Il ruolo della finzione in Mimesi come far finta di Walton

Kendall Lewis Walton è un filosofo americano, uno dei principali protagonisti di quella che potremmo chiamare “svolta immaginativa” dell’estetica analitica. In questo articolo iniziamo a parlare del suo libro più importante, Mimesis as Make Believe: On the Foundations of the Representational Arts, ricostruendo il ruolo che la finzione ha nella sua proposta teorica.

In Finzione e non-finzione, il secondo capitolo di Mimesi come far finta, Walton prende in considerazione le tesi di Searle sulla finzione, rifiutandole.

Come esempio di finzione Searle aveva preso un brano tratto da Il Rosso e il verde di Iris Murdoch. In tale romanzo, secondo Searle, l’autrice finge di compiere azioni illocutorie, senza in realtà compierle.

A dire di Walton, l’idea di Searle non può funzionare. E’ possibile, ammette Walton, che Murdoch stia fingendo di compiere delle azioni illocutorie, tuttavia può anche non aver finto di fare asserzioni, insomma «non ha particolare rilievo che ella fingesse o meno, e non ha nulla a che vedere con quello che rende la sua, un’opera di finzione» [K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 108].

Walton nega quindi che la finzione possa essere spiegata nei termini del “fingere”, e muove alla tesi di Searle una critica rilevante: l’idea di Searle è stata presentata in riferimento alla letteratura, tanto che egli inizia il suo testo separando finzione e letteratura, che altrimenti sarebbero potute risultare praticamente identiche. Per “testare” l’idea di Searle bisognerebbe estenderla anche ai casi di finzione non letteraria. Ebbene, secondo Walton, «la teoria del fingere fallisce clamorosamente questa verifica» [Ibidem].

Walton infatti include nelle opere di finzione, senza porsi particolari scrupoli, anche i dipinti e le sculture; ad esempio Le bagnanti di Renoir e Suonatore di chitarra di Lipchitz sono per Walton delle opere di finzione.

Pierre-Auguste-Renoir-Le-bagnanti
Renoir, Le bagnanti, Musée d’Orsay, Parigi.

Una volta considerate queste due opere delle opere di finzione diviene veramente complicato capire in che senso Renoir e Lipchitz stiano fingendo di fare asserzioni. E’ possibile che in alcuni casi, sia dipingendo che scolpendo, si stia fingendo di fare asserzioni, ma sono dei casi rari. Per questi motivi la teoria del fingere non sembra affatto convincente:

Costruire un’opera di finzione dipinta o scolpita non è perciò fingere di fare affermazioni di verità. Non è affatto fingere. Si prenda a paragone il fabbricare bambole. Questo, di sicuro, non è un atto di fingere, e non vedo ragione di considerare dipingere o scolpire in modo differente.
[Ivi, p. 109]

Walton passa ad esaminare una teoria che considera «parente» di quella del fingere, ossia «la concezione secondo cui le opere di finzione sono rappresentazioni di atti linguistici» [Ibidem]. Anche questa teoria, a dire di Walton, crolla immediatamente appena la si sposta dal suo luogo di nascita, cioè se la si sottopone ad una verifica testandola sulle opere non letterarie.

Anche in questo caso infatti si fatica a capire per quale motivo una figura, ad esempio una figura di unicorno (è questo uno degli esempi di Walton), debba essere una rappresentazione di atti linguistici.

>Solo alcune opere di narrativa rappresentano effettivamente degli atti linguistici, ossia quelle che hanno un narratore. Anche la sola estensione di questa teoria alla letteratura nel suo complesso risulta per Walton problematica. Molte opere infatti possono essere intese come prive di narratori:

Le opere letterarie di finzione rappresentano atti linguistici? Quelle con narratori sì. Lord Jim di Conrad rende fittizio che Marlow proferisca certe parole – le parole del testo – facendo in questo modo varie asserzioni, ponendo domande, e così via. […]. Ma l’opzione di considerare alcune opere come prive di narratori è certamente percorribile, e può essere pressoché obbligata per opere di una tradizione letteraria nella quale narratori palesi, in primo piano, siano sconosciuti.
[Ivi, p. 110]

Il cuore del problema, il motivo per cui queste teorie sono sbagliate nei loro presupposti teorici, è che esse partono dall’analisi delle opere letterarie e da esse traggono la convinzione, per Walton sbagliata, che il discorso di finzione sia per qualche verso parassitario rispetto ad un discorso “serio”. Il riferimento polemico è probabilmente di nuovo Searle:

Giusto per avere a disposizione in lessico di qualche genere con il quale lavorare, diciamo che gli usi metaforici delle espressioni sono «non letterali» e le espressioni di finzione sono «non serie». Per evitare un fraintendimento ovvio, questo tipo di lessico non vuole implicare che scrivere un romanzo o una poesia di finzione non è un’attività seria, ma piuttosto che, ad esempio, se l’autore di un romanzo ci dice che fuori sta piovendo, non sta seriamente dicendo che mentre scrive fuori sta realmente piovendo
[J. R. Searle, Lo statuto logico del discorso di finzione, in S. Chiodo, a cura di, Che cosa è arte, p. 162]

Le teorie che intendono la finzione come la rappresentazione di atti linguistici, a dire di Walton, possono al massimo servire a capire perché un testo possa essere considerato letteratura, ma non perché esso sia di finzione.

Un’altra teoria passata in rassegna e rifiutata è quella della finzione intesa come un’azione illocutoria speciale [Il riferimento polemico in questo caso è soprattutto: Wolterstoff, Nicholas, Works and Worlds of art, Oxford University Press, New York 1980].

Secondo questa teoria gli enunciati assertivi vanno interpretati come derivanti da azioni umane che asseriscono. L’essere asserzione dell’enunciato è quindi vero solo in senso derivato; gli enunciati assertivi sono dei “mezzi” attraverso i quali la gente asserisce. Allo stesso modo, anche la finzione può essere interpretata come basata su un azione propriamente umana, quella di realizzare finzione. Tuttavia, secondo Walton,

questa analogia fallisce nettamente. L’azione di realizzare finzione non ricopre un posto nell’istituzione della finzione simile a quello che ricoprono le azioni illocutorie nella conversazione ordinaria
[K. Walton, Mimesi come far finta, cit., p. 113]

Ciò che infatti interessa quando siamo di fronte ad un enunciato dichiarativo è molto differente rispetto a quello che c’è di rilevante nella finzione. Nel primo caso è effettivamente ciò che la persona ha voluto asserire quello che conta, molto più che l’enunciato in sè. Ad essere decisiva è l’azione di fare un’asserzione, l’enunciato è importante solo in quanto veicolo di tale azione.

Nel secondo caso invece, secondo Walton, non è così; le figure contano in quanto supporti. Anche figure che non hanno autore, come delle fenditure nella roccia, potrebbero interessarci in quanto figure. Ad ulteriore conferma di questa posizione, Walton sottolinea anche che la nozione di finzione accidentale non è problematica quanto quella di asserzione accidentale.

Per Walton quindi il ruolo dell’autore nella finzione è marginale rispetto a ciò che egli ha prodotto, e questo viene ribadito più volte:

L’istituzione della finzione si incentra non sull’attività dei realizzatori di finzione, ma su oggetti – opere di finzione o oggetti naturali – e il loro ruolo nelle attività dei fruitori, oggetti la cui funzione è di servire da supporti in giochi di far finta. Realizzare finzione non è altro che l’attività di costruire tali supporti.
[Ivi, p. 115]

Abbiamo già visto, parlando della strategia di Walton a proposito della rappresentazione, che egli intende la finzione nei termini di prescrizioni ad immaginare. Possiamo dire quindi che egli, come Searle e Margolis nei testi citati in articoli precedenti, assegna all’immaginazione un ruolo centrale. Tuttavia tende a separare il ruolo della finzione dal “fingere” e dall’idea di essa come una particolare azione illocutoria. In questo modo, limitando l’importanza dell’autore che viene ricondotto fondamentalmente al ruolo di realizzatore di un supporto, cerca di interpretare fenomeni apparentemente molto lontani sotto un’unica teoria caratterizzata da ciò che egli chiama “far finta” e di cui ci occuperemo in un altro articolo.

Il motivo per cui non si è riusciti a venire a capo dell’ontologia della finzione è secondo Walton derivato dal fatto che immaginazione e finzione non vengono coinvolte nell’argomentazione sin dall’inizio:

Dopo aver legittimato le entità fittizie e aver specificato che genere di cose esse siano e come divengano parte del nostro parlare, si potrebbe aggiungere che la gente intraprende certe immaginazioni o atti di fingere […]. Ma a questo punto è troppo tardi. Il far finta o un qualche suo parente stretto sembra così fondamentale per l’istituzione che ci si aspetterebbe avesse molto a che fare con la domanda relativa a se le finzioni vi siano e che cosa siano. Meglio metterlo nel bagaglio dal principio.
[Ivi, p. 441]

Walton, nel libro che stiamo analizzando, combatterà a lungo con le cosiddette “entità fittizie” (gli “enti” di un’opera di finzione, quindi le case dei romanzi, Sherlock Holmes, i paesaggi dei dipinti e così via…). Per sciogliere questa nozione, negli ultimi due capitoli di Mimesi, Walton introdurrà una nozione che analizzeremo successivamente più nel dettaglio, quella di partecipazione.

Le discussioni riguardo allo statuto ontologico delle entità fittizie partono spesso, ad esempio nel caso di Searle e Margolis, dalla considerazione che compiamo alcune asserzioni con cui sembriamo riferirci ad entità fittizie come se fossero enti reali. Ma questo non è secondo Walton il modo giusto in cui impostare la problematica.

Egli propone di spiegare queste asserzioni in cui sembriamo rivolgerci ad entità fittizie come se fossero reali, che effettivamente non sono rare, basandoci sull’idea della partecipazione ad un gioco di far finta. Quello che facciamo quando facciamo affermazioni su entità fittizie generalmente è partecipare ad un gioco di far finta verbale.

E’ proprio la grande pervasività del far finta che fa pensare alla possibilità che i personaggi fittizi esistano realmente. Bisogna però essere in grado di separarsi da tale attività per teorizzarla al meglio senza scambiare il fingere di riferirsi a finzioni con un reale impegno ontologico nei confronti di tali finzioni.

Walton utilizza la parola “fingere” specificando che essa è un modo breve per indicare gli atti di partecipazione a giochi di far finta. In questo senso il far finta è diverso dal fingere di fare come se la cosa rappresentata fosse vera, il far finta è il reale partecipare ad un gioco che coinvolge supporti.

Abbiamo dunque uno spostamento di prospettiva, a contare non è la relazione tra la rappresentazione e ciò che essa rappresenta bensì la finzione, ed in particolare il gioco di far finta che possiamo giocare con i supporti.

Come per Margolis anche per Walton è l’immaginazione che dischiude la possibilità di intendere correttamente le entità fittizie. Tuttavia criticando il modo di intendere le entità fittizie di Margolis, Walton lascia intravedere a riguardo la sua insoddisfazione nel considerare la finzione come qualcosa di semplicemente non esistente.

In Mimesi come far finta, oltre a Searle, anche il testo di Margolis a cui abbiamo fatto riferimento viene infatti citato polemicamente:

Un’alternativa ugualmente poco attraente, è negare alle finzioni ogni sorta di esistenza o di essere, pur insistendo che comunque possiamo riferirci ad esse e parlarne come poi facciamo. Questo impone un puro e semplice rigetto dell’affermazione ordinaria che c’è un personaggio come Lear. Cosa più importante, ci addossa uno spinoso rompicapo relativo a come interpretare il riferimento. Teorie causali del riferimento saranno fuori gioco, giacchè non-entità non possono essere cause; il riferimento in effetti risulterà non essere affatto una relazione. Questa tattica non è che l’ennesimo tentativo mal concepito di tenere il piede in due staffe, insinuare nascostamente l’esistenza di finzioni frammezzo a dinieghi della loro esistenza
[Ivi, p. 438]

Per Walton quindi l’immaginazione apre la possibilità di considerare un qualche tipo di ontologia sui generis. Si può fare a meno di entità fittizie (ossia di pensare che Sherlock Holmes esista veramente) riconsiderando il loro statuto ontologico attraverso i meccanismi della finzione reintepretata nell’ottica dell’immaginazione. Tuttavia questo approccio non risolve completamente la questione.

Di una nozione in particolar modo, quella di «mondi di finzione», Walton non chiarirà fino in fondo come vada intesa.

Infatti, per motivi che vedremo in un altro articolo, non dirà cosa sono i mondi di finzione, un concetto di cui tuttavia il filosofo americano fa ampio uso.

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