L’idea che l’arte abbia a che fare con la “finzione” è comune e molto diffusa, in particolare in riferimento ad alcune arti, come il cinema.
“Non aver paura, è solo un film!”, una delle frasi più consuete.
Quello di finzione è un concetto molto particolare ed interessante ed infatti ha stimolato le riflessioni di molti, sia in campo artistico che filosofico.
Anche l’estetica analitica, di cui ho più volte scritto in questo blog, ha analizzato questo concetto.
Per approcciare a queste ricerche utilizzo un testo di John Roger Searle del 1979: Lo statuto logico del discorso di finzione [Searle, John Roger, The logical Status of Fictional Discourse, in Id., Expression and Meaning: Studies in the Theory of Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge 1979, pp. 58-75; trad. it. Lo statuto logico del discorso di finzione, in S. Chiodo, a cura di, Che cosa è arte, cit.].
Searle analizza la finzione con particolare riferimento alla letteratura. Finzione e letteratura sono, nella proposta di Searle, due concetti molto simili. Talmente simili che l’autore decide distinguerli esplicitamente per evitare che venga fatta confusione tra i due.
Tale confusione tra finzione e letteratura potrebbe nascere dal fatto che quasi tutte le opere letterarie sono opere di finzione.
Esistono tuttavia molti casi di opere che sono letteratura senza essere finzione (ad esempio A sangue freddo di Truman Capote) e viceversa opere di finzione che non sono opere letterarie (come i libri umoristici).
L’uso comune dei due termini contribuisce a chiarire la distinzione, affermare ad esempio che la Bibbia è un’opera letteraria è una affermazione che non crea problematiche teologiche, affermare che essa è un’opera di finzione è invece cosa diversa, che difficilmente può essere accettata da chi ritiene la Bibbia un testo sacro. In particolare, sottolinea Searle:
Parlando grossolanamente, se un’opera è letteratura o no deve essere deciso dai lettori, se è finzione o no deve essere deciso dall’autore.
[Ivi, p. 161]
A più riprese in questo testo Searle afferma che la finzionalità di un’opera di finzione dipende dall’esplicita intenzione dell’autore.
Proseguendo la sua trattazione Searle distingue la finzione dalla menzogna, non c’è infatti, abbastanza palesemente, alcun inganno nelle opere di finzione.
Quel che distingue la finzione dalla menzogna è l’esistenza di un insieme separato di convenzioni che rendono l’autore in grado di dare mostra di fare affermazioni che sa non essere vere, anche se non ha intenzione di ingannare
[Ivi, p. 167]
Fatte queste considerazioni, Searle passa a confrontare due testi, uno di finzione, e uno non di finzione. Il primo è tratto da un articolo del New York Times a firma di Eileen Shanahan in cui l’autrice racconta del rifiuto di alcuni ufficiali di governo americani di approvare una proposta di Nixon riguardante le tasse sulla proprietà (testo, chiaramente, non di finzione). Il secondo è tratto dal romanzo Il rosso e il verde di Iris Murdoch (testo invece di finzione).
In entrambi questi brani, nota Searle, sembra che le autrici stiano compiendo delle asserzioni i cui significati vanno colti in senso letterale. Eileen Shanahan nel suo articolo sta facendo delle asserzioni, esattamente come Iris Murdoch nel suo romanzo. Cosa ci permette di distinguere un testo di finzione da uno di non finzione?
Se pure è vero che entrambe le autrici asseriscono qualcosa, tuttavia, secondo Searle, lo fanno in modo diverso.
Nell’articolo di giornale Eileen Shanahan sta facendo delle asserzioni nel senso di atti illocutivi conformi ad alcune regole;
Per capire cosa siano gli “atti illocutivi”, possiamo farci aiutare da un altro filosofo analitico, Kendall Walton che spiega questa nozione così:
Le teorie degli atti linguistici cercano di comprendere il linguaggio fondamentalmente in termini di azioni che i parlanti compiono piuttosto che di proprietà di parole o di enunciati. Le espressioni linguistiche sono considerate come essenzialmente veicoli delle azioni dei parlanti; le loro proprietà salienti, come che possiedono determinati significati, sono spiegate nei termini dei loro ruoli in tali azioni.
[K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 113]
Eileen Shanahan quindi, secondo Searle, sta facendo delle asserzioni (intese come atti illocutivi) seguendo delle regole. Tali regole la obbligano a mantenere nel suo testo un legame tra quello che scrive e la verità. Queste regole vengono così sintetizzate da Searle:
[J. R. Searle, Lo statuto logico del discorso di finzione, cit., p. 163.]
- la regola essenziale: chi fa un’asserzione assume un impegno con la verità della proposizione espressa;
- le regole preparatorie: il parlante deve essere in grado di fornire prove o ragioni della verità della proposizione espressa
- la proposizione espressa non deve essere evidentemente vera sia per il parlante sia per l’ascoltatore nel contesto espressivo;
- la regola della sincerità: il parlante assume un impegno con la credenza nella verità della proposizione espressa
Se l’articolo della Shanahan violasse queste regole ci troveremmo o di fronte ad un errore della giornalista o, peggio, di fronte ad un tentativo di inganno. Questo perché un giornalista, secondo Searle, deve rispettare la relazione tra le parole ed il mondo (gli eventi accaduti nel mondo). Esiste una correlazione tra linguaggio e realtà che il giornalista dovrebbe rispettare.
Il brano della Murdoch invece non rispetta nessuna di queste regole, e tuttavia accusare l’autrice di errore o di inganno sarebbe assurdo.
Il testo della Murdoch è infatti un testo di finzione in cui un’insieme di convenzioni sospendono la correlazione tra mondo e linguaggio:
Nella nostra discussione sul passo di Eileen Shanahan tratto dal «New York Times» abbiamo specificato un insieme di regole, il rispetto delle quali rende la sua espressione un’asserzione (sincera e non difettosa). Credo sia utile pensare a queste regole come a regole che correlano le parole (o le sentenze) al mondo, cioè regole verticali che stabiliscono connessione tra il linguaggio e la realtà. Quel che rende possibile la finzione, credo, è un insieme di convenzioni non linguistiche e non semantiche che rompono la connessione tra le parole e il mondo stabilita dalle regole ricordate prima
[Ivi, pp. 166-167]
Nella finzione ciò che accade è che «l’autore di un’opera di finzione finge di compiere una serie di atti illocutivi, che di norma sono del genere assertivo» [Ivi, p. 166]. Fingere, come detto, non va inteso nel senso di ingannare, ma di «fare come se si stesse facendo o si fosse la cosa detta» [Ibidem].
A questo punto diviene chiaro il perché l’intenzione dell’autore di un’opera di finzione diventa fondamentale. Non comprendere l’intenzione dell’autore significherebbe non riuscire neanche a distinguere un romanzo da un articolo di giornale. Inoltre “fingere” è un verbo intrinsecamente intenzionale poichè, secondo Searle, non si può fingere senza sapere di farlo.
Continuando la sua analisi Searle sottolinea una caratteristica interessante del fingere:
E’ una caratteristica generale del concetto di fingere il fatto di poter fingere di fare un’azione complessa o di ordine più alto facendo, in realtà, azioni meno complesse o di ordine più basso, che sono parti costitutive dell’azione complessa o di ordine più alto. […] L’autore finge di fare atti illocutivi esprimendo (scrivendo) realmente sentenze.
[Ivi, pp. 167-168]
Le convenzioni orizzontali che interrompono la correlazione tra linguaggio e mondo vanno in qualche modo “invocate”, attraverso degli atti reali. Alcuni testi, come i testi drammatici a teatro, sono testi molto particolari che mettono in luce questa caratteristica del fingere. Essi infatti si riferiscono sia ai gesti che realmente devono fare gli attori, o alle scene che realmente devono essere allestite, che ai discorsi di finzione che i personaggi devono recitare.
Il copione di una commedia, per molti versi, più che un testo di finzione è una «ricetta per la finzione» [Ivi, p. 169], una serie di indicazioni che serve a rendere attuali le convenzioni orizzontali, sospendendo il legame verticale tra linguaggio e realtà.
Searle si rivolge quindi ad analizzare alcuni problemi riguardanti l’ontologia di un’opera di finzione.
Un importante assioma, l’assioma di esistenza, afferma che c’è riferimento solo se c’è un’esistenza ad agire da riferimento. Detto in altri termini ci si può riferire solo a ciò che esiste. Nella finzione però, come descritta da Searle, il legame tra il linguaggio e il mondo è sospeso, quindi, i personaggi di finzione possono non esistere. Per fare un esempio, visto che Sherlock Holmes non esiste, se l’assioma di esistenza valesse anche per la finzione, non ci potrebbe essere riferimento a Sherlock Holmes. Cosa che invece avviene di frequente.
Searle deve quindi in qualche modo salvare il riferimento nelle opere di finzione svincolando tuttavia il riferimento di finzione da un’esistenza ontologicamente intesa.
Ecco come risolve la questione Searle:
E’ il riferimento finto, che crea sia il personaggio di finzione sia la finzione condivisa[…]. La struttura logica di tutto questo è complicata, ma non è opaca. Fingendo di fare un riferimento a (e di raccontare le avventure di) una persona, Iris Murdoch crea un personaggio di finzione. Osserviamo però che non si riferisce realmente a un personaggio di finzione, perché un personaggio del genere prima non esisteva. Piuttosto fingendo di riferirsi a una persona, crea una persona di finzione. Una volta che il personaggio di finzione è stato creato, chi sta al di fuori della storia di finzione può riferirsi realmente a una persona di finzione.
[Ivi, pp. 170-171]
Searle scioglie il nodo avvalendosi della capacità dell’autore di creare intenzionalmente dei personaggi di finzione «fingendo di fare un riferimento».
Altra caratteristica interessante del discorso di finzione è quella di poter fare, oltre che riferimenti di finzione, anche riferimenti reali, e di mescolare riferimenti di finzione e riferimenti reali nella stessa opera di finzione.
Tipicamente le città in cui si svolgono le vicende di un romanzo si riferiscono a città reali, non a città immaginarie.
Il ruolo cruciale nella finzione è dunque svolto dall’immaginazione, sia da parte dell’autore, che da parte di chi “accetta” le opere di finzione. Searle non manca di sottolinearlo nella conclusione:
L’analisi precedente lascia una domanda essenziale senza risposta: perché preoccuparci? Perché occuparci con tanta attenzione dei testi che contengono in larga parte finti atti di discorso? Il lettore che ha seguito la mia argomentazione fino a qui non si sorprenderà di sentire che non credo che esista alcuna risposta semplice o unica alla domanda. Parte della risposta avrebbe a che fare con il ruolo cruciale, di solito sottostimato, che l’immaginazione ha nella vita umana e con il ruolo ugualmente cruciale che i prodotti comuni dell’immaginazione giocano nell’umana vita sociale.
[Ivi, pp. 172-173]
Simona Chiodo sottolinea come l’intera trattazione teorica di Searle abbia delle notevoli conseguenze per quel che riguarda il ruolo gnoseologico dell’immaginazione. Separando immaginazione ed ontologia infatti Searle porta l’analisi della finzione e dell’immaginazione in un piano in cui essa non può avere una funzione gnoseologica. Per sintetizzare si potrebbe dire che da una parte vi sono realtà e mondo, dall’altra immaginazione e finzione.