Nell’ultimo articolo pubblicato su questo blog, sottolineavo come una delle caratteristiche più evidenti dell’estetica analitica fosse di quella di voler chiarire le parole che utilizza. Tale esigenza di chiarificazione viene affrontata dai filosofi analitici spesso con un approccio estremamente razionale, ad esempio, volendo definire, quasi ad ogni costo, alcune parole.
Tale tendenza generale fa da sfondo al dibattito sulla definizione di arte e in parte lo spiega. Spinti da questa esigenza di chiarificazione delle parole e dei concetti, molti filosofi analitici coniano spesso dei neologismi e talvolta inventano proprio delle parole di sana pianta, col fine di comprendere e rendere trasparenti i concetti e le parole più complesse. L’esempio che facevo era quello della “visica”.
In un caso che sto per affrontare, per molti versi davvero radicale, questo procedimento viene a configurarsi come un modo per evitare una “definizione lessicale” di “rappresentazione”, in primo luogo riducendo essa al concetto di “finzione”, e successivamente definendo “finzione” grazie a delle “definizioni stipulative” intermedie.
Le definizioni stipulative sono […] proposte o decisioni relativo all’uso (e quindi significato) di un dato termine o sintagma. Una definizione stipulativa (o, più semplicemente una stipulazione) è opportuna, ad esempio, quando un termine o sintagma è vago o ambiguo sicchè occorre precisarne il significato, o quando chi parla non trova un termine o sintagma già in uso adatto a significare ciò che egli ha in mente
(Guastini, Riccardo, Enunciati interpretativi, p.45)
E’ il caso di Kendall Walton nel suo “Mimesi come far-finta” [Walton, Kendall L., Mimesis as Make-Believe, Harward University Press, 1990; trad. it. a cura di Marco Nani, Mimesi come far finta, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011]. Dietro ad uno stile molto chiaro e semplice, tipicamente “analitico”, la strategia di Walton è in realtà abbastanza spregiudicata. Trovandosi di fronte al concetto di rappresentazione Walton deve fare i conti con quella difficoltà che mettevamo in luce nei confronti di molti concetti “complessi”:
Quello che è preoccupante è il fatto che non siamo in grado facilmente di dire perché qualcosa conti o non conti come rappresentazione o perché stia sul confine, o che cosa riguardo ad esso si dovrebbe apprendere per decidere in un senso o nell’altro. […] Si ha il sentore che se solo comprendessimo meglio cos’è la rappresentazionalità, di ognuno di questi oggetti capiremmo se con tutta certezza ricada o no sotto di essa. Non siamo semplicemente incerti riguardo a cosa sia rappresentazione, siamo confusi.
[Ivi, p. 21]
Se la categoria a cui si fa riferimento è quella di “arte rappresentazionale”, continua Walton, ci troviamo di fronte alla solita scomoda questione di decidere cosa è arte e cosa non lo è. Ma anche di fronte alla “rappresentazione” sono molte le incertezze. Le costellazioni, le fototessere, i testi di chimica, le banconote, sono rappresentazioni?
Ognuno di questi oggetti si qualifica come “rappresentazione” in qualche ragionevole senso del termine, non c’è dubbio. Il guaio è che vi sono troppi sensi che intersecano l’area e che interferiscono l’uno con l’altro.
[Ivi, p. 20]
A questo punto Walton fa, in modo molto esplicito, la mossa teorica che dicevamo prima. Ridefinisce il concetto di rappresentazione a partire da un concetto più agevole, quello di “finzione”, che può caratterizzare in modo più semplice, senza troppi riguardi ai suoi molteplici usi e alla sua storia.
Ritaglierò una nuova categoria, a cui potremmo pensare come una modificazione di principio – non semplicemente una delucidazione o un affinamento – di una comune nozione di arte rappresentazionale. Chiamerò i suoi membri semplicemente “rappresentazioni”, appropriandomi di questa espressione per i miei scopi […]. Mi concentrerò sulla finzione, e solo la finzione avrà titolo ad essere “rappresentazionale” nel mio speciale senso.
[Ivi, pp. 20-21]
Walton poi tende ad accorpare anche il termine “mimesi” a questo modo di intendere la rappresentazione nell’ottica della finzione.
“Mimesi”, con i suoi trascorsi illustri, può essere inteso corrispondere approssimativamente a “rappresentazione” nel mio senso, ed è associato ad importanti discussioni precedenti di molte delle questioni cui mi rivolgerò. Di qui la scelta di usarlo nel titolo.
[Ibidem, p. 21]
Certo l’impiego di rappresentazione, così come di “mimesi” del resto, potrebbe confondere in quanto esso continua a portarsi dietro la eco dei suoi usi e significati passati nonostante la netta delimitazione del concetto da parte di Walton, tuttavia «sotto un certo aspetto, quest’ultima espressione non ha pari: è stata usata in così tanti modi diversi, in una tale varietà di progetti teorici, che nessuno può pretendere di vantare su di essa diritti esclusivi. E’ così evidentemente bisognosa di un nuovo inizio che nessuno potrà obiettare al mio assegnargliene uno.»[Ibidem].
A questo punto è il concetto di finzione a diventare centrale nella riflessione di Walton. Egli riuscirà a chiarirlo (e così a chiarire anche rappresentazione, quantomeno nello speciale uso che Walton ne fa), poggiandosi su una serie di “definizioni stipulative” di termini meno “impegnativi”.
Insomma, il grande vantaggio che ha Walton dopo questa “mossa teorica” è quello di poter chiarire, definire, questi concetti. Così ad esempio fa con quelle che egli chiama “verità fittizie“:
In breve, una verità fittizia si fonda sul fatto che vi è una prescrizione o un’imposizione a immaginare in un qualche contesto una certa cosa. Proposizioni fittizie sono proposizioni che devono essere immaginate – che di fatto lo siano o meno.
[Ivi, p. 62]
E poco dopo definisce grazie a questa nozione di verità fittizia quelli che egli chiama i “supporti“:
I supporti sono generatori di verità fittizie, sono cose che, in virtù della loro natura o esistenza, rendono le proposizioni fittizie.
[Ivi, p. 60]
Non tutti i supporti hanno la funzione di essere supporti. In molti giochi i bambini utilizzano alcuni oggetti di uso comune trasformandoli con la loro immaginazione. Un esempio ricorrente in Walton è il gioco in cui dei bambini in un bosco fingono che i tronchi di albero siano orsi. I tronchi di albero e simili vengono chiamati da Walton supporti “ad hoc”, nel senso che non sono stati prodotti per generare verità fittizie; nel caso dei tronconi poi non sono stati prodotti affatto [Ivi, p. 77]. I tronconi quindi nel gioco dei bambini sono supporti, ma non hanno in generale la funzione di supporti.
Un’altra nozione importante dell’universo di “Mimesi”, viene definita grazie alla nozione di “supporto”, quella di “giochi di far finta“:
I giochi di far finta sono una specie dell’attività immaginativa; specificamente, sono esercizi dell’immaginazione che coinvolgono supporti.
[Ivi, p. 33]
Dopo aver messo a punto questi concetti Walton può, a ritroso, definire in modo più chiaro la “finzione“, che inizialmente aveva introdotto in termini non teorici:
Ci ritroviamo dunque con un modo di distinguere finzione da non-finzione. Le opere di finzione sono semplicemente rappresentazioni nel nostro senso speciale, opere la cui funzione è servire da supporti in giochi di far finta.
[Ivi, p. 97]
L’unica differenza a questo punto tra “rappresentazioni” e “opere di finzione”, è che quest’ultime sono “opere”, per il resto i significati si sovrappongono.
Come si può notare da questo assemblaggio di definizioni stipulative proposte da Walton, c’è, nella definizione di “verità fittizia”, un richiamo all’immaginazione, su cui tornerò in un altro articolo. E’ quindi sull’immaginazione che poggia tutta questa argomentazione. L’immaginazione non verrà tra l’altro definita, pur trovandosi in una situazione di complessità del concetto e dell’uso della parola per molti versi simile a quella in cui, come abbiamo visto, si è trovato nei confronti della “rappresentazione”, in quel caso Walton riterrà di non aver bisogno di una precisa definizione dell’immaginazione.
Il reticolato concettuale proposto da Walton è davvero molto articolato, sembra talvolta che egli stia creando un mondo di concetti; tuttavia egli ha cura di chiarire ogni singolo passaggio argomentativo. La scelta dei termini ovviamente non è arbitraria, essi in realtà corrispondono, in parte, al significato che siamo soliti dare nel linguaggio comune. La stessa rappresentazione che, come abbiamo visto, subisce un esplicito e cosciente “slittamento categoriale”, sembra alla fine, nel senso di Walton, dirci qualcosa sulla “rappresentazione” in senso tradizionale (qualunque esso sia, perché è poi questo il problema da cui parte Walton e che riesce ad eludere in parte con la strategia sopra mostrata).
Quello che voglio chiarire è che Walton non si mette in cerca del significato di “rappresentazione”, anzi evita accuratamente di andare su questo terreno; Walton dà a “rappresentazione” un significato, che, alla luce del reticolato teorico che in parte abbiamo descritto, appare chiaro e trasparente, potremmo dire, “definito in modo stipulativo”.
In realtà Walton fa di più di ciò che scrivevo nell’articolo precedente; egli infatti non chiarisce un termine complesso avvalendosi di uno semplice definito stipulativamente ma prima sovrappone al concetto di rappresentazione quello di “finzione” che successivamente definisce stipulativamente.
Ogni ambito della filosofia e della cultura in generale crea continuamente nuove connessioni, nuovi accostamenti, e talvolta anche nuovi termini, che, se dotati di senso, diventano poi patrimonio di tutti, come nel caso delle proprietà autografiche e allografiche di Goodman. Bisogna riconoscere all’estetica analitica una preziosa creatività a riguardo, che tra l’altro non ha nulla da invidiare a quella dei colleghi continentali. La misura sta nel cogliere quando queste nuove nozioni siano sensate, e quando invece siano utili solo all’interno di una prospettiva teorica ristretta o addirittura completamente inutili ed inutilizzabili. Non sempre, anche questo è chiaro, aggiungere nozioni arricchisce gli strumenti di indagine, talvolta serve solo ad appesantire le trattazioni dei filosofi ed il “vocabolario” già particolarmente variegato dei volenterosi giovani studenti di filosofia; con il rischio inoltre di aumentare le difficoltà e lo “spaesamento” dei non filosofi di fronte ad alcuni concetti importanti, come quello di arte, che è proprio l’opposto di ciò che credo volessero ottenere molti protagonisti del dibattito analitico in estetica.
Quello che accade infatti è paradossale, nel voler troppo chiarire si rischia di arrivare a costruire reticolati concettuali davvero complessi che però, per dirla brevemente, più che chiarire, complicano. Al rischio di una oscurità concettuale nel continente, mi sembra corrispondere in ambito analitico un rischio molto simile: una ricerca eccessiva di chiarezza.
Montale ci regala un’immagine che si ritrova più volte nel suo Ossi di seppia, che può servire a individuare questo pericolo. E’ l’immagine della difficoltà di vedere, per troppa luce:
Ci chiudono d’attorno sciami e svoli,
[Montale, Eugenio, Ossi di seppia, Marezzo, Oscar Mondadori, Milano 2003, p. 226, vv. 21-24.]
è l’aria un ala morbida.
Dispaiono: la troppa luce intorbida.
Si struggono i pensieri troppo soli
Ci muoviamo in un pulviscolo
[Montale, Eugenio, Ossi di seppia, Non rifugiarti nell’ombra, cit., p. 65, vv. 9-12.]
madreperlaceo che vibra,
in un barbaglio che invischia
gli occhi e un poco ci sfibra
Gloria del disteso mezzogiorno
[Montale, Eugenio, Ossi di seppia, Gloria del disteso mezzogiorno, cit., p. 86, vv. 1-4.]
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Penso che l’immagine di Montale non sia del tutto estranea alla trattazione di Walton per quanto la sua opera sia di grande importanza nell’ambito della filosofia analitica. Scriverò alcuni articoli sul suo libro più importante Mimesi come far finta, uno dei libri più rilevanti della cosiddetta “svolta immaginativa” dell’estetica analitica.