Quando si parla di “romanzo di formazione”, la mia mente corre subito a “Sulla strada” di Jack Kerouac, anche se quando lo lessi – quindicenne, credo, e comunque alla fine degli anni Settanta – non avevo affatto idea (e neanche interesse) che si potesse inquadrare in questo genere, o che – a dirla sinceramente – un libro del genere si potesse inquadrare in alcun modo. Il “romanzo di formazione” ha la caratteristica principale di accompagnare il lettore lungo una trasformazione, quella del protagonista o dei protagonisti, che passano dall’età della giovinezza a quella adulta.
In pratica una sorta di “viaggio” che permette un passaggio, fatto di sfide, di nuove esperienze (spesso dolorose e non immuni da errori anche gravi), verso il mondo adulto, che dovrebbe coincidere con la cosiddetta “età matura”. Reale o metaforico che sia – e nel mitico “On the road” si tratta di un viaggio vero e proprio, così come nelle vicende narrate da Goethe in “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister”, del 1797, a cui si fa riferimento come prima opera riconosciuta appunto “di formazione” dall’autore stesso – il viaggio rappresenta un passaggio. Un passaggio, quindi, che non è esente da dubbi, difficoltà, esperienze anche estreme, gioia di vivere, ma anche malessere, sfida, rifiuto, inquietudine, paure, timori, disagi, tentativi di realizzare progetti… E che, convenzionalmente, dovrebbe portare a quel cambiamento necessario per ritrovarsi, dopo la giovinezza, nell’età adulta, dopo aver acquisito consapevolezza di sé e degli altri e una diversa visione del mondo.
Benché – almeno per me – sia difficile riconoscere delle fasi così nette di sviluppo nella vita di ognuno di noi (quando si può dire si sia acquisita questa consapevolezza? O meglio: sempre e tutti la acquisiscono a un certo punto della vita? Si può proseguire ad acquisire consapevolezza senza mai approdare a una nuova fase? Domande personali a cui non so dare una risposta), riconosco che “Sulla strada” di Jack Kerouac e altri romanzi di formazione di tal portata siano stati importanti per me, perché, raccontando di un percorso di uno o più personaggi per lo più di fantasia, mi hanno accompagnato lungo la mia personale “strada”. Qualcuno dice che il romanzo di formazione “aiuta a crescere”. Ciò è probabile, anche se non saprei dirlo per certo. Quello che so è che il lungo, sconclusionato, travagliato, sorprendente per me a quel tempo viaggio di Sal Paradise (Jack Kerouac, in pratica) e Dean Moriarty (che corrisponde alla figura di Neal Cassady) lungo le strade degli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta può essere sintetizzato in alcune delle frasi di questo testo: “Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo”; “Si può sempre andare oltre, oltre – non si finisce mai”; “La strada è vita”; ma soprattutto: “Dobbiamo andare e non fermaci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”.
Non sono molto originale: sono frasi che molti giovani che hanno letto o leggono oggi “Sulla strada” “fanno loro”, valutando che sembrano raccontare in modo preciso la loro storia di vita. In ogni caso, così è: Kerouac ha saputo raccontare la storia non solo di una specifica generazione (la cosiddetta Beat Generation), ma di gran parte dei giovani in generale.
Secondo me tra i romanzi di formazione sempre del Novecento non si può non citare “Il giovane Holden” di Salinger, un’opera che ha fatto tanto parlare, non solo quando è apparsa in pubblico, ma anche in seguito, e che seppure ambientata negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, ancora oggi continua a sorprendere sotto più punti di vista, compreso quello linguistico. Con “Il giovane Holden” si è di fronte alle riflessioni del sedicenne Holden Caufield, divenuto simbolo della ribellione e dell’inquietudine adolescenziale, espulso dal college, che si allontana per qualche giorno da casa per il timore di dirlo ai genitori. Si ritroverà a fare vari incontri in un hotel di New York e ad affrontare situazioni piuttosto diverse rispetto a quelle a cui era abituato. Ciò che mi sembra particolarmente realistico in romanzi di formazione come “Il giovane Holden” è che non sempre si superano le prove che dovrebbero portarci a crescere, o meglio che l’epilogo non sia quel il lieto fine a cui ci si aspetta di dover arrivare a un certo punto della vita. Per il giovane Holden infatti non è così, e l’epilogo (che poi lo porta appunto a narrare in prima persona tutto il racconto, ma di cui non voglio anticipare nulla per chi non lo avesse letto) non è affatto felice, proprio no. Come in effetti può capitare, nella vita reale, non riuscendo a trovare “il proprio posto” nella società.
“Il signore delle mosche”, romanzo d’esordio del britannico William Golding, che nel 1983 ottenne poi il Premio Nobel per la letteratura, è stato pubblicato per la prima volta nel 1954 e si concentra in pratica sulla lotta tra il bene e il male. Un classico della narrativa distopica, che ha ispirato molte altre produzioni successive (letterarie, ma anche cinematografiche, musicali, televisive…) per i tanti e profondi spunti di riflessione che suscita riguardo alla natura dell’essere umano e sulla formazione della società, raccontata dall’autore con una lucidità agghiacciante. In questo romanzo una società “spunta dal nulla” e viene gestita da un gruppo di bambini considerati di buona famiglia, di estrazione borghese, lasciati soli su un’isola disabitata.
Una storia cruda, sorprendente, che mette davvero in discussione molti valori e principi, in cui i giovani protagonisti incarnano ognuno una caratteristica (positiva o negativa, ma soprattutto negativa…) della nostra natura, la quale non viene prospettata così mite, quanto soprattutto incline alla violenza, all’aggressività, alla sopraffazione. C’è da dire che la storia editoriale de “Il signore delle mosche”, poi tanto acclamato e diventato una lettura consigliata ancora frequentemente agli studenti, non è così lineare: infatti non ebbe quel successo immediato che ci si sarebbe aspettati, forse proprio a causa dello scenario così crudo e spiazzante immaginato da Golding. Come si auto-regola e si organizza l’essere umano senza il controllo di una autorità? “Il signore delle mosche” ci mostra una prospettiva possibile, per quanto terribile. In barba al mito del “buon selvaggio” proposto da Jean-Jacques Rousseau, insomma…
Oltre al tema del viaggio, in quest’opera troviamo un elemento utilizzato più volte nei romanzi di formazione: l’isola, sfruttata anche in precedenza da altri autori, come per esempio Stevenson o Defoe, per mettere in contrapposizione il bene e il male, oltre che per evidenziare lo spirito di avventura e un certo lato esotico che ha sempre fatto presa sul lettore. Una constatazione che sento di fare è che ci imbattiamo più spesso in protagonisti (maschi) di romanzi di formazione che in protagoniste (femmine), soprattutto nelle opere che riguardano il Settecento e l’Ottocento. E non solo: tra i maggiori autori di romanzi di formazione vengono annoverati soprattutto scrittori che scrittrici. Che la letteratura sia sempre stata più maschile che femminile (per lo meno per quanto riguarda ciò che viene pubblicato e preso maggiormente in considerazione) non è un mistero, ma un dato di fatto.
In ogni caso, ci sono diverse autrici che hanno raccontato di adolescenti, ragazze e giovani donne e che andrebbero segnalate parlando di romanzi di formazione: Elsa Morante, Dacia Maraini, Lalla Romano, Elena Ferrante, la Rowling (anche se il personaggio a cui ha dato voce è maschile: il ben noto Harry Potter), Marie Cardinal (i suoi, per esempio, secondo me sono dei grandi libri di formazione, benché sia un’autrice poco ricordata e la “trasformazione” delle sue eroine avvenga in età più tarda), Harper Lee (singolare o forse in linea con il fatto che la letteratura sia sempre stata più maschile che femminile, che Scout, giovane protagonista di “Il buio oltre la siepe”, venga spesso presentata come la versione femminile di Huckleberry Finn…), Charlotte Brontë, Jane Austen, Sibilla Aleramo… Considerando poi anche altre autrici che, visti i tempi in cui hanno vissuto, hanno espresso una formazione più in linea con i dettami del loro tempo, ovvero il passaggio all’età adulta scandito per lo più da un matrimonio o da ciò che si riteneva significasse diventare donne adulte (qualcosa di molto interessante da analizzare anche sotto il punto di vista culturale e sociale, oltre a quello letterario).
In ogni caso, “Piccole donne” ha proposto dei personaggi femminili molto amati da diverse generazioni di ragazze, che per lo più si sono identificate con Jo (Josephine) March, il “maschiaccio” della storia, la quale più si avvicina alle caratteristiche della sua creatrice. In un certo senso, forse “Piccole donne” della Alcott (e il suo prosieguo: “Piccole donne crescono”, seguiti poi da “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo”. Ricordo che mia madre ci teneva molto a far presente tutta la sequenza, quando parlava di “Piccole donne”, perché, appunto, sono tutti volumi legati dagli stessi personaggi) può appassionare più gli adulti che lo rileggono che le ragazzine di oggi, benché negli ultimi tempi lo si sia rivalutato. Guardandolo con occhi più critici anche rispetto alle convenzioni del tempo in cui è stato scritto, è infatti possibile coglierne alcuni aspetti positivi che potrebbero non essere compresi appieno da chi vive l’infanzia oggi. Un libro che porta a immedesimarsi in uno o in un altro dei personaggi femminili proposti, e che nel tempo ha suscitato pareri discordanti, fino a far valere a Louisa May Alcott, da parte di alcuni, addirittura l’appellativo di “femminista ante litteram”.
Per distaccarsi dagli esempi di scrittura che riguardano autori anglofoni, vorrei spendere due parole su un classico italiano che secondo me ha davvero tutti gli ingredienti per rientrare nel genere del romanzo di formazione: “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi (Lorenzini, alla nascita). Si tratta di un libro che tradizionalmente viene destinato alla lettura durante l’infanzia, negli anni rivoltato come un calzino dalla critica letteraria, per un motivo o per un altro, che senza dubbio porta a una grande trasformazione come suggerito per ogni romanzo di formazione: quella di un pezzo di legno (“un semplice pezzo da catasta”, come lo definisce Collodi) a un bambino in carne e ossa. C’è però a questo punto una cosa importante da dire: nel testo originale, Collodi riservava una fine diversa al “viaggio” del suo burattino, il quale non si trasformava in bambino, bensì moriva impiccato a una quercia per opera del Gatto e della Volpe… Questo finale non piacque ai lettori che al tempo (siamo nel 1881) seguivano il racconto a puntate sul “Giornale dei bambini”, e l’autore completò l’opera con il lieto fine che oggi conosciamo.
Con “Le avventure di Pinocchio” è molto chiaro come lo schema del romanzo di formazione sia molto simile a quello delle fiabe, con sequenze e riti di passaggio tipici della struttura individuata da Propp. Esso è inoltre un chiaro esempio di come lo scopo del romanzo di formazione sia mutato nel tempo, passando da un intento pedagogico a quello dell’espressione del sentire del protagonista in una determinata fase della sua vita. Certo, qui siamo nel romanzo dell’Ottocento, e con questo sguardo dobbiamo leggere quest’opera che molti considerano un vero e proprio capolavoro (io pure, a dire la verità), ma bisogna ammettere che ancora oggi molti temi anche sociali che traspaiono dalle pagine di Collodi sono ancora attuali.
In conclusione a questo mio breve accenno a cinque classici romanzi di formazione, voglio ricordare che oltre a quelli che ho riportato (e la cui lettura o rilettura consiglio vivamente) avrebbero diritto di essere menzionati molti altri titoli e autori, alcuni dei quali anche fuori dagli standard che vengono attribuiti a questo genere, altrettanto interessanti e degni di far parte di una biblioteca personale. Senza escludere, come detto, autrici e protagoniste femminili. Perché poi, a dirla tutta, al di là degli standard, dei generi, dei canoni, degli elementi caratteristici, ogni lettore ha il suo o i suoi personali romanzi di formazione…