Il VI canto del Purgatorio si apre con Dante e Virgilio che, giunti alla seconda balza dell’Antipurgatorio, vengono circondati dai “Morti per forza”, anime penitenti che supplicano Dante di stimolare, una volta tornato a casa, le preghiere dei loro cari a proprio beneficio in modo da accorciare l’attesa della beatitudine. Questi miseri bramano talmente la salvezza da diventare francamente petulanti.
Dante se ne sbarazza elargendo promesse a destra e a manca. Poco dopo Virgilio scorge un’ombra che se ne sta appartata, in silenzio, e li fissa come un leone accovacciato in appostamento. “Bene” – avrà pensato l’autore dell’Eneide – “a lui possiamo chiedere qual è la strada migliore per continuare l’arrampicata sul monte del Purgatorio”.
In questa cantica infatti il poeta latino, costretto nel limbo dalla volontà divina, si muove con meno agio che nell’Inferno. Tant’è che è obbligato a chiedere informazioni sul tragitto a chi incontra nel cammino, come un turista qualsiasi.
Ma alla richiesta di informazioni l’anima non risponde e, anzi, interroga a sua volta l’interrogante: Chi siete? Da dove venite?
Virgilio ha appena il tempo di iniziare a rispondere. Cita Mantova, la sua città natale, ma l’anima si alza d’improvviso e con gioia ed emozione lo interrompe abbracciandolo: “O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra!”.
Così Dante immagina l’incontro del suo maestro Virgilio con il maggior poeta provenzale d’Italia, Sordello. Un caloroso abbraccio nato dal solo fatto di essere entrambi mantovani. Il lieto incontro, tuttavia, ha un esito inaspettato. E’ infatti la miccia di una lunga invettiva politica in cui a parlare è, apertamente, non solo il Dante pellegrino ma anche l’Alighieri autore della Commedia.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
La memorabile terzina che apre l’invettiva già chiarisce cosa abbia fatto infuriare il poeta. Dante, colpito dalla semplice spontaneità dell’abbraccio tra i due conterranei, ricorda, in opposizione, la catastrofe politica dell’Italia del suo tempo, una nave senza guida con un equipaggio che litiga mentre si perde alla deriva.
E’ l’avvio del più lungo monologo di Dante Alighieri autore in tutta la Commedia, 76 versi di poesia sontuosa.
E’ proprio dai versi dell’invettiva che è tratto il titolo di questo articolo. In Italia, scrive infatti poco più avanti il poeta, “un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene”.
E’ praticamente certa l’identificazione del “Marcel” dantesco con il console Marco Claudio Marcello che nel secolo III sconfisse i Galli e poi anche i Cartaginesi a Siracusa. Virgilio lo celebra proprio nel VI canto dell’Eneide, che sia una coincidenza è poco plausibile.
“Marcel”, valente console romano, sta dunque per “salvatore della patria” e il verso vale quindi: in Italia, “qualsiasi cialtrone (villan) a capo di un movimento politico (“che parteggiando viene”) diventa un salvatore della patria”.
Verso acuto, penso, ma che trasmette oggi una pena che al tempo in cui è stato scritto probabilmente non aveva. Fa quasi tristezza; è infatti difficile confinare questa considerazione di Dante all’Italia di allora e non coglierne la pedissequa attualità.
Mi viene da domandarmi come mai questo pessimo atteggiamento diffuso nella politica italiana – e non è il solo tra quelli indicati da Dante nel canto VI del Purgatorio – ci affligga ancora oggi.
Tanto più che non è una caratteristica oscura e secondaria segnalata da qualche notista straniero. E’ una considerazione che si trova nel più celebre passaggio politico del più importante poeta d’Italia nonché – ho appreso qualche settimana fa dal Ministro della Cultura Sangiuliano – fondatore del pensiero politico della destra. Un testo, insomma, che si studia a scuola e che sicuramente tutti i politici italiani conoscono. O forse no?
Sarà che è ancora presto per recepire la critica di Dante. In fondo son passati solo settecento anni.