Le regole dell’immaginazione e i principi di generazione

Stiamo dedicando alcuni articoli di questo blog al libro più importante del filosofo americano Kendall Walton, Mimesi come far finta. Tale libro è da molti considerato il capostipite della cosiddetta svolta immaginativa dell’estetica analitica.

Seppure si è soliti considerare l’immaginazione come una attività molto libera, secondo Walton essa è spesso governata da una serie di “regole” (delle “prescrizioni” o imposizioni a immaginare) che sembrano essere generate da quelli che egli chiama i supporti.

La parte dell’immaginazione che più interessa Walton, si potrebbe dire, è quella che può essere “guidata” o “indotta”. Conviene quindi rivolgerci a queste regole, per capire bene cosa l’autore abbia in mente.

Quando Walton dice che sono i supporti a generare delle prescrizioni a immaginare intende dire che indipendentemente da ciò che i partecipanti ad un gioco di far finta vogliono o immaginano, un supporto agisce come “generatore di immaginazioni”. Se infatti si sta partecipando ad un gioco in cui i tronconi sono orsi, il troncone, all’interno del gioco, è comunque un orso, anche se nessuno lo vede o immagina che vi sia, mettiamo perché è nascosto in un luogo appartato di un bosco. Inaspettatamente i partecipanti al gioco potrebbero accorgersi di esso, e come dire, il troncone sarebbe già un orso che improvvisamente sbuca dalle profondità del boschetto.

Cosa ha generato la verità fittizia “c’è un orso, inizialmente non visto, nel boschetto”? Non i partecipanti al gioco, che neanche sapevano della sua esistenza, ma il supporto stesso, il troncone, con il suo semplice essere lì. Nei termini utilizzati da Walton: è fittizio che vi sia un troncone nel boschetto, anche se nessuno lo ha immaginato.

Finzionalità ed immaginazione sono dunque concetti separati anche se comprendere la finzionalità senza fare ricorso all’immaginazione sia impossibile, in questa prospettiva. Quella di generare verità fittizie non è chiaramente una proprietà magica dei supporti (per quanto un paragrafo del libro di Walton si intitoli: La magia del far finta), bensì una proprietà che l’oggetto acquisisce sulla base di una intesa o un accordo tra i partecipanti al gioco.

Walton chiama questo “accordo” un «principio di generazione». Sulla base di vari principi di generazione i supporti possono prescrivere immaginazioni. Questi principi di generazione sono di fatto regole, delle regole molto deboli e sfuggenti che non vanno intese nel senso di decreti, accordi consci, regole convenzionali. Esse possono esserlo, ma non necessariamente; «un principio è in vigore in un particolare contesto se in quel contesto resta inteso che, date tali e tali circostanze, deve essere immaginato così e così» [K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 63].

Sono dunque i principi di generazione, così descritti, a generare quelle prescrizioni ad immaginare che sono tipiche del far finta. Questi principi di generazione operano, in molti casi, anche senza l’ausilio di supporti.

Nell’esempio del temporale di Momo fatto in un articolo precedente, il principio di generazione sarebbe l’accordo cosciente tra i bambini che decidono di iniziare a giocare. All’interno del loro gioco di far finta, la rotonda diviene un supporto; un supporto che prescrive di immaginare la rotonda come una nave. Anche gli stessi bambini che partecipano al gioco divengono dei supporti. Ognuno di loro infatti ha un ruolo nel gioco. Un bambino diviene il comandante, un altro lo scienziato e così via…Ognuno di loro è al contempo partecipante e supporto, in quanto prescrive delle immaginazioni. Il bambino che fa il comandante, ad esempio, prescrive a se stesso e agli altri, di immaginare se stesso come “il comandante della nave”.

La questione di cosa sia a regolare l’immaginazione, in alcuni specifici contesti quali sono i giochi di far finta, diviene quindi la questione di quali principi di generazione si attivino, e da cosa essi dipendano.
Delineare quali siano i principi di generazione, ossia le regole che prescrivono immaginazioni, è operazione quasi impossibile, essi variano praticamente in ogni gioco di far finta.

In un altro caso che portavamo ad esempio, ossia il gioco dei tronconi, una delle regole che governano l’immaginazione è: «se c’è un troncone in un certo posto, si deve immaginare che là vi sia un orso» [Ivi, p. 62]. Questa regola può venire esplicitata o no (il gioco potrebbe iniziare con un bambino che grida: “attento, c’è un orso alle tue spalle!”, senza nessun esplicito accordo verbale). Sia se la regola viene esplicitata che nel caso contrario, non rispettare questa regola vorrebbe dire violare le regole del gioco o comunque giocarlo in modo improprio.

In generale si può dire che le regole che governano i principi di generazione sono regole condizionali ossia regole «che stabiliscono che se certe circostanze sussistono, devono essere immaginate certe cose» [Ibidem].
Riguardo invece a cosa faccia sì che vi sia un principio di generazione, in alcuni casi è evidente, potrebbe essere un accordo implicito o esplicito. Ma Walton allarga “il dominio” dei principi di generazione anche a moltissimi altri casi in cui non è evidente né da cosa derivino, nè se effettivamente ci sia un principio di generazione.

A dire di Walton è anche possibile che un principio di generazione sia connaturato agli esseri umani, «potremmo averlo dalla nascita, o essere dotati della pressoché ineludibile disposizione ad acquisirlo» [Ivi, p. 63].
Ricapitolando quindi, «i principi di generazione si voglia o no chiamarli regole, costituiscono prescrizioni condizionali riguardo a che cosa deve essere immaginato nelle relative circostanze. E le proposizioni che devono essere immaginate sono fittizie» [Ibidem].

Le regole di accettazione e di integrazione

Il processo argomentativo del filosofo è sicuramente “faticoso” in questa parte del libro. Walton si sforza infatti di trovare delle regole che influenzano queste due attività immaginative al fine di preservare la compattezza della sua teoria.
A suo dire queste due esperienze sono in effetti caratterizzate una regola comune, la regola di accettazione:

Possiamo preservare una teoria unificata interpretandoli come disciplinati da una regola di massima – chiamiamola regola di accettazione – in base alla quale qualsiasi cosa sia di fatto immaginata, come parte di un sogno o di un sogno ad occhi aperti, deve essere immaginata. Chi immagina, semplicemente accetta come idonee e appropriate le immaginazioni in cui si scopre impegnato. (La regola di accettazione, come quelle che sono alla base dei principi di generazione, è condizionale.)
[Walton, Kendall L., Mimesis as Make-Believe, Harward University Press 1990; trad. it. di Marco Nani, Mimesi come far finta, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, p. 67]

Il filo su cui scorre l’argomentazione è molto sottile. La complessa rete concettuale elaborata da Walton in questo punto diventa quasi un labirinto mentale.

L’autore si accorge che questa regola potrebbe sembrare inutile. Non è così, – continua il filosofo – se ad esempio stessimo sognando ad occhi aperti di “essere dei pellerossa” la regola prescriverebbe che dovremmo continuare ad esserlo. E se ciò non accade? In tal caso daremmo inizio – sostiene sempre Walton – ad una nuova fantasticheria o comunque staremmo cambiando le regole di quella in corso.

Se le regole alla base dei principi di generazione sono regole in un senso molto debole, questa regola è talmente labile che nutro dei dubbi sull’utilità di chiamarla “regola”. Essa viene trasgredita di continuo ed anzi ha, per molti versi, senso solo se viene trasgredita.
Difendendo l’utilità della regola di accettazione Walton scrive:

Questa manovra atta a preservare l’unitarietà del nostro resoconto della finzionalità non è ad hoc come potrebbe sembrare. Accetto che tutto quello che viene immaginato come parte di una fantasticheria spontanea sia fittizio in quella fantasticheria. Ma non è chiaro se valga l’inverso. Il mio suggerimento è che proposizioni non immaginate possano essere fittizie in una fantasticheria spontanea e non è implausibile che a renderle tali sia una prescrizione di immaginarle
[Ivi, p. 68]

Il tentativo è quindi quello di tenere diviso immaginato e fittizio, e di caratterizzare il fittizio come prescrizione a immaginare anche nei sogni e nelle fantasticherie. Anche ciò che non viene immaginato può essere fittizio, e fittizio significa che vi è una prescrizione ad immaginarlo. Vale a dire che nei sogni e nei sogni ad occhi aperti vi sono prescrizioni ad immaginare che possono non venire soddisfatte, ossia che di fatto non vengono immaginate.

L’esempio proposto nel libro è quello di Doris che racconta un sogno in cui immagina di telefonare da New York a Jones, che invece è a Chicago. Più tardi nel corso del sogno ha una seconda conversazione con lui, di persona, nell’ufficio di Jones a New York. Doris aggiunge, raccontando il sogno: «devo aver viaggiato fin là nel frattempo».
Doris non ha sognato, non ha immaginato il viaggio. Tuttavia si accorge che seppur non lo ha sognato, è vero, nel suo sogno, che ha viaggiato fino a New York. Questo appunto è un caso in cui “immaginato” ed “essere fittizio” non sono lo stesso: è fittizio che Doris ha viaggiato fino a Chicago, anche se non lo ha immaginato.

Qui Walton introduce un’altra regola, la «regola di integrazione», che stabilisce che «il corpo delle proposizioni fittizie nel sogno debba essere completato in modi ovvi e naturali, salvaguardando la coerenza del tutto» [Ivi, p. 69].

Doris in sostanza avrebbe dovuto immaginare il viaggio fino a New York per rispettare le due regole. Doris può tuttavia ovviare a questa trasgressione, che non dipende fin qui da lei, ripensando la mattina al sogno e portandolo a completamento. In alternativa può, rimanendo coerente alle regole, immaginare di andare incontro ad un discontinuo sbalzo dello spazio che la trasporti a New York senza aver fatto un viaggio ordinario. In questo modo non violerebbe le regole non completando il sogno, in quanto in questo altro modo di immaginare sarebbe fittizio che non ha viaggiato in modo normale fino a New York ma che vi è stata trasferita in modo istantaneo. Diciamo che in un certo tipo di sogno l’essere teletrasportati può essere coerente, in un altro no. Doris per rispettare le regole deve fare in modo che il sogno sia coerente.

La povera Doris ha quindi davanti a sé due alternative: o completa il sogno in modo da rispettare le regole di Walton, oppure cambia modo di immaginare per far sì che nel suo sogno l’esser teletrasportati sia coerente (rimangiandosi in pratica la frase: «devo aver viaggiato fin là»). E se Doris non seguisse nessuna delle due alternative?
Walton sostiene che in questo caso Doris «può essere tacciata a ragione di non “giocare il gioco” nel modo appropriato o di tramutare la sua fantasticheria in una differente»[Ivi, p. 71].

Al di là della correttezza e dell’utilità di questa argomentazione sulle regole nei sogni, su cui comunque nutro molti dubbi, qual è il senso dell’operazione di Walton?

In primo luogo, come sottolineato, sogni, sogni ad occhi aperti e giochi di far finta vengono interpretati in una sola ottica, quella dell’esser disciplinati da prescrizioni ad immaginare e quindi rientrano nel caso della finzione.

Inoltre grazie a queste “prescrizioni” Walton può separare l’immaginazione dalla finzionalità e l’immaginato dal fittizio. Infatti c’è finzione dove c’è prescrizione ad immaginare, ma questa prescrizione ad immaginare può non essere seguita, ossia può non essere di fatto immaginata.

Questa distinzione diventerà fondamentale quando Walton analizzerà il rapporto tra lo spettatore e le opere d’arte. Tali prescrizioni permettono infatti al filosofo analitico di porre dei confini ai giochi che i fruitori possono compiere con le opere. Non ogni gioco infatti è autorizzato dall’opera.

La fruizione viene quindi caratterizzata come una attività che coinvolge spesse volte l’immaginazione che come visto può essere di molti tipi. Essa tuttavia non è un’attività completamente arbitraria. Ovviamente queste regole proposte da Walton non vanno intese in senso “forte”. Il filosofo americano è naturalmente consapevole del fatto che ciascuno può alla fine fruire delle opere come meglio crede, addirittura immaginando, in un caso limite, cose che nell’opera non vi sono affatto.
Si può quindi arrivare a capire, con una certa approssimazione, quali giochi un’opera autorizzi e quali no.

La partecipazione immaginativa ad un gioco di far finta apre quindi le porte ad una partecipazione fisica, psicologica ed emotiva molto ricca e tuttavia mai arbitraria.

No Comments Yet

Leave a Reply

Your email address will not be published.