Hanno visto la luce e hanno fatto la rivoluzione. Qualche riga sull’origine dell’impressionismo

Sono molto legato a un passo di un saggio di Lionello Venturi che lessi al liceo. Poche righe capaci di riassumere la nascita dell’impressionismo in modo chiaro e molto stimolante:

L’origine dell’impressionismo può essere delineata in una maniera leggendaria benché esatta. Negli anni immediatamente precedenti al 1870 tre giovani, Monet, Renoir e Pissarro presero l’abitudine di andare a sedersi sulle sponde della Senna e dell’Oise per dipingere paesaggi. Erano pittori realisti, cui interessava moltissimo rendere i riflessi della luce sull’acqua, riflessi che apparivano come un moto continuo e infondevano all’acqua una vitalità nuova. Inoltre i molteplici colori scoperti nei riflessi suggerirono loro l’idea di esprimere la luce attraverso l’opposizione dei colori senza usare i toni scuri per le ombre. In tal modo inconsapevolmente schiarirono la loro tavolozza, e divisero i colori senza conoscere la teoria dei complementari. Per qualche tempo dipinsero, in questa nuova maniera, l’acqua e, nella vecchia tradizionale maniera realistica, le colline, gli alberi, le case e il cielo. Però sulle tele rimaneva la traccia di questa discordanza. Per evitare questo errore essi si provarono a ritrarre ogni cosa, anche la figura umana, con lo stesso metodo con il quale avevano dipinto l’acqua, e guardarono ogni immagine non sotto l’aspetto della forma astratta, non sotto l’aspetto del chiaroscuro, ma in relazione ai riflessi di luce, reali o immaginari. Avevano trascelto soltanto un elemento della realtà, la luce, per interpretare tutta la natura. Ma al tempo stesso la luce cessava di essere un elemento della realtà. Era diventato un principio di stile, e l’impressionismo era nato.

Claude Monet - Impression, soleil levant
Monet, Impression, soleil levant, 1872

Rileggo: avevano trascelto soltanto un elemento della realtàma al tempo stesso la luce cessava di essere un elemento della realtà.

E’ racchiuso in questo movimento il fascino che hanno per me gli Impressionisti: avvicinandosi alla realtà trovano la libertà per allontanarsene. Venturi chiarisce bene quanto questa scelta di abbandonare il paradigma della mimesi fosse sentita in quel periodo non solo dagli Impressionisti. Poco più avanti ricorda infatti la presa di posizione di Zola, che del Salon del 1865 ammirò le opere di Manet e Pissarro, criticando invece quelle di Courbet. Zola “dichiara espressamente di attendersi da un artista che esprima la propria personalità e il proprio temperamento, e non che riproduca la realtà”.

Venturi interpreta l’opera degli impressionisti come rappresentazione; non più, però, rappresentazione della realtà, ma dell’apparenza della realtà.

Da questa idea dell’apparenza, il critico arriva poi alla celebre – e per me terribile – teoria espressa da Platone nel X libro della Repubblica secondo cui l’imitazione del pittore non è l’imitazione della reale natura degli oggetti reali, ma della natura apparente di apparenze.

Pur non svalutando l’attività artistica come fece Platone, Venturi sembra comunque muoversi nel quadro teorico tracciato dal filosofo greco. Quadro teorico in cui il critico colloca anche gli impressionisti che, più che innovatori, diventano ai suoi occhi eredi di una tradizione:

“Gli impressionisti seppero bene che tutto ciò che essi dipingevano non era la realtà, ma l’apparenza della realtà. E’ una concezione vecchia.”

Su questo forse devo oggi un po’ tradire Venturi. Non mi viene infatti di riportare l’arte impressionista nella logica platonica dell’apparenza. Certo, gli impressionisti rimasero sempre nell’ambito della rappresentazione del reale. E non dubito che il tentativo iniziale fosse quello di rappresentare la realtà in modo più corretto da un punto di vista meramente visivo, ossia per come essa appare. Anzi, è la parte della “leggenda” degli impressionisti che più amo. Preferisco però pensare che Monet, Renoir e Pissarro avessero capito di dover per forza abbandonare la rappresentazione didascalica del reale per approssimarsi sempre più all’essenza delle cose, non alla loro apparenza.

Immagino un gruppo di ottimi pittori, a tratti geniali, che nel tentativo di cogliere esattamente i riflessi della luce sull’acqua esplicitano inconsapevolmente un’aporia nel paradigma classico della mimesi: per rappresentare la luce per come effettivamente la vedono gli occhi occorre creare opere che non somigliano alla realtà materiale per come appare.

Claude Monet - Le Boulevard des Capucines

Particolare di Claude Monet, Le Boulevard des Capucines, 1873-1874.

Quindi, se forse è vero che nei dipinti impressionisti la luce viene rappresentata per come immediatamente appare agli occhi, è però anche evidente che le opere nel complesso sono molto lontane dal rappresentare le cose per come appaiono.

Osservando la luce nel tentativo di coglierne la natura impalpabile, gli impressionisti scompigliano la composizione complessiva e si allontanano tanto dalla “corretta” rappresentazione della realtà materiale quanto dalla rappresentazione dell’apparenza della realtà. Per me insomma quella degli impressionisti è più una rivoluzione gentile che un ritorno di una vecchia teoria…

In ogni caso, dopo anni, mi accorgo di apprezzare ancora il passo di Venturi.

E mi viene un po’ di orgoglio nel leggere che l’autore del testo che tanto mi colpì da ragazzo fu uno dei dodici professori universitari che nel 1931 non prestarono giuramento di fedeltà al fascismo, motivo per cui dovette lasciare l’Italia.

[Il libro di Venturi da cui sono tratti i brani sopra citati è: La via dell’impressionismo. Da Manet a Cézanne, Einaudi, Torino, 1970.]
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