Definizione di arte: la posizione di Levinson

disputa arte

Una definizione di arte per alcune caratteristiche vicina a quella proposta dal filosofo di Dickie, ma che accentua l’importanza della storia nell’arte, è quella fornita da Levinson.

Secondo Levinson l’arte è qualcosa «di concepito per essere considerato un’opera d’arte» [P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, Editori Laterza, Roma-Bari 2008., p. 25] e come tale richiede una presa in considerazione, da parte dell’artista, dell’arte precedente.

Prendiamo in esame l’articolo Defining Art Historically [Levinson, Jerrold, Defining Art Historically, «BJA», n. 19, 1979, pp. 232-250; trad. it. Una definizione storica dell’arte, in S. Chiodo, Che cosa è arte, UTET, Torino 2007], per vedere più da vicino quali sono le argomentazioni con cui Levinson fa entrare l’idea della storia dell’arte nella definizione di arte.

Partendo dalla teoria istituzionale dell’arte, Levinson vuole mantenere il riferimento di Dickie e Danto a delle proprietà relazionali dell’opera, senza tuttavia accettare il carattere istituzionale del mondo dell’arte come proposto da Dickie. Su questo Levinson è molto chiaro:

Quel che nego è che le istituzioni dell’arte all’interno di una società sono essenziali per l’arte e che un’analisi dell’artisticità deve allora necessariamente comprenderle. La produzione dell’arte è primaria, mentre le strutture e le convenzioni sociali che si sviluppano attorno a essa non lo sono.
[Ivi, p. 74]

La relazione proposta da Levinson non è più tra l’opera e il mondo dell’arte considerato come una istituzione ma tra «la cosa e l’attività e il pensiero umani» [Ivi, p. 55].

La critica alla teoria istituzionale è duplice, da una parte essa non considera l’arte privata e isolata, in secondo luogo non tiene adeguatamente conto dell’apprezzamento richiesto da parte del fruitore, ossia «quale genere di sguardo deve essere chiesto allo spettatore in relazione all’oggetto» [Ivi, p. 57].

Levinson si volge quindi ad analizzare l’intenzione di un individuo indipendente (l’artista), intenzione che, a suo dire, deve essere riferita alla storia dell’arte. A tale riguardo propone una prima definizione di opera d’arte:

un’opera d’arte è un oggetto inteso per essere guardato-come-opera-d’-arte attraverso ciascuno degli sguardi con i quali le opere d’arte già esistenti sono state correttamente guardate.
[Ibidem]

La storicità proposta da Levinson è quindi un richiamo agli «sguardi» con cui le opere d’arte del passato sono state osservate. Molti dei punti toccati in questa definizione sono problematici, e Levinson ne è consapevole.

Il riferimento all’intenzione contenuto nella definizione sopra citata, creò numerose polemiche, prevedibili, in quanto va contro ad uno dei capisaldi della critica letteraria americana, il cosiddetto argomento dell’ “intentional fallacy” secondo cui le intenzioni di un autore sono irrilevanti per la comprensione e la critica della sua opera. La critica alla fallacia intenzionale da parte di Levinson è pienamente consapevole. Nell’articolo a cui mi sto riferendo, difende la sua teoria da questa possibile critica, in questo modo:

La definizione storica, se accettata, aiuta a disperdere gli effetti prolungati della cosiddetta «fallacia intenzionale», intesa come una rivendicazione dell’irrilevanza delle intenzioni degli artisti per il corretto o pieno apprezzamento delle loro opere. Perché, se le intenzioni degli artisti sono riconosciute come centrali per stabilire la differenza tra arte e non arte, non devono venire poi drasticamente dichiarate irrilevanti per la comprensione delle opere d’arte, una volta stabilito che sono costituite in questo modo
[Ivi, p. 73]

Sempre facendo riferimento alla definizione di arte sopra citata, un altro passaggio non sicuramente molto chiaro, ossia il riferimento al modo “corretto” con cui le opere d’arte sono state guardate nel passato. E’ bene dire che Levinson non specifica quale sia questo modo “corretto” limitandosi a sottolineare alcuni elementi che potrebbero essere rilevanti per delimitare la correttezza dello sguardo dei fruitori. Essi sono: «1) a quale sguardo l’artista destina la propria opera, 2) quale modalità di sguardo è più gratificante, 3) i generi di sguardo con i quali oggetti simili sono stati fruiti, 4) quale modalità di sguardo è la migliore per comprendere gli scopi […] che l’artista aveva in mente in relazione all’apprezzamento, 5) quale modalità di sguardo all’opera dà per lo più un quadro soddisfacente e coerente della sua collocazione nello sviluppo dell’arte» [Ivi, nota 5, p. 60].

Una seconda definizione data da Levinson, più particolareggiata e complessa, ma sempre basata sugli argomenti essenzialmente esplicitati nella definizione precedente, ci aiuta a comprendere altri punti delicati dell’idea proposta, che vengono anche in questo caso difesi dall’autore.

(I) X è un’opera d’arte
= X è un oggetto che una persona, o più persone, avendo un appropriato diritto di proprietà su X, non casualmente destina a essere guardato-come-opera-d’-arte, ad esempio in qualsiasi modo (o modi) attraverso il quale le opere d’arte precedenti sono o sono state correttamente (o con modalità standard) guardate.
[Ivi, p. 59]

Sono parecchie le espressioni presenti in questa definizione che Levinson chiarisce. Le affrontiamo una per una.

Il richiamo al “diritto di proprietà” viene introdotto per sottolineare un punto molto particolare: non si può rendere arte ciò che non ci appartiene. L’intenzione del proprietario è sempre prioritaria, questa almeno è l’idea di Levinson. Normalmente è l’artista ad avere il diritto di proprietà di un’opera, è quindi la sua intenzione a contare, non sempre però è così. Può accadere, ad esempio, che un manufatto antico, dall’ignota funzione, venga ritrovato e che esso non sia considerato arte finchè non viene esposto in un museo, ossia esposto per essere-guardato-come-opera-d’-arte. A questo punto, è probabile che tale oggetto venga considerato un’opera d’arte. Se tuttavia qualcuno dovesse accampare successivamente dei legittimi diritti di proprietà sull’oggetto, e non volesse esporlo non considerandolo arte ma magari un oggetto di valore religioso o privato, a dire di Levinson tale oggetto non perde semplicemente il suo statuto di artisticità, non l’ha mai avuto. Non è mai stato un’opera d’arte.

Levinson specifica inoltre che “destina a” va considerato come la sintesi di «forma, orienta o concepisce allo scopo di», in modo da accogliere all’interno della definizione anche found art e arte concettuale.

Altre specifiche richiede anche «l’intenzione di destinare a essere guardato-come-opera-d’-arte». Sembrerebbe infatti che spesse volte gli artisti non tengano minimamente conto della storia dell’arte, è possibile anche che spesso neanche la conoscano. Levinson a tale riguardo introduce la possibilità che tale intenzione sia una «intenzione non consapevole dell’arte», ossia che l’artista realizzi un’opera semplicemente avendo un’intenzione orientata verso un tipo di sguardo, pur non sapendo che tale modo di guardare l’opera sia già stato presente nella storia dell’arte.

Se però un artista non tiene in alcun modo conto dello sguardo che alla sua opera debba essere rivolto, secondo Levinson, egli fallisce nel produrre arte. Insomma l’arte deve sempre essere prodotta tenendo conto di qualcuno, del suo modo di recepirla. Anche nel caso dell’arte privata, che come abbiamo visto Levinson fa rientrare tra le arti genuine, l’arte è pensata nella mente dell’artista, nell’interesse sia dell’artista stesso che di fruitori potenziali.

Il riferimento al tempo, nella definizione come era stata prima citata, non era però esplicito. Ecco quindi la terza formulazione della definizione di arte, ancora più complessa, in cui viene esplicitato il riferimento al tempo:

(Iᵗ) “X è un’opera d’arte in t
= X è un oggetto del quale è vero in t che una persona, o più persone, avendo un appropriato diritto di proprietà su X, non casualmente lo destina (o destinava) a essere-guardato-come-opera-d’-arte, ad esempio in qualsiasi modo (o modi) attraverso il quale le opere d’arte precedenti a t sono o sono state correttamente (o con modalità standard) guardate.
[Ivi, p. 62]

In questo modo anche la teoria di Levinson viene viziata da una certa circolarità che sposta, come anche la teoria istituzionale, l’onere della decisione di cosa sia arte su qualcun altro, senza specificare perché ciò avvenga. Levinson è consapevole di questa tendenza alla circolarità di questa definizione, ma anche da essa si difende, in modo simile a ciò che aveva fatto Dickie.

E’ vero che la definizione di opera d’arte rimanda ad opere d’arte precedenti, senza mai dire cosa l’opera d’arte sia, cioè, come egli stesso scrive: «La definizione ricorsiva [la definizione sopra citata, n.d.r.), però, non spiega il senso di «opera d’arte» » [Ivi, p. 70]. A rigore però, argomenta Levinson, essa non è circolare perché rimanda sempre ad altre opere diverse, precedenti, e tale regresso nella definizione è inevitabile se effettivamente si dà arte solo riferendosi all’arte precedente.

Ciò viene chiarito da una quarta formulazione, una variante, della definizione di arte. In questa nuova formulazione viene esplicitato che il significato dell’opera d’arte attuale non richiede un richiamo ai significati delle opere d’arte precedenti ma solo alla loro estensione. Quello che conta è che ci sono state delle opere d’arte precedenti, non ciò che esse significhino:

(I’ᵗ) X è un’opera d’arte in t
= X è un oggetto del quale è vero in t che una persona, o più persone, avendo un appropriato diritto di proprietà su X, non casualmente lo destina (o destinava) a essere-guardato-come-opera-d’-arte, ad esempio in qualsiasi modo (o modi) attraverso il quale gli oggetti nell’estensione di «opere d’arte» precedenti a t sono o sono state correttamente (o con modalità standard) guardate.
[Ivi, p. 62]

Altro problema del richiamo di Levinson alla storia sta nel fatto che esso genera un regresso verso le opere già realizzate, fino ad arrivare alle prime opere d’arte, per identificare le quali verrebbe a cadere il criterio di somiglianza con le opere precedenti, essendo esse le prime. Levinson ipotizza quindi una prima forma di arte, da lui qui chiamata proto-arte, considerata tale per un accordo stipulativo.

Levinson ha successivamente sottolineato che la proto-arte è un riferimento intenzionale per coloro che hanno realizzato la “prima arte”, o meglio, quella che noi chiamiamo “prima arte” basandoci su una proiezione successiva [Cfr. P. D’Angelo, La definizione di arte, in P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, Roma-Bari 2008].

Questo richiamo alla proto-arte permette a Levinson di indicare un percorso di studio, cercare cioè di capire concretamente come erano le prime arti, le proto-arti. Le indicazioni fornite a riguardo possono servire come metodo d’indagine di queste arti antichissime. Secondo Levinson bisogna andare in cerca di queste arti ponendo sempre attenzione all’evoluzione storica che l’arte ha successivamente avuto ed in particolare, allo sviluppo di quel particolare modo di guardare le opere in quanto opere d’arte che è poi stato fondamentale, nella riproposizione o nel rifiuto, per l’arte immediatamente successiva.

Levinson, dopo queste considerazioni, fornisce un’altra variante della sua definizione, che tiene conto della proto-arte:

(II) Fase iniziale: gli oggetti della proto-arte sono opere d’arte in tᵒ (e da lì in poi). Fase ricorsiva: se X è un’opera d’arte prima di t, allora Y è un’opera d’arte in t se è vero in t che una persona, o più persone, avendo un’appropriato diritto di proprietà su Y, non casualmente lo destina (o destinava) a essere guardato-come-opera-d’-arte in qualsiasi modo (o modi) attraverso il quale X è o è stato correttamente guardato
[J. Levinson, Una definizione storica dell’arte, cit., p. 68-69]

Il riferimento alla storia dell’arte, inteso in un certo modo, potrebbe far pensare ad una sottovalutazione del ruolo dell’arte che vuole introdurre novità, rompendo i legami con il passato. Levinson deve quindi spiegare come sia possibile in questa prospettiva, giustificare un “arte rivoluzionaria”. E’ solo quest’arte, quella realmente rivoluzionaria, che può, a suo dire, mettere in crisi la sua teoria.

L’arte semplicemente “originale”, o anche “debolmente rivoluzionaria”, può essere ricompresa nella sua prospettiva, essa infatti non comporta alcuna modifica delle modalità con cui le opere sono guardate. L’arte rivoluzionaria invece «sembra domandare, in definitiva, un genere di sguardo che non ha alcun precedente» [Ivi, p. 66].

Egli sembra avere in mente, parlando di arte realmente rivoluzionaria, in particolar modo il Dadaismo.

Uno dei modi con cui Levinson ricomprende l’arte rivoluzionaria nella sua prospettiva è quello di sottolineare come sia possibile che anche un’arte che rompe ogni schema tradizionale di fruizione debba comunque innanzitutto riferirsi ad un modo di guardare le opere già presente nel passato. Il fruitore si rivolgerebbe all’opera d’arte rivoluzionaria con una modalità di fruizione tradizionale, solo che l’opera rifiutando tale sguardo, spinge il fruitore verso un nuovo modo di guardare. Il passaggio attraverso uno sguardo già presente nella storia dell’arte sarebbe in questo caso propedeutico al raggiungimento dell’obiettivo primario dell’opera.

In alternativa, sostiene Levinson, si può allargare il concetto di sguardo-come-a-un’-opera-d’-arte includendo in esso anche la possibilità di uno sguardo in contrasto, apertamente contro, le modalità di guardare tradizionale. In questo senso nella fruizione dell’opera d’arte rivoluzionaria non si passerebbe attraverso un modo di guardare tradizionale ma si manterrebbe il riferimento ad esso, rifiutandolo.

Dall’insieme delle considerazioni e delle specifiche sopra fatte si comprende come questa definizione sia davvero molto articolata, tanto da correre il rischio di divenire praticamente inutilizzabile. Il nucleo teorico di essa è comunque importante, e sta nel riconoscimento della centralità dei modi di guardare l’arte precedenti a cui, anche inconsapevolmente, un’artista si riferisce. Il modo in cui Levinson tratta l’arte rivoluzionaria è molto rilevante a riguardo; egli sembra dirci che una rivoluzione artistica si fa, magari rifiutando il passato, ma senza mai farlo completamente fuori, altrimenti, semplicemente, non si sta più facendo arte.

No Comments Yet

Leave a Reply

Your email address will not be published.