, cioè la vanità, la fiacchezza, di questi famosi, ovvero, come questi famosi abbiano vaneggiato credendo e procacciando di farsi immortali. – *Cerèbro. È degna di nota la variante celèbro per celebre, come silvestro per silvestre. La quale variante trovasi confermata da più codici magliabechiani, e dà al verso un senso più chiaro e più semplice. *E vedra’ il. L’Aldina e altre antiche edizioni leggono: E vedrà il, riferendolo a sole del verso 103.* // 106. Chiari. Famosi. Tra Peneo ed Ebro. Vuol dire tra i Greci. // 107. Che. I quali. Cioè i cui nomi. Dipende da quanti. // 108. Quant’in sul Xanto. Cioè quanti Troiani. Suppliscasi fur chiari. In val di Tebro. In valle di Tevere. Intende dei Romani. // 109. Un’incerta e instabile serenità invernale. // 110. Rompe. Interrompe. Finisce. // 111. Il gran tempo. Il lungo tempo. La lunghezza del tempo. A’ gran nomi. Alle grandi celebrità.

 

Passan vostri trïonfi e vostre pompe,
Passan le signorie, passano i regni;
Ogni cosa mortal Tempo interrompe;

E ritolta a’ men buon, non dà a’ più degni:
E non pur quel di fuori il Tempo solve,
Ma le vostr’eloquenze e i vostri ingegni.

Così fuggendo, il mondo seco volve;
Nè mai si posa nè s’arresta o torna,
Fin che v’à ricondotti in poca polve.

Or perchè umana gloria à tante corna,
Non è gran maraviglia s’a fiaccarle
Alquanto oltra l’usanza si soggiorna.

Ma cheunque si pensi il volgo o parle,
Se ’l viver vostro non fosse sì breve,
Tosto vedreste in polve ritornarle.

Udito questo (perchè al ver si deve
Non contrastar, ma dar perfetta fede),
Vidi ogni nostra gloria, al Sol, di neve.

 

Verso 112. – Cod. Bol.: Passan vostre grandezze. * // 114. Ogni cosa mortal. Accusativo. Interrompe. Distrugge. Consuma. Manda in perdizione. // 115. E ritolta, cioè ogni cosa mortale, ai tristi, non la concede però ai buoni. // 116. Non pur. Non solo. Quel di fuori. Il corpo e le opere materiali. Accusativo. Solve. Scioglie. Disfà. // 118. Il mondo. Accusativo. Volve. Volge. // 119. Si posa. Si riposa. // 121-126. Luogo di oscurità portentosa e barbara, quantunque, secondo il solito, dissimulata da tutti i comentatori. Mi proverò a dichiararlo, senza alcuna certezza di buon successo. La gloria umana dura veramente qualche poco più che i corpi e le altre cose degli uomini, perch’ella ha tante corna (cioè, come a dir, tante teste, quasi un’idra) che non è gran maraviglia se a fiaccarle, cioè romperle, si soggiorna, cioè si tarda, alquanto più dell’usato, cioè dire, ci bisogna un poco più di tempo che a disfar le altre cose. Ma che che pensi o dica la moltitudine (la quale si persuade che la gloria umana sia o possa essere eterna o di gran durata), se la vita dell’uomo non fosse così breve come ella è, se voi poteste vivere un poco più, voi medesimi vedreste le corna della gloria umana essere tosto ritornate, cioè ridotte in polvere. Cheunque. Che che. Parle. Parli. – *In polve. I cod. Estensi e il Bolog. leggono in fumo.* // 129. Al Sol, di neve. Essere come neve al sole.

 

E vidi ’l Tempo rimenar tal prede
De’ vostri nomi, ch’i’ gli ebbi per nulla:
Benchè la gente ciò non sa nè crede;

Cieca, che sempre al vento si trastulla,
E pur di false opinïon si pasce,
Lodando più ’l morir vecchio, che ’n culla.

Quanti felici son già morti in fasce!
Quanti miseri in ultima vecchiezza!
Alcun dice: beato è chi non nasce.

Ma per la turba a’ grandi errori avvezza,
Dopo la lunga età sia ’l nome chiaro:
Che è questo però che sì s’apprezza?

Tanto vince e ritoglie il Tempo avaro;
Chiamasi Fama, ed è morir secondo;
Nè più che contra ’l primo è alcun riparo.

Così ’l Tempo trionfa i nomi e ’l mondo.

 

Verso 130. Rimenar. Riportare. Tal. Tali. // 131. De’ vostri nomi. Delle vostre riputazioni, o mortali. Ch’i’ gli ebbi per nulla. Ch’io non ebbi più i vostri nomi, cioè le vostre riputazioni in veruna stima. // 134. Pur. Solo. Ovvero continuamente, tuttavia. // 136. Quanti già nel passato sono morti felici in fasce. // 137. Plin.: «Itaqua multi extitere, qui non nasci optimum censerunt.»* // 139-144. Ma concedasi per vero al volgo, assuefatto ai grandi errori, che la fama di alcuni uomini duri dopo lunga età, cioè fino a un lungo spazio di tempo: or che gran cosa è poi questa, di cui si fa tanta stima? Il Tempo avaro, cioè ingordo, vince e ritoglie tanto, cioè medesimamente, nè più nè meno, questa sì fatta cosa; la quale ha nome di fama, e non è veramente altro che un morir di nuovo, nè a questa seconda morte si trova alcun riparo più che alla prima. // 145. I nomi e ’l mondo. Dei nomi e del mondo.

TRIONFO DELLA DIVINITÀ.

«E non avranno in man gli anni ’l governo
Delle fame mortali; anzi chi fia
Chiaro una volta, fia chiaro in eterno.»

Trionfo della Divinità.

CAPITOLO UNICO.

In questo Trionfo, che dovrebbe intitolarsi piuttosto dell’Eternità, sbigottito il Petrarca dalla caducità di tutte le cose terrene, protesta di non confidare che in Dio; accenna la distruzione di tutto il mondo presente, e l’eternità di un altro; si rallegra cogli eletti alla gloria di questo nuovo mondo, e commisera gli esclusi da essa; finalmente spera di esser egli presto tra i primi, e di beatificarsi rivedendo Laura in cielo.

 

Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi
Stabile e ferma, tutto sbigottito
Mi volsi, e dissi: guarda; in che ti fidi?

Risposi: Nel Signor che mai fallito
Non à promessa a chi si fida in lui:
M’avveggio ben che ’l mondo m’à schernito;

E sento quel ch’io sono e quel ch’i’ fui;
E veggio andar, anzi volar il tempo;
E doler mi vorrei, nè so di cui:

Chè la colpa è pur mia, che più per tempo
Dove’ aprir gli occhi, e non tardar al fine:
Ch’a dir il vero, omai troppo m’attempo.

Ma tarde non fur mai grazie divine:
In quelle spero che ’n me ancor faranno
Alte operazïoni e pellegrine.

 

Verso 1. Da poi che. Posciachè. Poichè. Cosa. Cosa alcuna. // 3. *Cod. Bol. ed Estensi: Mi volsi a me e dissi: in che ti fidi? E questa, per mio avviso, è miglior lezione.* // 4-5. Fallito non à promessa. Non è mancato di promessa. // 6. La lezione volgare è: Ma veggio. La nostra correzione è voluta dallo stesso legame delle idee.* // 7. Sento. Conosco. // 9. Di cui. Di chi. // 10. Pur. Solamente. Per tempo. Presto. // 11. Al fine. Fino all’estremo della vita. // 12. M’attempo. Indugio. Veggasi nella prima Parte la Canzone terza, stanza prima, verso ultimo. // 13. Ma le grazie divine, in qualunque tempo sopravvengano, non giungono mai troppo tardi. // 15. Operazïoni. Qui vale effetti; ma il modo fare operazioni se non fosse nobilitato da quegli epiteti alte e pellegrine sentirebbe troppo di prosa. [A.] – Pellegrine. Rare. Egregie.

 

Così detto e risposto: or se non stanno
Queste cose che ’l Ciel volge e governa,
Dopo molto voltar, che fine aranno?

Questo pensava: e mentre più s’interna
La mente mia, veder mi parve un mondo
Novo, in etate immobile ed eterna;

E ’l Sole e tutto ’l ciel disfare a tondo
Con le sue stelle; ancor la terra e ’l mare;
E rifarne un più bello e più giocondo.

Qual maraviglia ebb’io quando restare
Vidi in un piè colui che mai non stette,
Ma discorrendo suol tutto cangiare?

E le tre parti sue vidi ristrette
Ad una sola; e quell’una esser ferma:
Sì che, come solea, più non s’affrette!

E quasi in terra d’erba ignuda ed erma,
Nè fia nè fu nè mai v’era, anzi o dietro,
Ch’amara vita fanno, varia e ’nferma.

 

Verso 16. Così detto e risposto. Detto e risposto che ebbi a me stesso così. Non stanno. Non hanno stato durevole, stabilità. // 17. Cioè le cose terrene, mortali. // 18. Voltar. Voltarsi. Esser voltato. Aranno. Avranno. // 19. Questo. Accusativo. Pensava. Io pensava. S’interna. In questo pensiero. // 21. In etate ecc. Eternamente uguale a sè stesso. [A.] // 22. E ’l sole. E parvemi vedere il sole. Disfare. Esser disfatto. A tondo. Intorno intorno. Di ogn’intorno. Da ogni parte. // 23. Ancor. E parimente disfare. // 24. Rifarne. Esserne rifatto. – E la particella ne si riferisce a mondo, la cui idea complessa si è svolta, ma non distrutta, enumerando le parti che la compongono. [A.] // 25-26. Restare in un piè. Cioè fermarsi o star fermo. Colui. Cioè il tempo. Non stette. Non istette fermo. // 27. Discorrendo. Scorrendo. // 28. Le tre parti sue. Le tre parti del Tempo, cioè il passato, il presente e il futuro. // 29. Ad una sola. Cioè al presente. // 30. In maniera che non possa più affrettarsi, come soleva. Intendasi: questa parte (cioè il presente) ovvero il Tempo. Affrette. Affretti. // 31-33. E come in una terra secca e deserta, la quale è tutta di una sembianza, nè questa tal sembianza si cambia per variar di stagioni; similmente in quel nuovo tempo, che è a dire l’eternità, non trovavasi nè sarà, nè fu, nè mai, nè prima, nè dopo, cose che fanno amara, varia ed inferma la vita dei mortali.

 

Passa ’l pensier sì come Sole in vetro,
Anzi più assai, però che nulla il tène:
O qual grazia mi fia, se mai l’impetro,

Ch’i’ veggia ivi presente il sommo Bene,
Non alcun mal, che solo il tempo mesce;
E con lui si diparte e con lui vène!
Non avrà albergo il Sol in Tauro o ’n Pesce;

Per lo cui varïar, nostro lavoro
Or nasce or more, ed or scema ed or cresce.

Beati i spirti che nel sommo coro
Si troveranno o trovano in tal grado
Che fia in memoria eterna il nome loro!

O felice colui che trova il guado
Di questo alpestro e rapido torrente
Ch’à nome vita, ch’a molti è sì a grado!

Misera la volgare e cieca gente,
Che pon qui sue speranze in cose tali
Che ’l tempo le ne porta sì repente!

O veramente sordi, ignudi e frali,
Poveri d’argomento e di consiglio,
Egri del tutto e miseri mortali!

Quel, che ’l mondo governa pur col ciglio;
Che conturba ed acqueta gli elementi:
Al cui saper non pur io non m’appiglio,

Ma gli angeli ne son lieti e contenti
Di veder de le mille parti l’una,
Ed in ciò stanno desïosi e ’ntenti.

 

Verso 34. Passa ’l pensier. Cioè passa oltre il mio pensiero. Oppur si dee sottintendere: in quel nuovo tempo e stato, cioè della eternità. // 35. Tène. Tiene. Rattiene. // 38. Non alcun mal. Non vedendo, e non veggia, senza vedere, alcun male. Che. Accusativo. Mesce. Cioè porge. Metafora tolta da chi versa altrui da bere. // 39. E. E che. Con lui. Col tempo. Si diparte. Parte. Vène. Viene. // 41. Cui. Del quale, cioè del sole. Ovvero, dei quali, cioè dei segni celesti che il sole va scorrendo. // 44. O trovano. O si trovano. Grado. Stato. – Salm. CXI: «In memoria æterna erit justus.»* // 46. Il guado. Cioè il luogo da guadare. – E dee voler dire uscirne felicemente. [A.] // 47. Alpestro. Alpestre. Montano. // 48. A grado. Gradita. // 50. Qui. In questa vita. // 51. Che. Dipende da tali. Le ne porta. Le porta via. Alcuni codici veduti dal Muratori hanno che ’l tempo leve porta. [L.] – *E lieve legge il Cod. Bolognese.* // Repente. Subitamente. // 53. D’argomento. Di mezzi. Di accorgimenti. Di consiglio. Di senno. Di cognizion del partito da prendere. Di spedienti. // 54. Egri. Infermi. // 55. Quel. Cioè Dio. Se questo sia nominativo o accusativo, che verbo regga o da che verbo sia retto, che parola o che parole ci si debbano sottintendere, io per me non lo so indovinare. – Io vi sottintendo cercate, curate, ponetevi davanti al pensiero, o simile. [L.] – Pur col ciglio. Col ciglio solo. Col solo muovere delle ciglia. – *Oraz.: «Cuncta supercilio moventis.»* // 57-59. Al cui sapere, non solo non mi avvicino io, che son uomo, ma gli angeli medesimi sono contenti di vederne delle mille parti una sola, cioè di vederne la millesima parte.

 

O mente vaga, al fin sempre digiuna!
A che tanti pensieri? un’ora sgombra
Quel che ’n molt’anni a pena si raguna.

Quel che l’anima nostra preme e ’ngombra
Dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera,
Tutti in un punto passeran com’ombra.

Non avrà loco fu, sarà, nè era;
Ma è solo, in presente, e ora, e oggi,
E sola eternità raccolta e ’ntera.

Quanti spianati dietro e innanzi poggi,
Ch’occupavan la vista! e non fia in cui
Nostro sperare e rimembrar s’appoggi:

La qual varïetà fa spesso altrui
Vaneggiar sì, che ’l viver pare un gioco,
Pensando pur: che sarò io? che fui?

Non sarà più diviso a poco a poco,
Ma tutto insieme; e non più state o verno,
Ma morto ’l tempo, e varïato il loco.

 

Verso 61. Vaga. Errante. Instabile. Inquieta. Al fin sempre digiuna. E sempre in ultimo priva dell’intento tuo, dell’oggetto de’ tuoi desiderii. // 62. Sgombra. Spazza via. Disperde. // 63. Raguna. Raduna. Raccoglie. Accumula. // 64. L’anima nostra. Accusativo. // 65. Nominativi. // 67. Fu, sarà, nè era. Nomi. // 68. Ma solamente avrà luogo è, al presente, ora, oggi. // 70-72. Quanti poggi, cioè quanto eminenze (e vuol dir quanti ostacoli) che ingombravano la vista dietro e innanzi, cioè la vista delle cose passate e delle future, saranno spianati! e venuto meno il passato e il futuro, non ci sarà più luogo a speranza nè a rimembranza. // 73. La qual varïetà. Dello sperare e del rimembrare. Altrui. Gli uomini. Le persone. // 76-78. Il tempo non sarà più diviso a poco a poco, cioè in piccole parti (come a dire in mesi, in giorni, in ore), ma sarà tutto insieme, cioè tutto uno; e non ci sarà state nè verno, cioè varietà di stagioni; anzi il tempo sarà morto, cioè immobile, e il luogo delle creature, del mondo, non sarà quello di prima.

 

E non avranno in man gli anni ’l governo
De le fame mortali: anzi chi fia
Chiaro una volta, fia chiaro in eterno.

O felici quell’anime che ’n via
Sono o saranno di venir al fine
Di ch’io ragiono, qualunqu’e’ si sia!

E tra l’altre leggiadre e pellegrine,
Beatissima lei che Morte ancise
Assai di qua dal natural confine!

Parranno allor l’angeliche divise,
E l’oneste parole, e i pensier casti,
Che nel cor giovenil Natura mise.

Tanti volti che ’l Tempo e Morte àn guasti,
Torneranno al suo più fiorito stato;
E vedrassi ove, Amor, tu mi legasti,

Ond’io a dito ne sarò mostrato:
Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto
Sopra ’l riso d’ogni altro fu beato.

 

Verso 79. E gli anni col loro volgere non porteranno seco varietà d’opinioni, sì che abbiano in mano il governo, cioè siano ora promotori, ora distruggitori delle riputazioni dei morti. [A.] // 81. Chiaro. Famoso. // 82-84. O felici quelle anime che sono o saranno in via di giungere a quel fine del quale io parlo, qualunque egli si sia! Cioè: quelle anime che si sono incamminate o che s’incammineranno per quelle strade che conducono alla beatitudine eterna, qualunque ella si sia (dovendo esser diversa secondo i meriti; ovvero, non potendo noi comprendere la sua qualità), o forse, qualunque morte elle siano per fare. // 85. Pellegrine. Rare. // 86. Lei. Cioè Laura. Che. Accusativo. Ancise. Uccise. // 87. Assai prima del termine naturale della vita umana. // 88. Parranno. Appariranno. Si vedranno. Allor. Cioè nell’eternità. Divise. Cioè sembianze, maniere, e simili. // 90. Nel cor giovenil. Di Laura. // 91. Che. Accusativo. // 92. Suo. Loro. // 93. Ove. Quel volto ove. // 95. Ecco. Suppliscasi: Sarà detto di me. Chi. Colui che. // 96. Sopra ’l riso d’ogni altro. // Più che qualunque altro nel riso.

 

E quella di cui ancor piangendo canto,
Avrà gran maraviglia di se stessa,
Vedendosi fra tutte dar il vanto.

Quando ciò fia, nol so; sassel proprio essa;
Tanta credenza à più fidi compagni:
A sì alto secreto chi s’appressa?

Credo che s’avvicini: e de’ guadagni
Veri e de’ falsi si farà ragione;
Chè tutte fieno allor opre di ragni.

Vedrassi quanto in van cura si pone,
E quanto indarno s’affatica e suda;
Come sono ingannate le persone.

Nessun secreto fia chi copra o chiuda;
Fia ogni conscïenza, o chiara o fosca,
Dinanzi a tutto il mondo aperta e nuda;

E fia chi ragion giudichi e conosca:
Poi vedrem prender ciascun suo vïaggio,
Come fiera cacciata si rimbosca;

E vederassi in quel poco pareggio
Che vi fa ir superbi, oro e terreno,
Essere stato danno e non vantaggio;

E ’n disparte, color che sotto ’l freno
Di modesta fortuna ebbero in uso,
Senz’altra pompa, di godersi in seno.

 

Verso 100. Sassel. Sel sa. Il sa. // 101-102. Versi composti dal Poeta (come anche universalmente questi ultimi due Trionfi) per provare, cred’io, se avesse mai potuto far gittar via le sue Rime e la pazienza ai lettori e agli interpreti. Pare che vogliano dire: questa gran verità, cioè la fine di questo mondo visibile e l’avvenimento del mondo immateriale ed eterno, è creduta da più, cioè da molti, fedeli; ma qual uomo ancor vivo e mortale può saper sì alto secreto, cioè il quando si ridurranno ad effetto le dette cose? // 103-104. Che s’avvicini. Che ciò s’avvicini. Che quello che ho detto debba esser presto. Dei guadagni veri e de’ falsi. Dei veri e dei falsi beni procacciati dagli uomini. Ragione. Diritto giudizio. // 105. Che tutte le opere umane saranno allora come tele di ragno. Fieno. Saranno. // 106. Quanto in van cura si pone. Quante cure si usano invano, per niente, senza alcun frutto. // 107. S’affatica. Si fatica. // 108. Come s’ingannano gli uomini. // 109. Non ci sarà cosa che cuopra o chiuda alcun secreto. // 110-111. Ogni coscienza, o netta o sozza, sarà manifesta e nuda in cospetto di tutto il mondo. // 112-113. E ci sarà chi giudichi e dia sentenza secondo i meriti: poi vedremo ciascuno andare al luogo assegnatogli dalla sentenza. // 114. Cacciata. Inseguita dai cacciatori. // 115. In quel poco pareggio. In quel breve confronto che sarà fatto di voi altri mortali dinanzi al sommo giudice. – Il prof. Nannucci, nella sua Analisi de’ verbi, in una nota a pag. 57, ha dimostrato bastantemente il valore della parola pareggio in questo luogo. Ella è d’origine provenzale, e significa nobiltà di sangue; e questo è il senso di tutta la frase: E vedrassi allora come in quella poca nobiltà, oro e terreno, per cui tanto or superbite, fu danno e non vantaggio. [L.] // 116. Ciò che vi fa esser superbi, come a dir l’oro e le terre. // 118-119. E ’n disparte. Suppliscasi vedransi. Sotto ’l freno di modesta fortuna. Cioè: colla temperanza e la costumatezza che sogliono esser compagne nella fortuna mediocre. Ebbero in uso. Costumarono. // 120. Di goder seco stessi, da sè medesimi, in vita privata, domestica, solitaria, e senza alcuna pompa. Tibullo: «Qui sapit in tacito gaudeat ille sinu.»*

 

Questi cinque Trionfi in terra giuso
Avem veduti, ed alla fine il sesto,
Dio permettente, vederem lassuso;

E ’l Tempo disfar tutto e così presto;
E Morte in sua ragion cotanto avara:
Morti saranno insieme e quella e questo.

E quei che fama meritaron chiara,
Che ’l Tempo spense; e i bei visi leggiadri,
Che ’mpallidir fe ’l Tempo e Morte amara;

L’obblivïon, gli aspetti oscuri ed adri,
Più che mai bei tornando, lasceranno
A Morte impetuosa i giorni ladri.

Ne l’età più fiorita e verde aranno
Con immortal bellezza eterna fama;
Ma innanzi a tutti ch’a rifar si vanno,

È quella che piangendo il mondo chiama
Con la mia lingua e con la stanca penna;
Ma ’l ciel pur di vederla intera brama.

 

Verso. 121. Questi cinque trionfi. D’Amore, della Castità, della Morte, della Fama e del Tempo. In terra giuso. Quaggiù in terra. // 122. Avem. Abbiamo. Il sesto. Il Trionfo della Divinità. // 123. Dio permettente. Permettendolo Iddio. Piacendo a Dio. Lassuso. In cielo. // 124. Il Biagioli vorrebbe leggere: E ’l tempo a disfar tutto così presto; alla quale opinione io m’accosterei volentieri. // 125. In sua ragion cotanto avara. Veggasi il primo Capitolo, verso centoventesimosesto del Trionfo della Morte. // 128. Che. La qual fama. Accusativo. // 129. Fe. Fece. // 130-132. Se leggiamo col Castelvetro ai giorni ladri, questo luogo si vuole intender così: tornando più che mai belli, lasceranno l’oblivione e le sembianze oscure ed adre, cioè atre, alla Morte impetuosa e al Tempo rapace. // 133. Ne l’età più fiorita e verde. Suppliscasi ritornati. Aranno. Avranno. // 135. Ch’a rifar si vanno. Cioè che hanno a risorgere a vita e bellezza immortale. // 136. Quella. Cioè Laura. Che. Accusativo. // 137. E con la stanca penna. Ripetasi mia. // 138. Intera. Cioè in anima e in corpo insieme.

 

A riva un fiume che nasce in Gebenna,
Amor mi diè per lei sì lunga guerra,
Che la memoria ancor il core accenna.

Felice sasso che ’l bel viso serra!
Che poi ch’avrà ripreso il suo bel velo,
Se fu beato chi la vide in terra,

Or che fia dunque a rivederla in cielo?

 

Verso 139. Cioè in riva del Rodano. // 140. Guerra. Travaglio. // 141. Che il cuor mio ne porta ancora i segni. // 142. Sasso. Quel sasso. // 143. Che. La quale. Cioè Laura. Velo. Cioè corpo. // 145. Cioè: quanto sarà dolce il tornare a vederla in cielo.

 

Parte Quarta.

SONETTI E CANZONI SOPRA VARI ARGOMENTI.

SONETTO I.

Rincora un amico allo studio delle lettere

e all’amore della filosofia.

La gola e ’l sonno e l’ozïose piume
Ànno del mondo ogni vertù sbandita,
Ond’è dal corso suo quasi smarrita
Nostra natura, vinta dal costume:

Ed è sì spento ogni benigno lume
Del ciel, per cui s’informa umana vita,
Che per cosa mirabile s’addita
Chi vuol far d’Elicona nascer fiume.

Qual vaghezza di lauro? qual di mirto?
Povera e nuda vai, filosofia,
Dice la turba al vil guadagno intesa.

Pochi compagni avrai per l’altra via:
Tanto ti prego più, gentile spirto,
Non lassar la magnanima tua impresa.

 

Conforta un amico a perseverare negli studi delle lettere e della filosofia.

Verso 1. L’ozïose piume. Il sedere scioperatamente. L’ozio. // 2. Del mondo. Dal mondo. Vertù. Virtù. // 3. È dal corso suo quasi smarrita. Ha quasi smarrita la sua strada. È quasi al tutto sviata. // 4. Dal costume. Dalla consuetudine. Dalla mala usanza. // 5-8. E ogni benigno influsso degli astri, dai quali la vita umana riceve qualità e forma, è venuto meno in guisa, che si suol mostrare a dito come cosa mirabile, chi si sforza di far frutto nelle buone lettere. – S’addita. Qui è usato nel senso proprio: «digito monstrari et dicier hic est.» [A.] // 9. Qual vaghezza. Qual desiderio. Suppliscasi: si trova, si vede, a questi tempi. Di lauro e di mirto vagliono di gloria poetica e letteraria. // 10. Vai. Cioè sei. // 11. La turba. La moltitudine. Al vil guadagno intesa. Intenta ai vili guadagni. Occupata da basse voglie. Per l’altra via. Cioè per la via de’ buoni studi. – *Molti codici leggono: Per l’alta via: ed è buona lezione.* // 13. Tanto ti prego più. Tanto più ti prego. // 14. Cioè non lasciar l’onorato cammino che hai preso.

 

 

SONETTO II.

A Stefano Colonna il vecchio,

ch’era già stato in Avignone, e si dipartiva.

Glorïosa Colonna, in cui s’appoggia
Nostra speranza e ’l gran nome latino;
Ch’ancor non torse dal vero cammino
L’ira di Giove per ventosa pioggia;

Qui non palazzi, non teatro o loggia,
Ma ’n lor vece un abete, un faggio, un pino
Tra l’erba verde e ’l bel monte vicino,
Onde si scende poetando e poggia,

Levan di terra al ciel nostr’intelletto;
E ’l rosignuol, che dolcemente a l’ombra
Tutte le notti si lamenta e piagne,

D’amorosi pensieri il cor ne ’ngombra:
Ma tanto ben sol tronchi e fa’ imperfetto
Tu che da noi, signor mio, ti scompagne.

 

A uno dei Colonna.

Versi 3-4. Accenna la persecuzione fatta dal pontefice Bonifazio ottavo alla casa Colonna. Che. Accusativo. Non torse dal vero cammino. Non rimosse dalla buona strada, dal diritto procedere. // 5. Qui. Dove io mi trovo ora e ti scrivo. // 8. E poggia. E onde, cioè per cui si poggia, cioè si sale, poetando. // 9. Nostr’intelletto. Cioè il mio intelletto. // 10. A l’ombra. Tra i rami degli alberi. – *Virg. Georg. «Qualis populea mœrens philomela sub umbra.»* // 12. Ne ’ngombra. C’ingombra. Cioè m’ingombra. // 14. Ti scompagne. Ti scompagni. Cioè: sei lontano.

 

 

SONETTO III.

Risponde a Stramazzo da Perugia,

che lo invitava a poetare.

Se l’onorata fronde, che prescrive
L’ira del ciel quando ’l gran Giove tona,
Non m’avesse disdetta la corona
Che suole ornar chi poetando scrive;

I’ era amico a queste vostre Dive,
Le qua’ vilmente il secolo abbandona:
Ma quella ingiuria già lunge mi sprona
Da l’inventrice de le prime olive;

Chè non bolle la polver d’Etiopia
Sotto ’l più ardente Sol, com’io sfavillo
Perdendo tanto amata cosa propia;

Cercate dunque fonte più tranquillo;
Chè ’l mio d’ogni liquor sostène inopia,
Salvo di quel che lagrimando stillo.

 

Risposta a un Sonetto di Stramazzo da Perugia.

Versi 1-2. L’onorata fronde. Il lauro. Allegoria di Laura. Prescrive l’ira del ciel. Pon limite all’ira del cielo. Accenna la proprietà, che si credeva, del lauro, di non esser tocco dal fulmine. // 3-4. Cioè: non mi avesse co’ suoi mali trattamenti e sdegni, e col travaglio che me ne segue, renduto incapace di guadagnarmi la gloria poetica. Disdetta. Negata. // 5. A queste vostre Dive. Alle muse. // 6. Le qua’. Le quali. Il secolo. Il nostro secolo. // 7-8. Ma i mali trattamenti di Laura mi alienano da Minerva, cioè dalla scienza. // 10. Come. Cioè: così come, tanto quanto. Sfavillo. Di dolore e di sdegno. // 11. Tanto amata cosa propia. Cioè la gloria poetica, che mi sarebbe stata dovuta, che io sperava e anzi già reputava per cosa propria. // 13. Sostène inopia. Sostiene povertà. È povero. // 14. Salvo. Eccetto. Di quel. Di quel liquore.

 

 

SONETTO IV.

Si consola con l’amico Boccaccio

di vederlo sciolto dagl’intrighi amorosi.

Amor piangeva, ed io con lui talvolta
(Dal qual miei passi non fur mai lontani),
Mirando, per gli effetti acerbi e strani,
L’anima vostra de’ suoi nodi sciolta.

Or ch’al dritto cammin l’à Dio rivolta,
Col cor levando al cielo ambe le mani
Ringrazio lui, ch’e’ giusti preghi umani
Benignamente, sua mercede, ascolta.

E se tornando a l’amorosa vita,
Per farvi al bel desio volger le spalle,
Trovaste per la via fossati o poggi;

Fu per mostrar quant’è spinoso calle,
E quanto alpestra e dura la salita,
Onde al vero valor convèn ch’uom poggi.

 

Si congratula a Giovanni Boccaccio che sia tornato a vita amorosa. Il Passigli nella sua Prefazione dichiara: «si sono aggiunti gli Argomenti del Marsand, senza perciò eliminarne i pochi che qua e colà dettò esso Leopardi, ancorchè talvolta fra di loro discordino; lasciando per tal modo perfezione alla opera dei due Eruditi, e campo alla critica degli arguti lettori.» Noi abbiamo creduto di non dovere per tale discordanza di Argomenti introdurre innovazioni. [L.]

Verso 2. Dal quale amore io non mi sono mai dilungato, come è convenuto a te di fare. // 3. Effetti. Avvenimenti. Casi. // 5. Al dritto cammin. Vuol dire: al cammino amoroso. Rivolta. Volta, indirizzata, di nuovo. // 6. Levando al cielo il cuore e le mani. // 7. Lui. Cioè Dio. E’. I. // 8. Sua mercede. Per sua bontà. Per sua grazia. // 10-11. Trovaste per la via qualche difficoltà e qualche ostacolo atto a rimuovervi dal vostro proposito. // 12-14. Ciò fu solamente acciocchè voi conosceste quanto è spinoso il sentiero e quanto è scoscesa e difficile la salita per cui conviene che l’uomo poggi, cioè ascenda, al vero valore. Alpestra. Alpestre. Convèn. Conviene.

 

 

SONETTO V.

Rallegrasi che il Boccaccio siasi ravveduto

della sua vita licenziosa.

Più di me lieta non si vede a terra
Nave da l’onde combattuta e vinta,
Quando la gente di pietà dipinta,
Su per la riva a ringraziar s’atterra;

Nè lieto più del carcer si disserra
Ch’intorno al collo ebbe la corda avvinta,
Di me, veggendo quella spada scinta
Che fece al signor mio sì lunga guerra.

E tutti voi ch’Amor laudate in rima,
Al buon testor de gli amorosi detti
Rendete onor, ch’era smarrito in prima:

Chè più gloria è nel regno de gli eletti
D’un spirito converso, e più s’estima,
Che di novantanove altri perfetti.

 

Ad uno che avendo scritto in biasimo dell’amore, cangiato stile, si era volto a far componimenti amorosi. Vedasi la nostra avvertenza sull’argomento del Sonetto IV. [L.]

Versi 1-2. Staz.: «Nec minus hæc læti trahimus solatia quam si Præcipiti delapsa Noto, prospectet amicam Puppis humum ecc.»* // 3. Di pietà dipinta. Cioè: con un colore e un aspetto che fa pietà. // 4. A ringraziar s’atterra. Si prostra a ringraziar Dio. // 7. Di me. Dipende dalle parole del quinto verso, nè lieto più. Veggendo. Vedendo io. Quella spada scinta. Discinta, deposta, quella spada, cioè la spada vostra. Locuzione metaforica. // 8. Al signor mio. Ad Amore. // 10. Testor. Tessitore. Cioè scrittore. // 11. Che. Il qual testore. Smarrito. Come la pecora del Vangelo. In prima. Per lo passato. // 12. Più gloria è. Più festa si fa. // 13. Converso. Convertito. S’estima. Si stima. – *Vang. S. Luc. XV, 7: «Dico vobis, quod ita gaudium erit in cœlo super uno peccatore pœnitentiam agente, quam super nonaginta novem justis, qui non indigent pœnitentia.»*

 

 

SONETTO VI.

Ai signori d’Italia, onde prendano parte

nella crociata di papa Giovanni XXII.

Il successor di Carlo, che la chioma
Con la corona del suo antico adorna,
Prese à già l’arme per fiaccar le corna
A Babilonia, e chi da lei si noma.

E ’l vicario di Cristo, con la soma
De le chiavi e del manto, al nido torna;
Sì che, s’altro accidente nol distorna,
Vedrà Bologna, e poi la nobil Roma.

La mansueta vostra e gentil agna
Abbatte i fieri lupi: e così vada
Chiunque amor legittimo scompagna.

Consolate lei dunque, ch’ancor bada,
E Roma, che del suo sposo si lagna;
E per Gesù cingete omai la spada.

 

Ai principi d’Italia. Per la crociata bandita a quel tempo dal papa contro i Maomettani. È indirizzato ai principi d’Italia, come dicono i comentatori, ma veramente ad un solo, o al più ad una famiglia, come dirò qui appresso sopra il primo terzetto.

Verso 1. Il successor di Carlo. Cioè Carlo quarto, imperatore. Di Carlo vuol dire; di Carlo Magno. // 2. Del suo antico. Del suo predecessore. Cioè di Carlo Magno. // 3. Fiaccar. Rompere. // 4. E chi da lei si noma. E a chi ha nome da lei. E a’ suoi soggetti e confederati. // 5-6. Cioè: il papa ritorna da Avignone a Roma, a riporvi la sede pontificale; e però dice: con la soma de le chiavi e del manto; volendo significare che l’andata del Papa a Roma sarà con intenzione di risedervi, e non di fermarcisi solo un poco. // 7. S’altro accidente. Se qualche accidente. Nol distorna. Nol disvia da questo proposito. Non gli dà impedimento. // 9. Vuol dire i buoni cittadini, le buone fazioni, d’Italia; la parte che ama la pace. Gentil qui è preso in senso doppio, cioè di piacevole, benigna, e di nobile, patrizia, ovvero di gentilizia. La casa dei lupi è nominata dal Poeta anche nella seconda Canzone di questa quarta Parte, stanza sesta, verso primo. Agna. Agnella. // 10-11. I fieri lupi. Cioè: i cittadini perversi, le fazioni malvage, la parte inquieta, sediziosa, amatrice della discordia. Così spiegano i comentatori, e così ancor io nella prima edizione del presente comento. Ma quest’agna e questi lupi non sono altro che due case nobili romane, significate così per allusione alle loro armi gentilizie. La fazione di una delle quali case, cioè quella dell’agna, aveva di fresco riportata una vittoria sopra la fazione della casa dei lupi. I nomi di queste due case non mi occorrono al presente, e non ho agio di ricercarli nelle storie di quei tempi: ma tengo per fermo che debba essere molto facile a ritrovarli. E così vada Chiunque. E così, od altrettanto, avvenga a chiunque. Amor legittimo scompagna. Spiegano: disgiunge e pone in discordia gli animi de’ nazionali, dei cittadini, dei parenti. // 12. Lei. Colei. Vuol dire l’Italia. Bada. Aspetta. S’indugia. // 13. Del suo sposo. Cioè dell’assenza del papa.

 

 

CANZONE I.

A Giacomo Colonna, perchè secondi l’impresa

del re di Francia contro gl’Infedeli.

O aspettata in ciel, beata e bella
Anima, che di nostra umanitade
Vestita vai, non come l’altre, carca;
Perchè ti sian men dure omai le strade,
A Dio diletta, obbedïente ancella,
Onde al suo regno di qua giù si varca;
Ecco novellamente a la tua barca,
Ch’al cieco mondo à già volte le spalle
Per gir a miglior porto,
D’un vento occidental dolce conforto;
Lo qual per mezzo questa oscura valle,
Ove piangiamo il nostro e l’altrui torto,
La condurrà de’ lacci antichi sciolta
Per drittissimo calle
Al verace orïente, ov’ella è vôlta.

 

Indirizza il Poeta questa Canzone ad un monaco letterato di santa vita (cosa non saputa vedere fin qui dai comentatori), esortandolo ad aiutar con parole e con iscritti la crociata che si preparava. Vedasi la nostra avvertenza sull’argomento del Sonetto IV. [L.]

Versi 1-3. Esprime in questi tre primi versi, e nel quinto, la santità della vita, e lo stato religioso, della persona a cui scrive. – Aspettata in ciel. Cioè degna del cielo e sicura di ottenerlo. [A.] // 4. Dure. Difficili. Faticose. // 6. Onde. Per le quali. Dipende dal nome strade del quarto verso. Suo. Di Dio. Di qua giù. Da questa terra. Si varca. Si passa, si va. // 7. A la tua barca. Cioè: alla tua vita. // 8. À già volto le spalle. Abbracciando lo stato monastico. // 10. Dipende da ecco, che sta nel settimo verso. Occidental. Cioè: prospero a chi naviga, come dice di poi, verso oriente. – *Un vento occidentale è la deliberazione dei principi cristiani d’Europa di fare una crociata.* // 11. Lo qual. Il quale. Per mezzo. Per mezzo a. Questa oscura valle. Del mondo. // 12. Il nostro e l’altrui torto. Gli effetti dei peccati nostri e di quello di Adamo. // 13. La condurrà. Cioè condurrà la tua barca. De’ lacci antichi sciolta. Vuol significare che la crociata sarà occasione a quello a cui scrive, di acquistare tanto merito, che l’anima sua sarà liberata da ogni reliquia delle colpe passate. // 15. Al verace oriente. Cioè al paradiso: e lo chiama vero oriente per rispetto all’oriente terreno, cioè alle contrade d’Oriente alle quali erano vòlti allora gli animi dei Cristiani, per la crociata. Ove. Al quale.

 

Forse i devoti e gli amorosi preghi
E le lagrime sante de’ mortali
Son giunte innanzi a la pietà superna,
E forse non fur mai tante nè tali,
Che per merito lor punto si pieghi
Fuor di suo corso la giustizia eterna:
Ma quel benigno Re che ’l ciel governa,
Al sacro loco ove fu posto in croce,
Gli occhi per grazia gira;
Onde nel petto al novo Carlo spira
La vendetta, ch’a noi tardata noce,
Sì che molt’anni Europa ne sospira;
Così soccorre a la sua amata sposa;
Tal che sol de la voce
Fa tremar Babilonia e star pensosa.

 

Verso 1. I devoti e gli amorosi. I devoti ed amorosi. // 4. E forse. O forse. O piuttosto. O più veramente. – Non fur mai tante le lagrime, nè tali i preghi. [A.] // 8. Alla Palestina. A Gerusalemme. // 9. Per grazia. Per semplice grazia, e non per merito delle lagrime e delle preghiere dei mortali. Gira. Volge. // 10. Al novo Carlo. A Carlo quarto, imperatore. Dice novo per rispetto a Carlo Magno. Spira. Inspira. // 11. La vendetta. Di quel sacro luogo e dei Cristiani, contro agl’Infedeli. Ch’a noi tardata noce. L’indugio della quale è dannoso ai Cristiani. Dannoso, perchè si diceva che la liberazione del Santo Sepolcro fosse debito de’ Cristiani, da scontarsi (s’intende) nell’altro mondo, nel fuoco penace. [A.] // 12. Molt’anni. Già da molti anni. Già per molti anni. // 13. Soccorre. Cioè Cristo. Alla sua amata sposa. Alla sua Chiesa. // 14. Sol de la voce. Della semplice fama delle preparazioni di questa impresa. // 15. Babilonia. Vuol dire generalmente i potentati maomettani.

 

Chiunque alberga tra Garonna e ’l monte
E ’ntra ’l Rodano e ’l Reno e l’onde salse,
Le ’nsegne cristianissime accompagna;
Ed a cui mai di vero pregio colse
Dal Pireneo a l’ultimo orizzonte,
Con Aragon lascerà vôta Ispagna:
Inghilterra con l’isole che bagna
L’Oceano intra ’l Carro e le Colonne
Infin là dove sona
Dottrina del santissimo Elicona,
Varie di lingue e d’arme e de le gonne,
A l’alta impresa caritate sprona.
Deh qual amor sì licito o sì degno,
Qua’ figli mai, quai donne
Furon materia a sì giusto disdegno?

 

Verso 1-2. Vuol dire, tutta la gioventù francese. Il monte. Le Alpi e i Pirenei. L’onde salse. Il mare. // 3. Cristianissime. Del re Cristianissimo. Del re di Francia. // 4. E chiunque ebbe mai desiderio, e qualunque Spagnuolo è desideroso di vera gloria. // 5. A l’ultimo orizzonte. Agli ultimi lidi occidentali di Europa. // 6. Lascerà vota l’Aragona e la Spagna, per andare alla impresa di Terra Santa. // 7. Inghilterra con l’isole. Inghilterra e le isole. Accusativi, che dipendono dal verso duodecimo della stanza. // 8. Intra ’l carro e le colonne. Tra l’Orsa, cioè il polo settentrionale, e le Colonne d’Ercole, cioè lo stretto di Gibilterra. // 9-10. Insin dove si stende la dottrina evangelica, la religione di Cristo. // 11. Varie. Cioè isole varie, diverse. Gonne. Vesti. – *Virg.: «Quam variæ linguis, habita tam vestis et armis.»* // 13-15. Vuol dire: quale altro sdegno, nato da qualunque più acconcia causa, da qualsivoglia più lecito o più convenevole amore, o di patria o di figli o di donne o di che che sia; fu mai così degno e ragionevole, com’è questo che spinge ora i Cristiani a muover guerra agl’infedeli?

 

Una parte del mondo è che si giace
Mai sempre in ghiacci ed in gelate nevi,
Tutta lontana dal cammin del Sole.
Là, sotto i giorni nubilosi e brevi,
Nemica natural mente di pace,
Nasce una gente a cui ’l morir non dole.
Questa se, più devota che non sole,
Col tedesco furor la spada tigne;
Turchi, Arabi e Caldei,
Con tutti quei che speran ne li Dei
Di qua dal mar che fa l’onde sanguigne,
Quanto sian da prezzar, conoscer dêi:
Popolo ignudo paventoso e lento,
Che ferro mai non strigne,
Ma tutti i colpi suoi commette al vento.

 

Versi 1-3. Vuol dir la Germania. È. Avvi. Che si giace. La quale giace. Mai sempre. Significa lo stesso che sempre, ma con più forza. – *Virg.: «Jacet aggeribus niveis informis, et alta Terra gelu late, semperque assurgit in ulnas, Semper hiems, semper spirantes frigora Cauri; Tum sol pallentes haud unquam discutit umbras.»* // 4-6. Lucan.: «Populi, quos despicit Arctos, Felices errore suo, quos ille timorum Maximus haud urget lethi metus, inde ruendi In ferrum mens prona viri ecc.»* – *Cod. Bol.: Nebulosi.* // 7-15. Se questa gente, fuori del suo costume, che è di far guerra ai Cristiani piuttosto che agl’Infedeli, prende questa volta cogli altri l’impresa di Terra Santa, e vi si mette coll’audacia e colla bravura sua naturale, tu puoi bene stimare, ben vedi, che conto si debba fare, che paura si possa avere, dei Turchi, degli Arabi, de’ Caldei, e di tutti gl’infedeli di qua dal Mar Rosso; genti non vestite di ferro, paurose, infingarde, che non si ardiscono mai di combattere da vicino, ma solamente da lungi, colle saette. Sòle. Suole. Col tedesco furor. Col furore proprio dei Tedeschi. Col furore, coll’impeto, che le è proprio. Cigne. Cinge. Pressar. Apprezzare. Stimare. Conoscer dêi. Conoscer devi. // 15. Ma tutti ecc. Lucano: «Et quo ferre velint, permittunt vulnera ventis.»*

 

Dunque ora è ’l tempo da ritrarre il collo
Dal giogo antico, e da squarciar il velo
Ch’è stato avvolto ’ntorno à gli occhi nostri;
E che ’l nobile ingegno che dal Cielo
Per grazia tien de l’immortale Apollo,
E l’eloquenza sua vertù qui mostri
Or con la lingua, or con laudati inchiostri:
Perchè d’Orfeo leggendo e d’Anfione,
Se non ti maravigli,
Assai men fia ch’Italia co’ suoi figli
Si desti al suon del tuo chiaro sermone,
Tanto che per Gesù la lancia pigli;
Che, s’al ver mira questa antica madre,
In nulla sua tenzone
Fur mai cagion sì belle e sì leggiadre.

 

Verso 1-3. Qual era cotesto giogo antico? Quello di cui nessuno ora più parla: Che i Turchi avessero potestà di chiudere ai Cristiani l’accesso al Santo Sepolcro. E il velo? forse l’errore di non conoscere l’obbligo di liberare il Santo Sepolcro.* // 4. Che. Accusativo. Il quale tu. // 5. Tieni, cioè hai ricevuto, per grazia del vero Apollo, cioè di Dio. // 6. E l’eloquenza. È l’eloquenza che tu tieni dal cielo. Sua vertù. Accusativo. // 7. Laudati inchiostri. Cioè scritti egregi. // 8-12. Perocchè, se non ti pare incredibile che Orfeo ed Anfione, come si legge, movessero con loro canti e suoni le fiere, i sassi e le piante; assai minor cosa, assai meno maraviglioso e incredibile, sarà, assai più facilmente avverrà, che gl’Italiani alle tue nobili parole si sollevino dal loro ozio, e piglino le anni per liberare il sepolcro di Cristo. // 13. S’al ver mira. Se ben considera. Questa antica madre. Cioè l’Italia. // 14-15. Niuna guerra ch’ella intraprendesse finora in alcun tempo, ebbe mai cagioni così belle e onorate, come avrebbe questa.

 

Tu, ch’ài per arricchir d’un bel tesauro,
Volte l’antiche e le moderne carte,
Volando al ciel con la terrena soma;
Sai, da l’imperio del figliuol di Marte
Al grande Augusto, che di verde lauro
Tre volte, triunfando, ornò la chioma,
Ne l’altrui ingiurie del suo sangue Roma
Spesse fïate quanto fu cortese.
Ed or perchè non fia,
Cortese no, ma conoscente e pia
A vendicar le dispietate offese
Col figliuol glorïoso di Maria?
Che dunque la nemica parte spera
Ne l’umane difese,
Se Cristo sta da la contraria schiera?

 

Verso 1. Arricchir. Arricchirti. Tesauro. Tesoro. Cioè di dottrina e di sapienza. // 3. Sollevando l’intelletto ad alte cognizioni e ad alti pensieri, non ostante la soma, cioè l’incarico, delle membra. // 4-8. Sai quanto liberale del proprio sangue fu Roma spesse volte, da Romolo insino ad Augusto, per vendicare le ingiurie fatte ad altri. – *Al grande Augusto. Virg.: «At Cæsar triplici invectus romana triumpho Mœnia ec.»* // 9. Non fia. Cioè Roma. // 10. Conoscente. Riconoscente. // 11. Le dispietate offese. Fattegli da’ Maomettani. // 12. Col. Verso il. Dipende da conoscente e pia. // 15. Da la contraria schiera. Cioè dalla parte nostra, per noi.

 

Pon mente al temerario ardir di Serse,
Che fece, per calcar i nostri liti,
Di novi ponti oltraggio a la marina:
E vedrai ne la morte de’ mariti
Tutte vestite a brun le Donne Perse,
E tinto in rosso il mar di Salamina.
E non pur questa misera ruina
Del popol infelice d’Orïente
Vittoria ten promette,
Ma Maratona, e le mortali strette
Che difese il Leon con poca gente,
Ed altre mille ch’ài scoltate e lette.
Perchè inchinar a Dio molto convène
Le ginocchia e la mente,
Che gli anni tuoi riserva a tanto bene.

 

Verso 1. Pon mente al. Volgi la mente al. Recati a mente il. Sovvengati del. // 2. Per calcar i nostri liti. Per passare in Europa. // 3. Novi. Insoliti. Non più veduti. // 4. Ne la. Per la. // 5. Perse. Persiane. // 6. Il mar di Salamina. Dove l’armata di Serse fu rotta dalla greca. // 7. Pur. Solo. Questa misera ruina. Che è la disfatta di Serse. // 9. Ti promette vittoria di detto popolo. Ten. Te ne. // 10. Ma. Ma te ne promettono vittoria altresì. Le mortali strette. Lo stretto delle Termopile. // 11. Il Leon. Vuol dir Leonida. // 12. Ed altre mille. Ed altre mille ruine del popolo d’oriente, cioè degl’imperi e delle nazioni orientali. Scoltate. Ascoltate. // 13. Perchè. Per la qual cosa. Laonde. Inchinar a Dio. Per ringraziarle. Convène. Conviene. // 15. Che. Il quale. Cioè Dio. A tanto bene. Vuol dire: a veder la liberazione di Terra Santa.

 

Tu vedra’ Italia e l’onorata riva,
Canzon, ch’agli occhi miei cela e contende,
Non mar, non poggio o fiume,
Ma solo Amor, che del suo altero lume
Più m’invaghisce dove più m’incende:
Nè natura può star contra ’l costume.
Or movi; non smarrir l’altre compagne;
Chè non pur sotto bende
Alberga Amor, per cui si ride e piagne.

 

Verso 1.-9. Canzone, tu vedrai l’Italia e la gloriosa riva del Tevere, e Roma, dove io sono impedito di andare, come vorrei, non già da mari, da montagne o da fiumi, ma solo da Amore, che qui dove io mi trovo, tacito più m’invaghisce del suo altero lume, cioè della donna che io amo, quanto maggiormente ella, essendo presente, mi abbrucia: nè la natura e la inclinazione buona può utilmente contrastare all’assuefazione contraria. Or va’; non ismarrire le tue compagne, cioè accompàgnati colle altre mie Canzoni; perocchè colui del quale esse parlano, che è Amore, fonte di gioia e di pena, non abita pure, cioè solamente, sotto bende, cioè non è sempre cieco e non ci punge solo per donne, ma eziandio per gloria e per altri soggetti degni, come sono cotesti di cui tu ragioni.

 

 

SONETTO VII.

Prega un amico a volergli imprestare le opere

del Padre Santo Agostino.

S’Amore o Morte non dà qualche stroppio
A la tela novella ch’ora ordisco,
E s’io mi svolvo dal tenace visco
Mentre che l’un con l’altro vero accoppio;

I’ farò forse un mio lavor sì doppio
Tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco,
Che (paventosamente a dirlo ardisco)
Infin a Roma n’udirai lo scoppio.

Ma però che mi manca, a fornir l’opra,
Alquanto de le fila benedette,
Ch’avanzaro a quel mio diletto padre

Perchè tien verso me le man sì strette
Contra tua usanza? i’ prego che tu l’opra,
E vedrai riuscir cose leggiadre.

 

Chiede a un amico che è in Roma non so quale opera di sant’Agostino, che gli bisogna a condurre a fine una sua scrittura.

Verso 1. Stroppio. Impedimento. // 3. Svolvo. Svolgo. Sviluppo. Visco. Vischio della mia passione amorosa. // 4. L’un coll’altro vero. Cioè quello insegnato dai sapienti del gentilesimo, colle verità cristiane. // 5. Sì doppio. Cioè talmente misto. Dice doppio seguitando la metafora, usata di sopra, della tela. // 7. Paventosamente. Paurosamente. Non senza paura di dir troppo, di parere arrogante. // 8. A Roma. Dove tu sei. Lo scoppio. Il romore. Il grido. La fama. // 9. Però che. Perocchè. Poichè. Fornir. Finire. // 10-11. Alquanto di quella sacra materia che soprabbondò al padre sant’Agostino, di cui sant’Agostino ebbe più che abbastanza. Dice de le fila seguitando ancora la metafora del tessere una tela. // 12. Tien. Tieni. // 13. Contra tua usanza. Contro il tuo solito. Prego. Ti prego. L’opra. Lo apra. Cioè apra le mani. – Oprire fu provenzale. [A.] // 14. Riuscir. Cioè dalla mia penna.

CANZONE II.

A Cola di Rienzo, pregandolo di restituire a Roma

l’antica sua libertà.

Spirto gentil che quelle membra reggi
Dentro a le qua’ peregrinando alberga
Un signor valoroso, accorto e saggio;

Poi che se’ giunto a l’onorata verga
Con la qual Rona e suoi erranti correggi,
E la richiami al suo antico viaggio,
Io parlo a te, però ch’altrove un raggio,
Non veggio di vertù, ch’al mondo è spenta,
Nè trovo chi di mal far si vergogni.
Che s’aspetti non so nè che s’agogni
Italia, che suoi guai non par che senta,
Vecchia, ozïosa e lenta.
Dormirà sempre, e non fia chi la svegli?
Le man l’avess’io avvolte entro capegli!

 

A Cola di Rienzo, fatto tribuno del popolo romano.

Verso 1. Reggi. Governi. // 2. Qua’. Quali. Peregrinando. In questa vita mortale. // 3. Un signor valoroso, accorto e saggio. Cioè lo stesso Cola di Rienzo. // 4. A l’onorata verga. Cioè a cotesta autorità del tribunato. // 5. Suoi erranti. I suoi cittadini erranti. // 6. Viaggio. Strada di virtù e di onore. // 7. Però che. Perocchè. Perchè. Altrove. In altri che in te. // 9. Di mal far si vergogni. Si vergogni di far male opere. // 10. Non so che cosa aspetti o desideri. // 12. Lenta. Pigra. Infingarda. // 13. Non fia chi. Non ci avrà niuno che. // 14. Vuol dire: avessi io in lei, cioè nell’Italia, qualche potestà, come hai tu in Roma, sicchè io potessi svegliar quella, come tu puoi svegliar questa, secondo che si dice nella stanza seguente. Forma desiderativa. L’avessi vale avessi a lei; quelli che qui pigliano il pronome le per accusativo plurale, che si riferisca a man, cioè mani, e che intendono le parole entro capegli per entro i miei capelli, introducono in questo luogo un sentimento sconcio, puerile, anzi stolto (chi vietava al Poeta di porsi le mani nei capelli a suo agio?) ed oltre a ciò alienissimo da tutto il resto, in modo che verrebbe a star come in aria; e non fanno avvertenza a quei versi della stanza seguente: «Pon man in quella venerabil chioma Securamente o ne le trecce sparte» (cioè nella chioma e nelle trecce di Roma, e non già nelle tue); nei quali versi il Poeta prega Cola di Rienzo di fare a Roma quello che esso Poeta vorrebbe, ma non può, fare all’Italia. Entro capegli. Entro i capelli.

 

Non spero che già mai dal pigro sonno
Mova la testa, per chiamar ch’uom faccia;
Sì gravemente è oppressa e di tal soma.
Ma non senza destino a le tue braccia,
Che scuoter forte e sollevarla ponno,
È or commesso il nostro capo Roma.
Pon man in quella venerabil chioma
Securamente e ne le trecce sparte,
Sì che la neghittosa esca del fango.
I’, che dì e notte del suo strazio piango,
Di mia speranza ho in te la maggior parte:
Che se ’l popol di Marte
Devesse al proprio onor alzar mai gli occhi,
Parmi pur ch’a’ tuoi dì la grazia tocchi.

 

Verso. 2. Per chiamar ch’uom faccia. Per molto che, per quanto, altri li chiami. // 3. E di tal soma. Cioè: da sì alto sonno. // 4-6. Ma non senza alto disegno dei fati, Roma, che è il nostro capo, è ora commessa, cioè confidata, alle tue braccia, che possono scuoterla gagliardamente e sollevarla. // 7. Pon. Poni. Imperativo. // 8. Securamente. Animosamente. Francamente. Sparte. Sparse. Sciolte. Scomposte. // 12. Il popol di Marte. Il popolo romano. // 13. Dovesse, dee pure, dee per avventura, ridestarsi una volta ad opere onorate. – *Dovesse al primo onore; bella variante del Cod. Bolognese.* // 14. Parmi che questa felicità non possa toccare ad altro tempo che al tuo, che a quello del tuo tribunato.

 

L’antiche mura, ch’ancor teme ed ama
E trema ’l mondo quando si rimembra
Del tempo andato e ’ndietro si rivolve;
E i sassi dove fur chiuse le membra
Di ta’ che non saranno senza fama
Se l’universo pria non si dissolve;
E tutto quel ch’una ruina involve,
Per te spera saldar ogni suo vizio.
O grandi Scipïoni, o fedel Bruto,
Quanto v’aggrada, se gli è ancor venuto
Romor là giù del ben locato offizio!
Come cre’ che Fabrizio
Si faccia lieto udendo la novella!
E dice: Roma mia sarà ancor bella.

 

Verso. 1. L’antiche mura. Di Roma. // 2. E trema il mondo. A nessuno cadrà in mente che il Petrarca usasse la frase tremar le mura, invece di tremare a cagion delle mura. È un modo felicemente contrario alle leggi dello scrivere grammaticale, chiaro, efficace, superiore ad ogni censura: ma chi volesse imitarlo, potrebbe pericolare. Da questi passi dei grandi scrittori si può conchiudere che le regole sono violabili da chi sa andar bene senza il loro sussidio; ma niente più di questo. [A.] // 3. Andato. Passato. Rivolve. Rivolge. // 4. Chiuso. Sepolto. // 5. Di ta’. Di tali. Di certi. Di Persone. Intende degl’illustri Romani. // 6. Non si dissolve. Non viene in dissoluzione, in disfacimento. Non perisce. // 7. Vuol dire: e tutte generalmente le rovine e gli avanzi della grandezza romana. // 8. Spera essere da te, per opera tua, ristorato e reintegrato. Saldar. Sanare. // 9. Fedel. Cioè fedele alla patria. // 10-11. Se pur colaggiù sotterra dove voi siete, è giunta ancora la fama di questo uffizio, cioè dell’autorità di tribuno, ben collocato, cioè conferito a persona degna, quanto vi aggrada ella, cioè quanta letizia ne avete voi! Gli vale egli, ed è parola di ripieno. // 12. Cre’. Credo. // 14. E dice. Altri leggono e’ dice, assai meglio. Ancor. Un’altra volta. Anche nell’avvenire.

 

E se cosa di qua nel ciel si cura,
L’anime che là su son cittadine
Ed ànno i corpi abbandonati in terra,
Del lungo odio civil ti pregar fine,
Per cui la gente ben non s’assecura,
Onde ’l cammino a’ lor tetti si serra,
Che far già sì devoti, ed ora in guerra
Quasi spelunca di ladron son fatti;
Tal ch’a’ buon solamente uscio si chiude;
E tra gli altari e tra le statue ignude
Ogn’impresa crudel par che si tratti.
Deh quanto diversi atti!
Nè senza squille s’incomincia assalto,
Che per Dio ringraziar fur poste in alto.

 

Verso 1. Cosa. Alcuna cosa. Di qua. Di questa terra. Si cura. È curata. // 2. Vuol dire: le anime de’ Santi i corpi dei quali riposano in Roma. // 3. Ànno i corpi abbandonati. Hanno lasciati i corpi. // 4-9. Ti pregano di por fine, ovvero pregano Dio che ti conceda di por fine, alle lunghe discordie civili, per le quali essendo tolta alle persone ogni sicurezza, è chiusa loro la via di andare in pietosi peregrinaggi alle chiese di quei Santi, che furono già onorate sì devotamente, e ora, per la guerra sono divenute come spelonche di ladri, in maniera che essendo esse occupate dai ribaldi, i buoni solamente ne sono esclusi. // 10. Ignude. Cioè spogliate dai ribaldi. // 11. Si tratti. Si maneggi. Si faccia. // 12. Diversi. Perversi. Sconvenevoli. Strani. Atti. Fatti. Azioni. Andamenti. // 13-14. Nè s’incomincia battaglia, zuffa, senza toccar le campane, le quali furono poste in alto (che torna come dire: furono fabbricate) a effetto di ringraziare o lodare Iddio. – Più vicino al testo sarebbe: Che furono poste in alto per chiamar gli uomini a ringraziar Dio. [A.]

 

Le donne lagrimose, e ’l vulgo inerme
De la tenera etate, e i vecchi stanchi,
Ch’ànno sè in odio e la soverchia vita,
E i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,
Con l’altre schiere travagliate e ’nferme,
Gridan: o signor nostro, aita, aita;
E la povera gente sbigottita
Ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
Le voglie che si mostran sì ’nfiammate;
Onde tien l’opre tue nel ciel laudate.

 

Versi 1-2. E ’l vulgo inerme De la tenera etate. E la inerme moltitudine dei fanciulli. // 3. Che hanno in odio sè stessi, e si dolgono della troppo lunga vita, che gli ha condotti a questi miseri tempi. – *Lucan.: «At miseros angit sua cura parentes, Oderuntque gravis vivacia fata senectæ.»* // 5. Con l’altre schiere. E gli altri ordini di persone. // 6. Gridan. Ti gridano. // 7. E la povera gente. E la suddetta gente infelice. // 9. Che moverebbero a pietà, non dico qualunque altro, ma eziandio Annibale, inimico mortale di Roma. // 10-13. E se guardi bene allo stato della casa di Dio (cioè di Roma, capo della Cristianità), che oggi è tutta avvolta in discordie e contese civili, vedrai che spegnendo solamente alcune molto poche faville, si ridurranno a tranquillità gli animi, che ora si mostrano sì accesi dagli odii. // 14. Fien. Saranno. Laudate. Lodate, Dipende da fien.

 

Orsi, lupi, leoni, aquile e serpi
Ad una gran marmorea colonna
Fanno noia sovente, ed a sè danno.
Di costor piagne quella gentil donna,
Che t’à chiamato, acciò che di lei sterpi
Le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già più che ’l millesimo anno
Che ’n lei mancar quell’anime leggiadre
Che locata l’avean là dov’ell’era.
Ahi nova gente oltra misura altera,
Irreverente a tanta ed a tal madre!
Tu marito, tu padre;
Ogni soccorso di tua man s’attende;
Chè ’l maggior padre ad altra opera intende.

 

Verso 1. Armi, o vogliamo dire insegne gentilizie, degli Orsini e di altre case romane contrarie alla fazione dei Colonnesi; e si pigliano qui per le dette case e per la loro parte. // 2. Similmente l’arme della casa Colonna significa essa casa e la sua fazione. // 3. A sè. A sè stessi. // 4. Di costor. Per causa di costoro. Cioè de’ nemici dei Colonnesi. Quella gentil donna. Cioè Roma. // 5. Chiamato. Cioè sollevato a codesto uffizio. Sterpi. Estirpi. Persona seconda. // 8. Che. Da che. Quell’anime leggiadre. Quegli eccellenti uomini. // 9. Che l’avevano levata a quel sì alto grado di potenza e di gloria. Locata. Collocata. // 10. Ahi nova gente. Riprende i malvagi cittadini moderni di Roma. Oltra misura altera. Oltremodo, smisuratamente, altiera. // 11. A tanta ed a tal madre. Cioè a Roma, vostra patria. // 12. Tu marito. Suppliscasi le sei o le hai ad essere. – *Lucano, di Catone: «Urbis pater, urbique maritus.»* // 13. Di tua man. Dalla tua mano. // 14. Il maggior padre. Cioè, il papa, risedente allora in Avignone. Ad altra opera intende. Attende ad altro. Ha in capo altri pensieri.

 

Rade volte addivien ch’a l’alte imprese
Fortuna ingiurïosa non contrasti,
Ch’agli animosi fatti mal s’accorda.
Ora sgombrando il passo onde tu intrasti,
Fammisi perdonar molte altre offese;
Ch’almen qui da sè stessa si discorda:
Però che, quanto ’l mondo si ricorda,
Ad uom mortal non fu aperta la via
Per farsi, come a te, di fama eterno;
Che puoi drizzar, s’i’ non falso discerno,
In stato la più nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
Dir: gli altri l’aitâr giovine e forte;
Questi in vecchiezza la scampò da morte!

 

Verso 1. Addivien. Avviene. // 2. Ingiuriosa. Con ingiuste offese. – *Staz.: «Et sors ingentibus ausis Rara comes.»* // 3. La quale, cioè la Fortuna, è poco amica ai fatti magnanimi: // 4. Pure questa volta, aprendoti la via da venir, come hai fatto, a cotesta autorità del tribunato. Onde. Per cui. Intrasti. Entrasti. // 5. Fa che io le perdoni molte sue male opere. // 6. Poichè almeno in questa cosa ella si mostra diversa da sè medesima, si scosta dalla sua consuetudine. // 7. Perocchè, a memoria d’uomini. // 8-9. Nessuno mai ebbe tale occasione e opportunità di farsi famoso in eterno, siccome è questa che hai tu. // 10-11. Che puoi, se io non m’inganno, riporre in istato, cioè in piede, la più nobile monarchia del mondo, cioè la monarchia romana. – Monarchia. Il tribunato è democratico per natura sua propria; e Cola di Rienzo non pare che volesse rinnovare l’imperio, ma sì piuttosto la repubblica. Perciò alcuni commentatori riprovano l’espressione del P. dicendola inesatta, altri dubitano delle sue opinioni politiche. Può dirsi che monarchia qui significhi il dominio avuto da Roma sul mondo, non la forma sotto la quale cotesto dominio fu esercitato; come se dicesse tu puoi far di nuovo Roma padrona del mondo. [A.] // 13. Dir. Che si dica. Se si dirà. Gli altri. Cioè gli antichi Romani insigni. L’aitâr giovine e forte. Aiutarono questa monarchia quando ella era giovane e forte. // 14. Questi. Cioè Cola di Rienzo. In vecchiezza. In tempo che ella era vecchia.

 

Sopra ’l monte Tarpeo, Canzon, vedrai
Un cavalier ch’Italia tutta onora,
Pensoso più d’altrui che di sè stesso.
Digli: un che non ti vide ancor da presso,
Se non come per fama uom s’innamora,
Dice che Roma ogni ora,
Con gli occhi di dolor bagnati e molli,
Ti chier mercè da tutti sette i colli.

 

Verso 2. Un cavalier. Cioè Cola di Rienzo. Che. Accusativo. // 4. Un. Il Poeta intende di sè stesso. // 5. Vuol dire: ma che è innamorato di te per fama. // 8. Chier. Chiede. Mercè. Pietà.

 

 

SONETTO VIII.

A messer Agapito, pregandolo di ricevere

in sua memoria alcuni piccoli doni.

La guancia, che fu già piangendo stanca,
Riposate su l’un, Signor mio caro;
E siate omai di voi stesso più avaro
A quel crudel che suoi seguaci imbianca;

Con l’altro richiudete da man manca
La strada a’ messi suoi, ch’indi passaro;
Mostrandovi un d’agosto e di gennaro:
Perch’alla lunga via tempo ne manca.

E col terzo bevete un suco d’erba
Che purghe ogni pensier che ’l cor affligge,
Dolce a la fine e nel principio acerba.

Me riponete ove ’l piacer si serba,
Tal ch’i’ non tema del nocchier di Stige;
Se la preghiera mia non è superba.

 

Ad un amico innamorato, o stato innamorato prima, mandandogli in dono certe cose, della cui qualità non abbiamo notizia certa e gl’interpreti non si accordano.

Verso 1. La guancia. La vostra guancia. Piangendo. Dal pianto. A forza di pianto. // 2. Su l’un. Sull’uno di questi doni che io vi mando. // 4. A quel crudel. Ad Amore. Imbianca. Scolora. Fa pallidi e smorti. // 5. Con l’altro. Di questi doni. Da man manca. Cioè dal lato del cuore. // 6. A’ messi suoi. Cioè agli allettamenti, alle seduzioni, di Amore. Indi. Per colà. Cioè per la via del cuore. // 7. Mostrandovi di state e d’inverno uno stesso, sempre conforme a voi stesso. Cioè: serbandovi sempre costante in tenere esclusi dal cuor vostro gli allettamenti di Amore. // 8. Vuol dire perchè a guadagnarci la beatitudine eterna, ci è da far molto, e il tempo che abbiamo è poco. // 9. Col terzo. Col terzo dono. Suco. Succo. Sugo. // 10. Che. La quale erba. Purghe. Purghi. Cioè sgombri dal cuore. // 11. Dipende dal nome erba del verso nono. // 12. Me, Cioè la memoria, il pensiero, di me. Ove ’l piacer si serba. Cioè: nella più cara parte del vostro cuore. // 13. In modo che voi non mi abbiate a dimenticare eziandio per morte.

 

 

SONETTO IX.

Invita le donne e gli amanti a pianger seco

la morte di Cino da Pistoia.

Piangete, donne, e con voi pianga Amore;
Piangete, amanti, per ciascun paese;
Poi che morto è colui che tutto intese
In farvi, mentre visse al mondo, onore.

Io per me prego il mio acerbo dolore
Non sian da lui le lagrime contese,
E mi sia di sospir tanto cortese
Quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime ancor, piangano i versi,
Perchè ’l nostro amoroso messer Cino
Novellamente s’è da noi partito.

Pianga Pistoia e i cittadin perversi,
Chè perduto ànno sì dolce vicino;
E rallegres’il Cielo ov’ello è gito.

 

In morte di Cino poeta da Pistoia.

Verso 1. Catull.: «Lugete, o Veneres, Cupidinesque.»* // 2. Per. In. // 3-4. Tutto intese In farvi. Attese con ogni sua facoltà, con tutto l’animo, a farvi, a procurarvi. Mentre. Finchè. // 5. Per me. Quanto a me. // 6-8. Che non m’impedisca di piangere, e che mi lasci facoltà di sospirare quanto mi è di bisogno a sfogare il cuore. // 11. Novellamente. Di fresco. Testè. // 12. Perversi. Cino era stato cacciato in bando da quei di Pistoia. // 13. Vicino. Sta per popolano, terrazzano. // 14. Rallegresi. Si rallegri. Ello. Egli.

 

 

SONETTO X.

Ad Orso dell’Anguillara, che doleasi

di non poter ritrovarsi ad una giostra.

Orso, al vostro destrier si può ben porre
Un fren, che di suo corso indietro il volga,
Ma ’l cor chi legherà che non si sciolga,
Se brama onore, e ’l suo contrario abborre?

Non sospirate: a lui non si può tôrre
Suo pregio, perch’a voi l’andar si tolga;
Che, come fama pubblica divolga,
Egli è già là, che nullo altro il precorre.

Basti che si ritrove in mezzo ’l campo
Al destinato dì, sotto quell’arme
Che gli dà il tempo, amor, virtute e ’l sangue;

Gridando: d’un gentil desire avvampo
Col signor mio, che non può seguitarme,
E del non esser qui si strugge e langue.

 

Ad Orso dell’Anguillara impedito di andare a una giostra.

Verso 3. Il cor. Il vostro cuore. Che. Sicchè. In modo che. // 4. Il suo contrario. Cioè il contrario dell’onore. // 5. A lui. Al vostro cuore. // 6. Perchè. Quantunque. L’andar. Alla giostra. // 7. Divolga. Divulga. // 8. Vuol dire: voi siete già là col desiderio e coll’animo, e nessun altro cavaliere vi ci ha prevenuto, ci è corso col desiderio e coll’animo prima di voi. Egli. Cioè il vostro cuore. // 9. Che si ritrove. Che esso, cioè il vostro cuore, si ritrovi. // 10. Al. Nel. // 11. Il tempo. L’età giovanile. Virtute. Valore. E ’l sangue. E la nobiltà del sangue. // 12. Gridando, Dipende dalle parole si ritrove del nono verso. D’un gentil desire. Di un nobile desiderio. Cioè del desiderio d’onore. // 13. Col signor mio. Non altrimenti che, come ancora, e così ancora, il signor mio, cioè Orso. Seguitarme. Seguitarmi. // 14. E si strugge e langue dal dolore di non esser qui.

 

 

SONETTO XI.

A Stefano Colonna, perchè segua il corso

di sua vittoria contro gli Orsini.

Vinse Annibal, e non seppe usar poi
Ben la vittorïosa sua ventura;
Però, Signor mio caro, aggiate cura
Che similmente non avvegna a voi.

L’orsa, rabbiosa per gli orsacchi suoi
Che trovaron di maggio aspra pastura,
Rode sè dentro, e i denti e l’unghie indura
Per vendicar suoi danni sopra noi.

Mentre ’l novo dolor dunque l’accora,
Non riponete l’onorata spada,
Anzi seguite là dove vi chiama

Vostra fortuna dritto per la strada
Che vi può dar, dopo la morte ancora
Mille e mill’anni, al mondo onore e fama.

 

Conforta Stefano Colonna a seguitar la vittoria avuta della fazione orsina.

Versi 1-2. E non seppe usar poi Ben. E poi non seppe usar bene. // 3. Aggiate. Abbiate. // 4. Similmente. Il simile. Avvegna. Avvenga. // 5. Intende della casa Orsini e della sua fazione. // 6. Di maggio. La rotta degli Orsini era stata di quel mese. // 7. Rode sè dentro. Si rode internamente. – E i denti e l’unghie indura. È quel d’Orazio: «Currusque et rabiem parat;» ma imitato da gran maestro. [A.] // 8. Sopra noi. Cioè sopra la parte dei Colonnesi. Dipende da vendicar. // 9. Mentre. Finchè. Novo. Recente. Dolor. Della sconfitta. // 11-12. Anzi seguite là dove vi chiama Vostra fortuna. Ma seguite la vostra fortuna là dove ella vi chiama.

 

 

SONETTO XII.

Alla virtù del Malatesta, ch’ei vuol render

immortale, scrivendo in sua lode.

L’aspettata virtù, che ’n voi fioriva
Quando Amor cominciò darvi battaglia,
Produce or frutto che quel fiore agguaglia,
E che mia speme fa venire a riva.

Però mi dice ’l cor ch’io in carte scriva
Cosa onde ’l vostro nome in pregio saglia;
Che ’n nulla parte sì saldo s’intaglia,
Per far di marmo una persona viva.

Credete voi che Cesare o Marcello
O Paulo od African fossin cotali
Per incude già mai nè per martello?

Pandolfo mio, quest’opere son frali
Al lungo andar, ma ’l nostro studio è quello
Che fa per fama gli uomini immortali.

 

A Pandolfo Malatesta, signor di Rimini.

Verso 1. Fioriva. Cioè dava presagio di sè. // 2. Cioè nella vostra giovanezza. Cominciò darvi battaglia. Cominciò a farvi guerra. // 4. E che verifica, adempie, reca ad effetto, la speranza che io aveva di voi. // 6. Onde. Per la quale. Saglia. Salpa. // 7. In nulla parte. Cioè in nessuna materia, in nessuna cosa. Sì saldo. Così saldamente come in carte. // 8. Quando anche una persona si faccia di marmo, cioè si ritragga in marmo, viva, cioè al vivo, al naturale, in modo che ella paia viva. // 10. Paulo. Paolo Emilio. African. Scipione Affricano. Fossin cotali. Fossero, cioè potessero divenir cotali, cioè famosi come sono. // 11. Per simulacri di bronzo o di marmo fabbricati in loro onore. Incude. Incudine. // 12. Quest’opere. Cioè le statue e simili. // 13. Ovid. Eleg. X: «Scindentur vestes, gemmæ frangentur et aurum. Carmina quam tribuent, fama perennis erit.»*

 

 

CANZONE III.

S’è innamorato della Gloria,

perch’essa gli mostrerà la strada della Virtù.

Una donna più bella assai che ’l Sole
E più lucente, e d’altrettanta etade,
Con famosa beltade,
Acerbo ancor, mi trasse a la sua schiera.
Questa in pensieri, in opre ed in parole
(Però ch’è de le cose al mondo rade),
Questa per mille strade
Sempre innanzi mi fu leggiadra, altera:
Solo per lei tornai da quel ch’i’ era,
Poi ch’i’ soffersi gli occhi suoi da presso:
Per suo amor m’er’io messo
A faticosa impresa assai per tempo,
Tal che s’i’ arrivo al desiato porto,
Spero per lei gran tempo
Viver, quand’altri mi terrà per morto.

 

Verso 1. Una donna. Significa la gloria. // 2. E d’altrettanta etade. E antica quanto lui, cioè quanto il sole. // 3. Colla fama della sua bellezza. // 4. Trasse me ancor giovinetto a seguitarla. // 6. Però che. Perocchè. È. Ella è. De le cose. Del numero delle cose. Rado. Raro. // 8. Innanzi mi fu. Mi precorse. Mi guidò. // 9-10. Solo per sua cagione e virtù, dopo ch’io ebbi forza di mirar gli occhi suoi da vicino, tornai, cioè mi cangiai, da quello ch’io era, lasciai la vita vana e torta de’ miei primi anni. // 11. Per suo amor. Per desiderio di gloria. [A.] // 12. A faticosa impresa. Intendono il poema latino dell’Affrica. Assai per tempo. Assai presto. In età fresca assai. // 13. Al desiato porto. A buon fine di quella impresa. // 14. Per lei. Per la detta impresa. // 15. Viver, Nella fama. – Ovid. *«Quum me supremus adusserit ignis, Vivam, parsque mei multa superstes ero.»*

 

Questa mia donna mi menò molti anni
Pien di vaghezza giovenile ardendo,
Sì com’ora io comprendo,
Sol per aver di me più certa prova,
Mostrandomi pur l’ombra o ’l velo o’ panni
Talor di sè, ma ’l viso nascondendo;
Ed io, lasso, credendo
Vederne assai, tutta l’età mia nova
Passai contento, e ’l rimembrar mi giova.
Poi ch’alquanto di lei veggi’ or più innanzi,
I’ dico che pur dianzi,
Qual io non l’avea vista infino allora,
Mi si scoverse; onde mi nacque un ghiaccio
Nel core, ed evvi ancora,
E sarà sempre fin ch’i’ le sia in braccio.

 

Verso 1. Vuol dire che esso per molti anni conobbe solo la gloria passeggiera e apparente, ma non la stabile e vera, conosciuta alla fine da lui poco prima. // 2. Vaghezza. Desiderio. Ardendo. Ardente. Infiammato dell’amor di lei. // 3-4. Solamente, come ora io conosco, per aver più certa esperienza di me. // 5. Mostrandomi. Dipende dalle parole del primo verso della Stanza, mi menò molti anni. Pur. Solo. O’. O i. // 8. Assai. A sufficienza. Nova. Giovanile. // 9. E ’l rimembrar. E il ricordarmene. Mi giova. Mi piace. Mi diletta. – *È quel di Virg.: «et meminisse juvabit.»* // 10. Poichè ora io veggo di lei alquanto più che per lo passato. // 11. Pur dianzi. Testè. Poco fa. // 13. Scoverse. Scoperse, Scoprì. Un ghiaccio. Di maraviglia, spavento, riverenza e smania amorosa. // 15. E sarà. E vi sarà.

 

Ma non mel tolse la paura o ’l gelo;
Chè pur tanta baldanza al mio cor diedi,
Ch’i’ le mi strinsi a’ piedi
Per più dolcezza trar degli occhi suoi:
Ed ella, che rimosso avea già il velo
Dinanzi a’ miei, mi disse: amico, or vedi
Com’io son bella; e chiedi
Quanto par si convenga agli anni tuoi.
Madonna, dissi, già gran tempo in voi
Posi ’l mio amor, ch’io sento or sì infiammato;
Ond’a me, in questo stato,
Altro volere o disvoler m’è tolto.
Con voce allor di sì mirabil tempre,
Rispose, e con un volto,
Che temer e sperar mi farà sempre:

 

Verso 1-2. Ma non ostante la paura e lo smarrimento, io presi pur tanto ardire. // 6. A’ miei. Agli occhi miei. // 8. Par. Pare che. Agli anni tuoi. Alla tua età. // 9. Gran tempo. Da gran tempo addietro. // 12. Altro. Cioè, cosa alcuna. Vuol dire: io non posso avere alcuna volontà propria, altra volontà che la vostra. // 13. Mirabil. Mirabili. Tempre. Qualità. // 14. E con un volto. Suppliscasi tale.

 

Rado fu al mondo, fra così gran turba,
Ch’udendo ragionar del mio valore,
Non si sentisse al core,
Per breve tempo almen, qualche favilla:
Ma l’avversaria mia, che ’l ben perturba,
Tosto la spegne; ond’ogni vertù more,
E regna altro signore,
Che promette una vita più tranquilla.
De la tua mente Amor, che prima aprilla,
Mi dice cose veramente ond’io
Veggio che ’l gran desio
Pur d’onorato fin ti farà degno:
E come già se’ de’ miei rari amici,
Donna vedrai per segno,
Che farà gli occhi tuoi via più felici.

 

Verso 1. Rado. Raro. Fra così gran turba. Fra il tanto numero degli uomini. // 2. Ch’udendo. Chi, alcuno che, udendo. // 4. Qualche favilla. – Di amore verso di me. // 5. L’avversaria mia. La Voluttà, ovvero l’Ignavia, o altra tale. // 7. Altro signore. Intendono l’ozio. // 9-12. Amore, che primo aprì la tua mente, il tuo ingegno, in verità me ne dice cose per le quali io veggo che il gran desiderio che tu hai di un fine onorato, ti farò degno una volta di conseguirlo. // 13-15. E in segno che tu sei già de’ miei amici più cari, io ti vo’ far vedere una donna, la cui vista ti darà più diletto assai che la mia.

 

I’ volea dir: quest’è impossibil cosa;
Quand’ella: or mira, e leva gli occhi un poco,
In più riposto loco
Donna ch’a pochi si mostrò già mai.
Ratto inchinai la fronte vergognosa,
Sentendo novo dentro maggior foco.
Ed ella il prese in gioco,
Dicendo: i’ veggio ben dove tu stai.
Sì come ’l Sol co’ suoi possenti rai
Fa subito sparir ogni altra stella,
Così par or men bella
La vista mia, cui maggior luce preme.
Ma io però da’ miei non ti diparto;
Chè questa e me d’un seme,
Lei davanti e me poi, produsse un parto.

 

Verso. 1. Quest’è impossibil cosa. È impossibile che la vista di altra donna mi piaccia più che la vostra. // 2. Mira, e leva gli occhi un poco. Leva gli occhi un poco, e mira. // 4. Significa la virtù. // 5. Ratto. Tosto, come io l’ebbi veduta. // 6. Dentro. Dentro di me. Foco. Di amore verso quell’altra donna. // 7. Ella. La Gloria. // 8. Dove tu stai. Col pensiero. Coll’animo. Quello che tu pensi, che tu senti, che tu hai nel cuore. // 13. Ma io non lascio perciò di tenerti per seguace ed amico mio. // 14-15. Significa che la vera gloria è compagna dalla virtù. Questa. Questa donna. Cioè la Virtù. D’un seme. Da un medesimo seme. Lei davanti e me poi. Prima lei e poi me. Perchè la gloria vien dietro alla virtù, anzi procede da quella. Un parto. Un medesimo parto.

 

Ruppesi intanto di vergogna il nodo
Ch’a la mia lingua era distretto intorno
Su nel primiero scorno,
Allor quand’io del suo accorger m’accorsi;
E ’ncominciai: s’egli è ver quel ch’i’odo,
Beato il padre e benedetto il giorno
Ch’à di voi ’l mondo adorno,
E tutto ’l tempo ch’a vedervi io corsi!
E se mai da la via dritta mi torsi,
Duolmene forte, assai più ch’i’ non mostro.
Ma se de l’esser vostro
Fossi degno udir più, del desir ardo.
Pensosa mi rispose, e così fiso
Tenne ’l suo dolce sguardo,
Ch’al cor mandò con le parole il viso:

 

Versi 2-4. Che mi si era stretto intorno alla lingua, che mi aveva legata la lingua, in su quella prima confusione che io provai quando mi avvidi che la Gloria s’era avveduta dell’effetto cagionatomi dalla vista della Virtù. Su nel. In sul. // 5. Egli. Voce riempitiva. Quel ch’i’ odo. Questo che voi mi dite. // 7. Cioè che vi ha prodotte al mondo. Adorno. Adornato. // 8. Ch’a vedervi io corsi. Cioè ch’io spesi in seguirvi. // 9. Da la via dritta mi torsi. Lasciai di venir dietro a voi. // 10. Forte. Avverbio. // 11-12. Ma se fussi degno di avere qualche maggior contezza dell’essere di voi due, per me n’ho grandissimo desiderio. // 15. Che. Dipende da così fiso. Al cor mandò. Mi stampò nel cuore. Con le parole. Insieme colle sue parole. Non meno che le sue parole. Il viso. Il suo viso.

 

Siccome piacque al nostro eterno padre,
Ciascuna di noi due nacque immortale.
Miseri! a voi che vale?
Me’ v’era che da noi fosse ’l difetto.
Amate, belle, gioveni e leggiadre
Fummo alcun tempo; ed or siam giunte a tale,
Che costei batte l’ale
Per tornar a l’antico suo ricetto:
I’ per me sono un’ombra: ed or t’ò detto,
Quanto per te sì breve intender puossi.
Poi che i piè suoi fur mossi;
Dicendo: non temer ch’i’ m’allontani,
Di verde lauro una ghirlanda colse,
La qual con le sue mani
Intorno intorno a le mie tempie avvolse.

 

Verso 1. Al nostro eterno padre. Che è Dio. // 3. A voi. A voi mortali. Che vale? Che giova la nostra eccellenza? // 4. Me’. Meglio. V’era. Era per voi. Che da noi fosse ’l difetto. Che il difetto fosse dalla nostra parte. Che noi fossimo meno perfette di quel che siamo; poichè voi non ci curate omai punto. // 5. Gioveni. Giovani. // 16. Alcun tempo. Già un tempo. Già per alcun tempo. A tale. A termini tali. // 7. Costei. La virtù. // 8. A l’antico suo ricetto. Al cielo. // 9. Per me. Quanto a me. // 10. Quanto si poteva dire così in ristretto. Per te. Da te. Puossi. Si può.

 

Canzon, chi tua ragion chiamasse oscura,
Dì: non ò cura, perchè tosto spero
Ch’altro messaggio il vero
Farà in più chiara voce manifesto.
Io venni sol per isvegliare altrui;
Se chi m’impose questo,
Non m’ingannò quand’io partii da lui.

 

Verso 1. Chi. Se qualcuno. Tua ragion. Il tuo tenore, Ovvero, la tua intenzione, il tuo senso. // 2. Non ò cura. Non me ne cale. Non fa caso. // 3. Altro messaggio. Cioè altra canzone, o altra scrittura qualunque, del mio Poeta, sopra lo stesso argomento mio. Il vero. Cioè l’intenzione, il sentimento del Poeta. // 4. In più chiara voce. In più chiaro stile. Con un dir più chiaro. // 5. Per isvegliare altrui. Cioè per precorrere il detto messaggio, e preparare gli animi. // 6-7. Vuol dire: se l’autor mio non cambia proposito, se l’intenzione che egli ebbe quando mi compose, cioè di fare un’altra scrittura sopra il medesimo soggetto, della quale io fossi foriera, non è per rimaner senza esecuzione.

 

 

SONETTO XIII.

A M. Antonio de’ Beccari Ferrarese, per acquetarlo

e farlo certo ch’ei vive ancora.

Quelle pietose rime, in ch’io m’accorsi
Di vostro ingegno e del cortese affetto,
Èbben tanto vigor nel mio cospetto,
Che ratto a questa penna la man porsi,

Per far voi certo che gli estremi morsi
Di quella ch’io con tutto ’l mondo aspetto,
Mai non sentii; ma pur senza sospetto
Infin a l’uscio del suo albergo corsi;

Poi tornai ’ndietro, perch’io vidi scritto
Di sopra ’l limitar, che ’l tempo ancora
Non era giunto, al mio viver prescritto;

Ben ch’io non vi leggessi il dì nè l’ora.
Dunque s’acqueti omai ’l cor vostro afflitto;
E cerchi uom degno quando sì l’onora.

 

A maestro Antonio de’ Beccari da Ferrara, che aveva composta una Canzone sopra la morte, che vociferavasi, del Poeta.

Verso 1. In che. Nelle quali. Dalle quali. // 2. E del cortese affetto. E del vostro cortese affetto verso di me. // 3. Èbben. Ebbero. Nel mio cospetto. Appresso di me. Nell’animo mio. // 4. Ratto. Tosto. // 6. Cioè della Morte. Con tutto ’l mondo. Come tutti gli altri. // 7. Senza sospetto. Senza avvedermene. Senza saperlo. Senza pensarlo. // 8. Cioè: sono stato in punto di morire. Suo. Cioè della Morte. // 10-11. Di sopra ’l limitar. Sopra il limitare. Di sopra dell’uscio. Che ’l tempo ancora Non era giunto, al mio viver prescritto. Che ancor non era giunto il tempo prescritto, cioè il termine destinato al mio vivere. // 12. Il dì nè l’ora. Cioè: quando sarà la mia morte. // 14. Uom degno. Quale non sono io. Quando sì l’onora. Quando vuole onorarlo così come avete onorato me nella vostra Canzone.

 

 

CANZONE IV.

A’ Grandi d’Italia, eccitandoli a liberarla

una volta dalla dura sua schiavitù.

Italia mia, ben che ’l parlar sia indarno
A le piaghe mortali
Che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
Piacemi almen ch’e’ miei sospir sien quali
Spera ’l Tevero e l’Arno,
E ’l Po, dove doglioso e grave or seggio.
Rettor del cielo, i’ cheggio
Che la pietà che ti condusse in terra,
Ti volga al tuo diletto almo paese:
Vedi, Signor cortese,
Di che lievi cagion che crudel guerra;
E i cor, che ’ndura e serra
Marte superbo e fero,
Apri tu, Padre, e ’ntenerisci e snoda;
Ivi fa che ’l tuo vero
(Qual io mi sia) per la mia lingua s’oda.

 

Ai signori d’Italia, onde prendano parte nella crociata di papa Giovanni XXII.

Verso 1. Ben che ’l parlar sia indarno. Benchè le parole siano inutili. – Non possono recar rimedio alle piaghe ec. [A.] // 3. Spesse. Cioè numerose. // 4-6. Piacemi almeno di far quello che la patria ragionevolmente si aspetta da un buono e pietoso figlio, che è di sospirare e rammaricarmi de’ suoi mali. Ch’e’. Che i. E ’l Po, dove. E il Po, in riva al quale. Seggio. Siedo. Abito. Mi trovo. // 7. Cheggio. Chiedo. // 8-9. Che quella misericordia che ti condusse a prender carne umana, ti muova a rimirar con occhio benigno la tua sacra e diletta Italia, sede del principe dei Cristiani. // 11. Da quanto lievi cagioni che guerra crudele ci è nata. // 15. Ivi. In quei cori. Il tuo vero. La verità che da te deriva, di cui tu sei fonte. // 16. Qual io mi sia. Qualunque io mi sia. Quantunque sia poco il mio valore. Per indegno ch’io sia.

 

Voi, cui Fortuna à posto in mano il freno
De le belle contrade,
Di che nulla pietà par che vi stringa,
Che fan qui tante pellegrine spade?
Perchè ’l verde terreno
Del barbarico sangue si dipinga?
Vano error vi lusinga;
Poco vedete, e parvi veder molto;
Chè ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
Colui è più da’ suoi nemici avvolto.
O diluvio raccolto
Di che deserti strani
Per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
Questo n’avvène, or chi fia che ne scampi?

 

Verso 1. Voi. O voi. Vocativo. // 2. De le belle contrade. D’Italia. // 3. Di che. Delle quali. Nulla. Nessuna. // 4. Che hanno a far qui tanti soldati stranieri chiamati da voi? Accenna le genti di Lodovico il Bavaro, chiamate in Italia e prezzolate dai Ghibellini. // 5-6. Volete voi forse o sperate che questi Barbari spargano il loro sangue in servigio vostro? // 7. Qui il verbo lusingare è usato nel suo proprio senso: vi appresenta il falso, che piacendo alla vostra inerzia vi si dipinge per vero. [A.] // 10-11. Qualunque di voi ha maggior copia di questa gente prezzolata, colui ha maggior quantità di nemici dintorno a sè. // 13. Da quali orridi e lontani paesi. // 15. Da le proprie mani. Chiamando noi medesimi i nostri nemici. // 16. N’avvène. Ci avviene. Ne scampi. Ci scampi. Ci salvi.

 

Ben provvide Natura al nostro stato
Quando de l’Alpi schermo
Pose fra noi e la tedesca rabbia;
Ma ’l desir cieco e ’ncontra ’l suo ben fermo
S’è poi tanto ingegnato,
Ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
Fere selvagge e mansuete gregge
S’annidan sì che sempre il miglior geme;
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge,
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì ’l fianco,
Che memoria de l’opra anco non langue,
Quando, assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua, che sangue.

 

Verso 1. Al nostro stato. Allo stato, al ben essere dell’Italia. // 2. De l’Alpi schermo. Il riparo delle Alpi. – *Plin.: «Alpes Italiæ pro muris adversus impetum barbarorum natura dedit.»* // 4. Ma la vostra cupidigia e l’odio e le altre passioni cieche e ostinate contro il proprio bene. // 6. Al corpo sano. D’Italia. // 7. Ora dentro ad una medesima gabbia, cioè in uno stesso paese, che è l’Italia. // 8. Fere selvagge. Vuol dire i soldati tedeschi. Mansuete gregge. Vuol dire gl’Italiani. // 10-11. E per più nostro dolore e scorno, questa gente barbara che ci strazia, è della schiatta di quel popolo senza civiltà e senza governo. // 13. . Sì fattamente. // 14. Che ancora non langue la memoria di quella sconfitta. // 15. Assetato e stanco. Cioè Mario. // 16. Andando al fiume per dissetarsi, non bevve più acqua che sangue. Vuol dire che il fiume fu tutto tinto del sangue dei Barbari. – *L. Flor.: «Eaque cædes hostium fuit, ut victor Romanus de cruento flumine non plus aquæ biberit quam sanguinis.»*

 

Cesare taccio, che per ogni piaggia
Fece l’erbe sanguigne
Di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
Che ’l Cielo in odio n’aggia
Vostra mercè, cui tanto si commise:
Vostre voglie divise
Guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino,
Fastidire il vicino
Povero; e le fortune afflitte e sparte
Perseguire; e ’n disparte
Cercar gente, e gradire
Che sparga ’l sangue e venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
Non per odio d’altrui nè per disprezzo.

 

Verso 1. Cesare taccio. Lasciò star Cesare. Non farò qui parola di Cesare. // 2-3. Fece l’erbe sanguigne Di lor vene. Tinse l’erba del sangue delle loro vene. Nostro. Cioè romano, italiano. // 4. Per che. Per quali. N’aggia. Ci abbia. // 6. Vostra mercè. Grazie a voi. Per grazia, per benefizio vostro. Ironia. Parla ai principi italiani. Cui. Ai quali. Tanto si commise. Fu commesso sì grande incarico, cioè il governo degli Stati d’Italia. // 7. Le vostre inimicizie e discordie. // 8. Mettono a rovina la più bella parte del mondo, cioè l’Italia. // 9. Qual colpa. Di quelli che voi travagliate e perseguitate. Giudicio. Qui significa giudizio divino, condannazione, gastigo, come in quel passo di Dante nel VI del Purgatorio, 100-102: «Giusto giudicio dalle stelle caggia Sovra il tuo sangue, e sia nuovo ed aperto, Tal che il tuo successor temenza n’aggia.» E medesimamente in latino judicium nel proemio delle storie di Tacito: «nec enim unquam atrocioribus populi romani cladibus, magisve justis judiciis» (cioè gastighi mandati dal cielo sopra i colpevoli di esse calamità) «adprobatum est, non esse diis curæ, securitatem nostram, esse ultionem.» Dove chi non ha inteso il passo, ha letto indiciis. // 10-12. Vi spinge a infastidire, a tribolare, il cittadino povero, e perseguire, cioè andar cercando e pigliando per forza, i suoi averi malmenati e dispersi. Vicino. Cittadino. Popolano. In disparte. Di fuori. Fuori d’Italia. // 14. L’alma. La vita. // 15. Per ver dire. Per dire il vero.

 

Nè v’accorgete ancor, per tante prove,
Del bavarico inganno,
Che, alzando il dito, con la morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno.
Ma ’l vostro sangue piove
Più largamente; ch’altra ira vi sferza.
Da la mattina a terza
Di voi pensate, e vederete come
Tien caro altrui chi tien sè così vile.
Latin sangue gentile,
Sgombra da te queste dannose some:
Non fare idolo un nome
Vano, senza suggetto
Chè ’l furor di là su, gente ritrosa,
Vincerne d’intelletto,
Peccato è nostro e non natural cosa.

 

Versi 2-3. Che il Bavaro e la sua gente v’ingannano, i quali, cioè i Bavari, scherzano colla morte alzando il dito, cioè provocandola, come si fa con bestioline, per sollazzo, spingendo innanzi il dito e poi ritirandolo. Vuol dire: non vi accorgete che costoro non fanno altro che fingere alcune volte di venire alle mani coi vostri nemici, di porsi a pericolo, di arrischiar la vita per voi, ma in fatti si tengono sempre in sicuro, e schivano al tutto di combattere, o combattono da burla? // 4. Lo strazio. Cioè il giuoco, lo scherno, che fanno di voi questi Barbari. // 6. Largamente. Copiosamente. Ch’altra ira vi sferza. Cioè: perchè voi siete animati in effetto da ira e da odio, e combattete da vero e per la causa vostra. // 7. Cioè: per un pochetto di tempo. Ovvero, in un’ora che voi siate sobri. // 8-9. Di voi pensate. Pensate alle cose vostre, allo stato vostro. Come Tien caro altrui chi tien sè così vile. Che conto possono tener di voi questi Barbari, quando essi fanno così poca stima di sè medesimi, che vi hanno venduta a prezzo la vita propria. // 10. Parla pure ai Signori d’Italia, ma in particolare a quei della parte ghibellina. // 11. Cioè: lèvati di dosso il peso di questi mercenarii. Ovvero, della vana autorità imperiale. // 12-13. Credono che voglia accennare che il titolo imperiale di Lodovico non fosse legittimo. Io credo piuttosto che intenda in generale di quello che allora si diceva impero romano. Il Poeta fu assai rimoto in questo proposito dalle opinioni di Dante. // 14-15. Che questa ira, questa malignità di lassù, cioè delle stelle, che una gente ritrosa, cioè dura, restia, povera d’intendimento, vinca noi cioè gli Italiani di accortezza ec. Io non trovo altro luogo del nostro Poeta dove l’avverbio là sù, preso in senso figurato, sia posto altrimenti che parlando del cielo. Nondimeno gli altri comentatori spiegano: che l’esser noi vinti di accortezza, dal furore, cioè dalla impetuosità inconsiderata e salvatica di questa gente indocile e rozza di lassù, cioè del settentrione. – Questa seconda è la vera spiegazione, perciò le parole gente ritrosa devono stare tra due virgole. Il prof. Pasqualigo trovò che molti codici leggono: Il furor de la sua gente ritrosa. Non so quanto ci guadagni la poesia, ma come uscita da un passo incerto non si può disprezzare questa variante. [A.] // 16. Peccato è nostro. È colpa nostra.

 

Non è questo il terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo ’l mio nido,
Ove nudrito fui sì dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
Madre benigna e pia,
Che copre l’uno e l’altro mio parente?
Per Dio, questo la mente
Talor vi mova; e con pietà guardate
Le lagrime del popol doloroso,
Che sol da voi riposo,
Dopo Dio, spera: e, pur che voi mostriate
Segno alcun di pietate,
Virtù contro furore
Prenderà l’arme; e fia ’l combatter corto;
Chè l’antico valore
Negl’italici cor non è ancor morto.

 

Verso 1. Il terren ch’i’ toccai pria. Il primo terreno ch’io ho toccato. // 3. Nudrito. Allevato. // 4. La patria in ch’io mi fido. La mia fida patria. – Non è ben chiaro il significato delle parole in ch’io mi fido. Parmi si riferiscano a quel sentimento di sicurezza che l’uomo prova nel proprio paese, e quella fiducia che ciascuno ha di dover trovare protezione dagli uomini fra i quali è nato e cresciuto. Il qual sentimento e la quale fiducia essendo parte non piccola della vita civile, e di quella felicità che può aversi nel mondo, ci devono per gratitudine affezionare alla patria, e ci obbligano ad amarla, onorarla, difenderla. [A.] // 6. Parente. Genitore. // 7. Per Dio. Per amor di Dio. Formula di preghiera. Questo. Questi pensieri. Cioè quelli detti nella presente Stanza fin qui. // 10-11. Che sol da voi riposo, Dopo Dio spera. Che, dopo Dio, non ispera riposo da altri che da voi. Pur che. Purchè. // 13. La virtù italiana contro il furor tedesco. // 14. E fia ’l combatter corto. Vuol dire: e gli Italiani non peneranno molto a ottener la vittoria.

 

Signor, mirate come ’l tempo vola,
E sì come la vita
Fugge, e la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui: pensate a la partita;
Chè l’alma ignuda e sola
Convèn ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle,
Piacciavi porre giù l’odio e lo sdegno,
Venti contrari a la vita serena;
E quel che ’n altrui pena
Tempo si spende, in qualche atto più degno
O di mano o d’ingegno,
In qualche bella lode,
In qualche onesto studio si converta:
Così qua giù si gode,
E la strada del ciel si trova aperta.

 

Verso 1. Signor. Signori. // 2. E sì come. E mirate come. // 3. N’è. Ci è. Sovra le spalle. Imminente. // 4. Qui. Al mondo. A la partita. Alla partenza dal mondo. Alla morte. // 5. Ignuda. Cioè spogliata del corpo. // 6. Convèn. Conviene. Arrive. Arrivi. A quel dubbioso calle. Al passo dell’eternità. // 7. Nel passare che fate per questo mondo. // 8. Porre giù. Deporre. Lasciare. // 10-11. E quel che ’n altrui pena Tempo si spende. E quel tempo che voi spendete, o che voi spendereste, in far male agli altri. Atto. Fatto. Azione. Opera. // 13. In qualche cosa bella e lodevole. // 14. Si converta. Si rivolga. Si adoperi. // 15. Qua giù. In terra.

 

Canzone, io t’ammonisco
Che tua ragion cortesemente dica:
Perchè fra gente altera ir ti conviene,
E le voglie son piene
Già de l’usanza pessima ed antica
Del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
Fra magnanimi pochi, a chi ’l ben piace:
Di’ lor: chi m’assicura?
I’ vo gridando: pace, pace, pace.

 

Verso 2. Tua ragion. Le tue ragioni. Ovvero, i tuoi sentimenti. Accusativo. Dica. Persona seconda. Tu dica. // 4. Le voglie. Cioè gli animi. // 7. Ti avventurerai. // 8. A chi. A cui. // 9. Chi. Chi di voi. M’assicura. Cioè: mi protegge, mi difende, ovvero mi dà cuore che io possa parlare liberamente.

 

 

SONETTO XIV.

Inveisce contro gli scandali che recava

a que’ tempi la corte d’Avignone.

Fiamma dal ciel su le tue trecce piova,
Malvagia, che dal fiume e da le ghiande,
Per l’altru’ impoverir se’ ricca e grande;
Poi che di mal oprar tanto ti giova

Nido di tradimenti, in cui si cova
Quanto mal per lo mondo oggi si spande;
Di vin serva, di letti e di vivande,
In cui lussuria fa l’ultima prova.

Per le camere tue fanciulle e vecchi
Vanno trescando, e Belzebub in mezzo,
Co’ mantici e col foco e con gli specchi.

Già non fostu nudrita in piume al rezzo.
Ma nuda al vento, e scalza fra li stecchi;
Or vivi sì, ch’a Dio ne venga il lezzo.

 

In biasimo della corte di Roma.

Versi 2-3. Che dal fiume e da le ghiande, Per l’altru’ impoverir se’ ricca e grande. Che dal bere acqua alle fontane e dal cibarti di ghiande, cioè da principii poveri e semplici, sei divenuta ricca e grande con far povero altrui. // 4. Poi che. Dipende dal sentimento del primo verso. Ti giova. Ti piace. // 5. Si cova. Cioè si fabbrica, si produce. // 3. Fa l’ultima prova. Fa l’estremo del suo potere, tutto quel che ella può. Dimostra tutta la sua forza, ogni suo effetto. // 10. Trescando. Cioè lascivando insieme. Belzebub. Cioè il diavolo. // 12. Non fostu. Tu non fosti. Nudrita. Allevata. Al rezzo. All’ombra. // 13. Ma in vita povera e dura. // 14. Ora tu vivi in maniera, che io desidero che il puzzo delle tue sozzure giunga insino a Dio.

 

 

SONETTO XV.

Predice a Roma la venuta di un gran personaggio

che la ritornerà all’antica virtù.

L’avara Babilonia à colmo il sacco
D’ira di Dio, e di vizi empi e rei,
Tanto che scoppia; ed à fatti suoi Dei,
Non Giove e Palla, ma Venere e Bacco.

Aspettando ragion mi struggo e fiacco:
Ma pur novo soldan veggio per lei,
Lo qual farà, non già, quand’io vorrei,
Sol una sede; e quella fia in Baldacco.

Gl’idoli suoi saranno in terra sparsi,
E le torri superbe, al Ciel nemiche;
E suoi torrier di for, come dentro arsi.

Anime belle e di virtute amiche
Terranno ’l mondo; e poi vedrem lui farsi
Aureo tutto e pien de l’opre antiche.

 

Verso 1. Avara. Avida. Babilonia. Avignone, o la corte romana, che allora risedeva in quella città. La chiama Babilonia con figura tratta, ad esempio, di Dante, dall’Apocalissi di san Giovanni. À colmo il sacco. Ha già empiuto il sacco. // 2. Dipende dalle parole ha colmo. Vuol dire che la corte romana ha già tocco il sommo della perversità. // 3. Tanto che scoppia. Cioè il sacco. Dipende altresì dalle parole à colmo. // 5. Vuol dire: ardo di desiderio di veder giustizia e vendetta di tanta malvagità. E fiacco. E mi fiacco, cioè mi stanco. // 6-8. Il dottor Nott, letterato inglese, che ha pubblicato in Inghilterra un’edizione critica dei versi dall’antico Spencer, e che nel 1832 diede alla luce in Firenze L’avventuroso Ciciliano, scrittura toscana del trecento, non più stampata; in una lettera che m’indirizzò nel 1831 a Roma, propose di questi versi, che nella prima edizione del presente Comento io non aveva potuto spiegare, un’interpretazione, che credo verissima; ed è questa: Il poeta perseverando sempre nella prima figura, come ha chiamato Avignone col nome di Babilonia, così dinota con quello di soldano o sultano il papa, o Roma con quello di Baldacco, cioè di Bagdad, ultima e stabile sedia de’ califfi, cioè vicari di Maometto, e capi della religione maomettana. E dico che verrà un nuovo soldano, cioè un nuovo papa (dove io credo che intenda qualcuno de’ suoi Colonnesi), il quale farà una sola sede, lasciando Babilonia, cioè Avignone, e tornando a formare la residenza sua e de’ successori in Bagdad, cioè in Roma. Non già, quand’io vorrei. Non così presto come io vorrei. Quella. Si riferisce a sede. // 9. Suoi. Di Babilonia. // 10. E le torri superbe. E saranno sparse in terra, cioè atterrate, le sue torri superbe, cioè i suoi palazzi magnifici. // 12. E i guardiani o gli abitatori di quelle torri, cioè i signori di quei palagi, saranno arsi dal fuoco di fuori, come essi sono arsi dentro dalla concupiscenza. // 13. Terranno. Possederanno. Signoreggeranno. Governeranno. Lui. Cioè il mondo. Farsi. Divenire.

 

 

SONETTO XVI.

Attribuisce la reità della corte di Roma

alle donazioni fattele da Costantino.

Fontana di dolore, albergo d’ira,
Scola d’errori, e tempio d’eresia;
Già Roma, or Babilonia falsa e ria,
Per cui tanto si piagne e si sospira:

O fucina d’inganni, o prigion dira,
Ove ’l ben more, e ’l mal si nutre e cria;
Di vivi inferno; in gran miracol fia
Se Cristo teco al fine non s’adira.

Fondata in casta ed umil povertate,
Contra tuoi fondatori alzi le corna,
Putta sfacciata; e dov’ài posto spene?

Negli adulteri tuoi, ne le mal nate
Ricchezze tante? or Constantin non torna;
Ma tolga il mondo tristo che ’l sostène.

 

Verso 3. Già Roma, or Babilonia. Cioè: Roma per lo passato, ed ora Avignone, divenuto Babilonia di malvagità. // 6. E cria. E si cria, cioè si crea, si genera, si produce. // 10. Contra tuoi. Contra i tuoi. // 11. Dove. In che cosa. // 12. Negli adulteri tuoi. Intende dei malvagi Ecclesiastici. // 13-14. Or Constantin non torna; Ma tolga il mondo tristo che ’l sostène. Di questo luogo disperato da tutti i commentatori un giovane assai letterato in Firenze mi propose un’interpretazione ingegnosa molto, la quale io non ardisco nè abbracciare nè rifiutare, ma non mancherò di riferirla. Ricordava egli quei versi di Dante sopra Vanni Fucci nel XXV dell’Inf. 1-3: «Al fine delle sue parole il ladro Le mani alzò con ambedue le fiche, Gridando: Togli, Dio, che a te le squadro.» Dove il verbo togli, che non regge alcun caso espresso, significa: pigliati queste fiche che io ti fo sul viso: maniera di estrema contumelia. Congetturava dunque che il presente luogo debba presupporsi accompagnato da quell’atto di cui parla Dante, o da qualche figura che in sul foglio stesso lo rappresenti; e che il senso sia questo: ora Costantino non può tornare in sulla terra, e ritorsi le ricchezze che ti donò, come credo certo che farebbe se ritornasse; ma il mondo vile e dappoco, che sostiene, cioè sopporta, tanta tua scelleratezza, tolga, cioè piglisi queste fiche. La qualità satirica del Sonetto, e la materia sua scandalosa, potrebbero scusare la stravaganza di questo modo di scrivere, il quale non sarebbe però senza qualche esempio antico. – Io senza queste fiche, che non si sa di dove l’escano, intenderei così: Or Costantino non torna a vedere i mali effetti della sua liberalità; nè può correggerli; ma il mondo vile, che gli vede e gli soffre, se gli abbia, chè ben gli sta. [L.]

 

 

SONETTO XVII.

Lontano da’ suoi amici, vola tra lor col pensiero,

e vi si arresta col cuore.

Quanto più disïose l’ali spando
Verso di voi, o dolce schiera amica,
Tanto Fortuna con più visco intrica
Il mio volare, e gir mi face errando.

Il cor, che mal suo grado attorno mando,
È con voi sempre in quella valle aprica,
Ove ’l mar nostro più la terra implica.
L’altr’ier da lui parti’ mi lagrimando;

I’ da man manca, e’ tenne il cammin dritto,
I’ tratto a forza; ed e’ d’Amore scorto;
Egli in Gerusalem, ed io in Egitto.

Ma sofferenza è nel dolor conforto;
Chè per lungo uso, già fra noi prescritto,
Il nostro esser insieme è raro e corto.

 

Verso 1-4. Vuol dire: amici miei cari, quanto più io desidero di esser con voi, tanto più la fortuna me lo impedisce, e mi sforza di andare pellegrinando. Tanto… con più visco. Con tanto più vischio. Face. Fa. // 5. Il cor. Il mio cuore. Suo. Della fortuna. Attorno. Cioè fuori di me in cerca di voi. // 6-7. In quella valle aprica. Ove ’l mar nostro più la terra implica. Il Castelvetro pensa che voglia dir di Venezia. // 8. Da lui. Cioè dal mio cuore, che è con voi, che è ritornato a star con voi. Parti’ mi. Mi partii. // 9. I’ da man manca. Io tenni il cammino da man manca. E’. Cioè il mio cuore. Dritto. Da man ritta. // 10. A forza. Per forza. Violentemente. D’Amore. Da Amore. Cioè dall’amor di voi. Scorto. Condotto. // 11. Egli verso un luogo di libertà, ed io verso un luogo di schiavitù, che dovrebbe essere Avignone. // 12. Sofferenza. Pazienza. – *Seneca: «Cuivis dolori remedium est patientia.»* // 13. Fra noi. Cioè fra il mio cuore e me. Prescritto. Cioè stabilito, inveterato.

 

 

SONETTO XVIII.

Dichiara che s’e’ avesse continuato nello studio,

avrebbe ora la fama di gran poeta.

S’io fossi stato fermo a la spelunca
Là dove Apollo diventò profeta,
Fiorenza avria fors’oggi il suo poeta,
Non pur Verona e Mantoa ed Arunca:

Ma perchè ’l mio terren più non s’ingiunta
De l’umor di quel sasso, altro pianeta
Convèn ch’i’ segua, e del mio campo mieta
Lappole e stecchi con la falce adunca.

L’oliva è secca, ed è rivolta altrove
L’acqua che di Parnaso si deriva,
Per cui in alcun tempo ella fioriva.

Così sventura ovver colpa mi priva
D’ogni buon frutto; se l’eterno Giove
De la sua grazia sopra me non piove.

 

Versi 1-2. Se io avessi perseverato negli studi della poesia. A la spelunca. Alla spelonca delfica. Là dove. Dove. Alla quale. – *Lucan.: «Incubuitque adyto vates ibi factus Apollo.»* // 3. Fiorenza. Mia patria. // 4. Come lo hanno Verona, Mantova ed Arunca; la prima Catullo, la seconda Virgilio, l’altra Lucilio. Non pur. Non solamente. // 5. Il mio terren. Vuol dire il mio ingegno. Non s’ingiunta. Non si asperge. Non s’innaffia. Non è asperso, innaffiato. Veggasi la quarta canzone della prima parte, stanza terza, verso nono. // 6. De l’umor di quel sasso. Dell’acqua del fonte castalio. – Altro pianeta. Altro destino. // 9. L’oliva. L’albero di Pallade. Vuol dire: la mia scienza. // 11. Per cui. Per la quale acqua. In alcun tempo. Già un tempo. Già in altro tempo. Ella. Cioè l’oliva. // 12-13. Sventura ovver colpa. Mia sventura, o colpa mia o d’altri. Mi priva D’ogni buon frutto. M’impedisce di fare alcun frutto buono. L’eterno Giove. Il vero Giove. Cioè Dio.

 

 

SONETTO XIX.

De’ gravi danni recati dall’ira non frenata,

su gli esempi d’uomini illustri.

Vincitor Alessandro l’ira vinse,
E fel minore in parte che Filippo:
Che li val se Pirgotele o Lisippo
L’intagliâr solo, ed Apelle il dipinse?

L’ira Tideo a tal rabbia sospinse,
Che morendo ei si rose Menalippo:
L’ira cieco del tutto, non pur lippo,
Fatto avea Silla; a l’ultimo l’estinse.

Sal Valentinïan, ch’a simil pena
Ira conduce; e sal quei che ne more,
Aiace, in molti e po’ in sè stesso forte.

Ira è breve furor; e chi nol frena,
È furor lungo, che ’l suo possessore
Spesso a vergogna, e tal or mena a morte.

 

Verso 1. L’ira vinse il vittorioso Alessandro. – *Solino: «Victor omnium vino et ira victus.»* // 2. E lo fece inferiore in parte a Filippo suo padre. Fel. Fecelo. Lo fece. // 3-4. Che li val. Che gli vale. Che giova alla sua riputazione macchiata dagli effetti della sua iracondia. Se Pirgotele o Lisippo L’intagliâr solo. Se soli Pirgotele e Lisippo, intagliatori eccellenti, l’intagliarono, cioè lo ritrassero in marmo e in bronzo. Ed Apelle. Ed Apelle solo. // 7. Non pur. Non solo. Non che. // 8. A l’ultimo. E finalmente. // 9. Sal. Sallo. Che. Il quale. Accusativo. A simil pena. Cioè a morte. // 10-11. E sal quei che ne more, Aiace. E sallo Aiace, che ne muore, cioè che morì per ira. In molti e po’ in sè stesso forte. Il quale rivolse, uccidendosi, contro sè stesso quella mano ch’avea dato morte a tanti altri. // 12. Furor. Insania. Pazzia. E chi. E se uno. // 13. Il suo possessore. Cioè l’adirato o l’iracondo.

 

 

SONETTO XX.

Ringrazia Giacomo Colonna

de’ suoi sentimenti affettuosi verso di lui.

Mai non vedranno le mie luci asciutte,
Con le parti de l’animo tranquille,
Quelle note, ov’Amor par che sfaville,
E pietà di sua man l’abbia costrutte;

Spirto già invitto a le terrene lutte
Ch’or su dal Ciel tanta dolcezza stille,
Ch’a lo stile onde Morte dipartille,
Le disviate rime hai ricondutte.

Di mie tenere frondi altro lavoro
Credea mostrarte. E qual fero pianeta
Ne ’nvidiò insieme, o mio nobil tesoro?

Chi ’nnanzi tempo mi t’asconde e vieta?
Che col cor veggio, e con la lingua onoro,
E ’n te, dolce sospir, l’alma s’acqueta.

 

Risposta a un Sonetto di Giacomo Colonna, fatta dopo la morte di quello.

Verso 1-2. Io non vedrò mai cogli occhi asciutti nè coll’animo tranquillo, cioè senza piangere e senza commozione d’animo. // 3. Quelle note. Cioè quel tuo Sonetto. Sfaville. Sfavilli. // 4. E pietà. E pare che pietà. // 5. A le. Nelle. Lutte. Lotte. Battaglie. // 6. Su. Di lassù. Stille. Stilli. // 7-8. Vuol dire: che mi fai ripigliar l’usanza del poetare, tralasciata da me per la morte di Laura. Che. Dipende dalle parole del verso innanzi, tanta dolcezza. Onde. Dal quale. Le disviate rime. Suppliscasi mie. Ricondutte. Ricondotte. // 9. Di mie tenere frondi. Cioè della mia facoltà poetica. Forse vuole accennare la sua incoronazione fatta in Campidoglio, della quale il Colonna nel suo Sonetto congratulavasi col Poeta. Altro lavoro. Altro prodotto, altro frutto, che queste presenti rime, questo mio Sonetto tristo. Pare che il Poeta voglia dare ad intendere che egli avesse avuto in animo, mentre il Colonna era vivo, di fare qualche componimento poetico in sua lode; e che questo si accenni altresì nelle parole dell’undecimo verso, ne ’nvidiò insieme. // 10. Credea. Io credeva. Io sperava. Mostrarte. Mostrarti. Pianeta. Destino. // 11. Ne ’nvidiò insieme. Ebbe parimente invidia a noi due, a te e a me. // 12. Innanzi tempo. Prima del tempo. // 13. Che. Relativo del nome tesoro, oppure del pronome ti del verso di sopra, o del te del verso qui appresso. // 14. Dolce sospir. Vocativo. Mio dolce sospiro. Cioè mio desiderio; mio doloroso amore. Così chiama il Colonna morto. L’alma. L’alma mia.

Fine.

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