L’idea di finzione artistica proposta da Margolis

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Una scena di “Avatar” di James Cameron

Sempre avvalendoci delle riflessioni dell’estetica analitica, abbiamo iniziato ad approcciare alla “finzione”, una parola che ha un ruolo importante in estetica, ed anche una sua rilevanza nella pratica artistica.

In un articolo precedente abbiamo visto le argomentazioni di Searle contenute in Lo statuto logico del discorso di finzione.

La stessa strada di separazione della finzione e dell’immaginazione dalla realtà e dal mondo, che abbiamo notato nel saggio di Searle, viene seguita da Margolis e come vedremo, da Walton.

Il saggio di Margolis che stiamo per analizzare, Verità e riferimento di finzione [Margolis, Joseph, Art and Philosophy: Conceptual Issues in Philosophy, Harvester Press, Brighton 1980, pp. 253-260, 262, 278-279, trad. it. Verità e riferimento di finzione, in S. Chiodo, a cura di, Che cosa è arte, cit..], parte dalla questione del riferimento di finzione, che abbiamo già toccato parlando dell’articolo sulla finzione di Searle. Per riferimento di finzione si intende la possibilità di riferirsi a qualcosa di esistente solo nella finzione di un’opera (l’astronave di Star Trek, per fare un esempio tra i tanti possibili). Margolis chiarisce come la questione del riferimento di finzione non sia in realtà la domanda centrale.

La possibilità del riferimento di finzione si basa infatti sulla possibilità di immaginare cose che non esistono e che non possono esistere:

se ammettiamo di poter immaginare un mondo esistente anche se sappiamo che non esiste, allora non possiamo negare di poterci riferire a cose che si trovano all’interno del mondo immaginato. Perché anche se immaginiamo che qualcosa dà origine a un certo predicato, avremo bisogno, per esigenze grammaticali, di riferirci a quel caso immaginato. La domanda critica non è se possiamo riferirci a quel che non esiste, ma se possiamo immaginare che esistono cose che non esistono e che non possono esistere: quelli che negano che possiamo riferirci a quel che non esiste devono negare che possiamo immaginare che esistono cose che non esistono e che non possono esistere – cosa che è chiaramente insostenibile.
[Ivi, p. 184]

Il passaggio è quindi dal piano dell’esistenza al piano dell’immaginazione e in particolare al piano della grammatica del discorso fatto su ciò che viene immaginato. In questa prospettiva «il peso si sposta, comunque, sulle presupposizioni di esistenza del nostro discorso» [Ivi, p. 182].

Margolis raccomanda quindi di trattare il riferimento di finzione come una «distinzione grammaticale che non ha alcun significato ontico» [Ivi, p. 183], quel che cambia tra un riferimento reale ed uno di finzione è l’oggetto delle parole di chi fa il riferimento. In un caso è un oggetto del mondo reale, nell’altro un “oggetto” dell’immaginazione. A creare il mondo di finzione è il potere «naturante» del linguaggio:

Qual è la natura dell’uso specifico del linguaggio di finzione? Qui penso a un’analogia tratta dalla tradizione filosofica (Spinoza, ad esempio) – cioè quella della relazione tra la natura naturante e la natura naturata. Un mondo di finzione deve in primo luogo essere creato allo scopo di ottenere un riferimento al suo interno – cioè non costruito realmente ma immaginato: un mondo del genere è «creato» dal potere «naturante» del linguaggio. L’uso finzionale del linguaggio, allora, non può essere referenziale, perché da principio, crea il mondo di creature e di eventi in riferimento ai quali un linguaggio può essere successivamente usato
[Ibidem]

Per questi motivi Margolis nega che i mondi di finzione siano dei mondi reali o dei mondi possibili. Lo stesso, da una prospettiva in parte diversa, sosterrà Walton, condividendo anche l’idea che l’analisi dell’immaginazione debba tener conto della finzione ed esser invece separata sia dall’ontologia che dalla gnoseologia:

Margolis e Searle separano l’immaginazione dall’ontologia (e dalla verità): un atto di immaginazione non significa un’esistenza possibile. E il destino che qui ha l’immaginazione è, ancora, il sintomo di una visione gnoseologica non epistemica, che, nella contemporaneità, prende la strada contraria alla fenomenologia di Husserl, che segue Kant e che fa dell’immaginazione il meccanismo di sintesi del presente e dell’assente, cioè dell’attuale e del possibile. La tradizione analitica, al contrario, non riconosce all’immaginazione l’esercizio di unificazione dei dati dell’esperienza sensibile e separa dall’άisthesis atti immaginativi che sono composizioni logiche senza ontologie attuali o possibili
[S. Chiodo, Introduzione a Che cosa è arte, cit., p. LVI]

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