Scrivevo, pochi articoli fa, che i tentativi di definizione dell’arte sono stati intesi, nell’estetica analitica, come dei tentativi di risposta alla domanda “che cos’è l’arte?”.
Che sia proprio questa, e non altre, la domanda cardine, non deve stupire troppo. Si tratta infatti di una domanda di sicuro interesse che è stata riproposta infinite volte nella storia del pensiero. Oltre a questo però, vi sono dei motivi teorici per cui tale domanda si carica di un valore particolare per l’estetica analitica.
Va sottolineato infatti come molti di questi filosofi comprendano la loro stessa filosofia come una “filosofia dell’arte”, non come una riflessione estetica. Questo ha comportato uno spostamento dell’attenzione da una ricerca sulla sensibilità, “l’orizzonte dell’aisthesis“, all’arte intesa come oggetto di comparazione con il discorso scientifico. Chiarissima, anche su questo, Simona Chiodo:
«La ragione probabile dell’interesse speciale che l’estetica analitica ha per l’arte è che la filosofia analitica non riconosce all’orizzonte della «sensibilità», cioè all’orizzonte dell’áisthesis, una funzione essenziale a fondazione della gnoseologia – la nozione di sensibilità, allora è periferica tra gli oggetti di attenzione filosofica. L’arte, al contrario, anche se non denota, cioè non ha una funzione gnoseologica, è un’occasione di comparazione tra le qualità del discorso dimostrativo (scientifico) e le qualità del discorso non dimostrativo (artistico), perché ha una «forma», cioè ha un’articolazione linguistica».
[Chiodo, Simona, a cura di, Che cosa è arte, UTET, Torino 2007., p. XL]
Rispondere alla domanda assume quindi un significato ulteriore, ossia vuol dire anche riuscire a darsi una legittimazione in quanto “filosofi dell’arte” (in parte opponendosi di fatto ai “filosofi dell’estetica”), una legittimazione affatto scontata in partenza, ed anzi molto problematica.
Stefano Velotti, ad esempio, sottolinea come la pretesa legittimità di una filosofia dell’arte separata dagli altri ambiti della riflessione filosofica non sia fondata. Lo stesso concetto di arte contenuto nell’espressione “filosofia dell’arte” presuppone in realtà una riflessione estetica precedente senza la quale sarebbe complesso persino distinguere l’ambito delle opere d’arte “belle”, o comunque “plastiche”, dai comuni artefatti.
Velotti si concentra in particolar modo su Danto che secondo il filosofo italiano non riesce a legittimare, nel terzo capitolo de La trasfigurazione del banale, una “filosofia dell’arte” in quanto tale, al massimo, una generica “filosofia delle rappresentazioni” [Su questi temi cfr. ad es., Velotti, Stefano, Estetica analitica, Un breviario critico, Aestethica Preprint, Palermo, 2008, in particolare pp- 27-28].
In effetti l’idea di Danto è per molti versi emblematica. Una delle conseguenze più sorprendenti della sua riflessione è proprio il fatto che l’estetica sia bandita dal discorso sull’arte. Prendo quindi in considerazione la sua posizione riguardo all’esclusione dell’estetica dalla filosofia dell’arte, per come viene presentata nella Trasfigurazione del banale.
Danto, come ricordavo in un altro articolo, nelle opere d’arte cerca un qualcosa di non percepibile con i cinque sensi, che possa spiegare la differenza tra le scatole comuni di Brillo e le Brillo Boxes di Warhol. Quindi qualcosa che, a suo dire, non riguarda l’estetica.
Certo questa esclusione dell’estetica è possibile solo schiacciando l’estetica sulla percezione data dai cinque sensi. L’estetica diventa qualcosa di più vicino all’espressione “chirurgia estetica” che a come l’ha intesa la tradizione continentale. Riguardo all’estetica come apprezzamento delle attività percettive è interessante l’introduzione alla traduzione italiana di La trasfigurazione del banale, sempre di Velotti, in particolare:
«Senza neppure chiamare in causa filosofi come Kant, Dewey, Wittgenstein, o Merlau-Ponty, basta rivolgersi anche soltanto a un empirista come Hume per vedere che forse nessuno ha mai pensato una cosa del genere. Hume andava in cerca, senza essere in grado di identificarlo, di un sentimento – non di qualità sensoriali – che avesse una dimensione normativa, che costituisse una «regola del gusto». Non a caso si occupava soprattutto di opere letterarie, per le quali sarebbe difficile ragionare in termini di qualità percettive.»
[S. Velotti, Introduzione a La trasfigurazione del banale, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p. XVI-XVII]
Danto prende in considerazione nel quarto capitolo la possibilità che esista un “senso estetico innato” con cui cogliere le proprietà estetiche delle opere d’arte. Tuttavia a dire di Danto, anche se esistesse, non avrebbe comunque nulla da dirci sulle opere d’arte in quanto esso sarebbe attivo praticamente nei confronti di ogni cosa, non avrebbe cioè la possibilità di cogliere la specificità delle opere che per Danto risiede in delle specifiche proprietà, quelle relazionali, che non sono percepibili mediante i cinque sensi.
Il modo in cui Danto caratterizza questo senso estetico oscilla tra (1) una sorta di “meccanismo” fisico, radicato nella specificità biologica sia umana che animale, che orienta le preferenze estetiche basandosi sulle caratteristiche sensibili delle cose, e (2) un “senso speciale” simile al sense of humor.
Questi due modi di caratterizzare il senso estetico sembrano, tra l’altro, non conciliabili. Il secondo modo di intendere il senso estetico sarebbe infatti permeabile alle credenze e normativo, due caratteristiche che il senso estetico inteso come meccanismo biologico (quindi causale), non potrebbe avere.
Successivamente Danto opterà per un senso estetico del primo tipo. Negli scritti successivi, pur rimanendo una sorta di “veto” all’estetica, Danto sembra indebolire le sue tesi ammettendo che in alcuni casi essa possa avere un ruolo nella considerazione delle opere d’arte [su questi argomenti cfr. sempre Estetica e filosofia dell’arte, in Velotti, Stefano, Estetica analitica, un breviario critico, cit.].
In realtà, come vedremo, Danto non riuscirà a chiudere completamente i conti con l’estetica in quanto nell’ultimo capitolo del libro dovrà comunque introdurre alcuni concetti della tradizione estetica per separare l’arte dalle altre rappresentazioni.
In ogni caso l’estetica, a dire di Danto, non ha nulla di fondamentale da dire riguardo alle opere d’arte.
Si potrebbe pensare che a questo punto sia sufficiente mettersi d’accordo sulle parole, o altrimenti, rimanere in disaccordo, e continuare a leggere Danto tenendo a mente questo modo di intendere l’estetica. Ed in effetti proprio questo avviene (o almeno questo è avvenuto a me), si cerca di prendere molto del buono che c’è nella sua riflessione, tralasciando “la questione dell’estetica”.
In realtà però, pur accordandosi con l’uso di “estetica” fatto da Danto, questa esclusione continua ad avere molte conseguenze, tra cui il fatto che l’arte diviene il suo principale oggetto di studio, ponendosi come concetto centrale e quindi come il concetto per eccellenza da definire.
«a) La prima conseguenza, direi, è l’esclusione di ogni pertinenza dell’estetica in riferimento all’essenza dell’arte […] b) Messa da parte l’estetica, è fatale che si presenti l’idea secondo cui l’arte, pervenuta hegelianamente all’autoconsapevolezza delle propria essenza, finisce, e finisce in filosofia. Le opere d’arte, naturalmente, continuano a proliferare. Tuttavia, a differenza che in Hegel, non sono diventate insignificanti, ma hanno anzi acquisito una libertà che fino alle avanguardie storiche non potevano avere. Nessuno può più pensare, dagli anni Sessanta in poi, di essere sull’onda della storia, di incarnare una direzione storica. Quel che si cercava, l’essenza dell’arte, è stato trovato, e ora ognuno è libero di fare arte come vuole. Certo, resta vero che non ogni cosa è possibile in ogni tempo […]. Per il resto, però, regnerebbe una libertà assoluta. Danto non pensa al postmoderno o al postmodernismo (termini che indicherebbero ancora delle modalità stilistiche identificabili), ma a un’epoca più neutralmente poststorica. c) Esclusa la pertinenza dell’estetica, con i suoi giudizi di gusto, passa in secondo piano anche la questione della valutazione o dell’apprezzamento delle opere d’arte».
[Ivi, p. XVII]
Danto affronta la questione della definizione di arte nel terzo capitolo del libro, argomentando dettagliatamente e legando la questione della definizione di arte alla legittimità della “filosofia dell’arte” e, con una mossa significativa, della filosofia in generale. L’argomentazione parte da una domanda:
perché mai l’arte dovrebbe essere quel genere di cosa di cui può esserci una filosofia, e perché mai, storicamente, non c’è stato neppure un grande filosofo, da Platone a Aristotele, da Heidegger a Wittgenstein, che non abbia avuto qualcosa da dire su questo tema?
[A. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 67]
Certo, prosegue Danto, lo scontento di molte persone comuni che si avvicinano ad una filosofia credendo di trovarvi trattazioni specifiche sull’arte è assolutamente comprensibile. Non tutto ciò che riguarda l’arte è “filosoficamente” interessante e, anzi, i filosofi si sono occupati più di quella terra di mezzo, al confine tra l’arte e gli altri ambiti d’interesse filosofico, che di molte questioni che invece rendono l’arte incantevole agli occhi dei non-filosofi. Lo stesso problema lo hanno d’altronde la filosofia del linguaggio e la filosofia della scienza. Da ciò l’idea diffusa che la filosofia sia tutto sommato irrilevante per il concreto andamento del “mondo dell’arte“.
Questa selezione operata dalla filosofia nei riguardi dell’arte, che taglia fuori gran parte delle cose comunemente ritenute piacevoli, affascinanti o fondamentali, «rinforza l’ostilità per la trattazione teoretica e intellettuale della loro attività che[…] è stata sempre tipica degli artisti» [Ivi, p. 68].
A questo punto Danto fa un decisivo passo ulteriore nell’argomentazione: questo è stato possibile fino a che l’arte del Novecento non ha radicalmente trasformato il proprio rapporto con se stessa. Ecco il movimento così come lo racconta Danto:
E le cose potrebbero essere rimaste così se l’arte non si fosse evoluta in modo tale che la questione filosofica relativa al suo statuto non fosse diventata quasi l’essenza dell’arte stessa, cosicché la filosofia dell’arte, invece di restare al di fuori del proprio oggetto e di rivolgersi ad esso da una prospettiva estranea ed esterna, si è trasformata nell’articolazione delle energie interne del proprio oggetto.
[Ibidem]
Come se il movimento degli artisti contemporanei fosse un movimento verso la messa in luce di ciò che nell’arte ha, da sempre, interessato la filosofia. Una messa a fuoco che è però anche il respingimento di altri aspetti che invece hanno da sempre dilettato gli amanti dell’arte. Con questo movimento «l’arte diviene coscienza di sé» [Ivi, p. 68], in ciò molto vicina alla filosofia. Distinguere questa arte dalla filosofia è un compito non sempre agevole ma tuttavia, a dire di Danto, una problematica costante ed ineludibile.
Ancora più sorprendentemente il filosofo americano capovolge la domanda, come allo specchio, domandandosi cosa distingua il suo stesso libro da un’opera d’arte. Affermazione che può sembrare provocatoria ma che in realtà è l’attenuazione di una posizione ancor più radicale contenuta nel saggio Opere d’arte e cose reali:
«in un certo qual modo questo saggio è parte del suo argomento, dal momento che alla fine diventa esso stesso un’opera d’arte. Forse, la creazione finale del periodo di cui parla. Forse, l’ultima opera d’arte della storia dell’arte!».
[Danto, Arthur C., Artworks and Real Things, in «Theoria», 39, 1973, pp. 1-17, trad. it. di Alfonso Ottobre, Opere d’arte e cose reali, in Kobau, Pietro; Matteucci, Giovanni; Velotti, Stefano, a cura di, Estetica e filosofia analitica, il Mulino, Bologna 2007]
La definizione di arte è inoltre, sempre secondo Danto, diventata un evidente problema dell’arte stessa, anche in ciò simile alla filosofia. Questa argomentazione fa sorgere la «tentazione» di considerare «la filosofia e l’arte una cosa sola» [A. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 69], cosa che, tra l’altro, giustificherebbe l’idea di una “filosofia dell’arte”, in quanto «la filosofia si è sempre occupata di se stessa» [Ibidem]. Un’idea a cui però bisogna «prudentemente resistere» [Ibidem]. Il confine è comunque talmente labile che definire l’arte equivale quasi a definire la stessa filosofia.
Visto in quest’ottica è lo “scetticismo” di Weitz nei confronti della possibilità di definire l’arte (e anche il disinteresse a riguardo della filosofia continentale?) ad apparire paradossale:
Considerata la simbiosi logica tra la filosofia e il suo oggetto (o i suoi oggetti), è davvero sconcertante che alcuni dei nostri migliori filosofi che hanno tematizzato la stessa filosofia – e l’arte – abbiano voluto insistere sull’impossibilità di dare una definizione dell’arte, e sul fatto che sarebbe un errore tentare di darla, non perché non vi siano confini, ma perché i confini non possono essere tracciati con le consuete modalità. O, nella misura in cui è impossibile dare una definizione di arte, e quindi nella misura in cui i confini tra filosofia dell’arte e arte sono stati spazzati via, non può essere data una definizione della filosofia dell’arte nè, se è per questo, della stessa filosofia.
[Ivi, pp. 69-70]
Insomma, se vogliamo seguire Danto, più che sforzarci di capire perché l’estetica analitica si sia occupata della definizione di arte, questione che nella sua prospettiva appare teoricamente inevitabile, bisognerebbe chiedersi perché la filosofia continentale non si stia occupando della tematica.
Quindi, se vogliamo dare un po’ di credito ai tentativi degli analitici e provare a capire per quale motivo una generazione di filosofi ha passato più di mezzo secolo a provare a definire l’arte, credo sia importante sottolineare intanto questi due aspetti:
- definendo l’arte l’estetica analitica ha tentato di rispondere ad una domanda importante: “che cos’è l’arte?”. Sul fatto che si possa rispondere con una definizione “secca” a tale domanda, ho grossi dubbi, ma questo è stato il tentativo, comunque “nobile”.
- molti dei filosofi protagonisti di questo dibattito, ad esempio Danto, come abbiamo appena visto, non si considerano filosofi di estetica, ma filosofi dell’arte. La chiarificazione del concetto di arte è quindi di conseguenza il primo obiettivo di tale filosofia.